Archivi tag: “Teatro Stabile Torino”

MOBY DICK ALLA PROVA – ELIO DE CAPITANI

Portato in scena per la prima volta a Londra nel 1955, il Moby Dick di Orson Welles si rivelò essere molto più di una semplice riduzione per le scene del celebre romanzo di Melville. Il sottotitolo “Rehearsed” lasciava intendere fin da subito la sua natura espressamente teatrale: quello che il pubblico si trovava davanti all’aprirsi del sipario non era esattamente Moby Dick, ma una compagnia di attori che discute su come sia possibile mettere in scena un romanzo di tale portata nello spazio ristretto di un palcoscenico, e seguita a tentare nell’impresa.  “È l’ultima pura gioia che il teatro mi abbia dato” ebbe a dire Welles dello spettacolo più avanti.

Continua la lettura di MOBY DICK ALLA PROVA – ELIO DE CAPITANI

BALASSO FA RUZANTE – NATALINO BALASSO

La migliore commedia è, forse, quella che riesce con i suoi toni leggeri e buffoneschi a scavare dentro i suoi soggetti, toccando argomenti ben più profondi di quanto si potrebbe pensare ad una prima occhiata superficiale. È la commedia che riesce ad inquadrare e raccontare una realtà in ogni sua sfaccettatura, spesso e volentieri mettendone a nudo gli aspetti più oscuri, mostrando i sentimenti complessi e amari che si celano dietro una risata. Nel nostro paese possiamo dire di vantare una tradizione secolare di questo tipo di tragica comicità, una tradizione che affonda le sue radici nel popolare, e che ha trovato accoglienza in tutto il mondo, proprio per l’universalità dei temi trattati.

Continua la lettura di BALASSO FA RUZANTE – NATALINO BALASSO

SI NOTA ALL’IMBRUNIRE (SOLITUDINE DA PAESE SPOPOLATO) – LUCIA CALAMARO

È la solitudine, in tutte le sue sfaccettature, a fare da protagonista in Si nota all’imbrunire, scritto e diretto dalla drammaturga Lucia Calamaro ( anche autrice dell’omonimo libro ) con la produzione di Silvio Orlando e della moglie Maria Laura Rondanini.

Continua la lettura di SI NOTA ALL’IMBRUNIRE (SOLITUDINE DA PAESE SPOPOLATO) – LUCIA CALAMARO

RAGAZZI DI VITA

“Faceva un caldo, che non era scirocco, che non era arsura, ma era soltanto caldo. Era come una mano de colore”;  esordisce  così Lino Guanciale, il narratore di “Ragazzi di Vita” nel primo adattamento teatrale dell’omonimo romanzo di Pasolini.

 

 

 

Un’idea nata nel 2016, a quarant’anni dalla morte dell’autore, che riproduce fedelmente il contenuto dell’opera pasoliniana, raccontando le vicende di alcuni ragazzi appartenenti al sottoproletariato romano.

La storia si svolge nell’immediato dopoguerra: le vicissitudini dei personaggi sono in realtà lo specchio del degrado sociale  di un paese profondamente segnato dal conflitto.
La miseria è la protagonista indiscussa delle vite di questi giovani -i “ragazzi di vita”- che della vita sono pedine in mano al fato, ma che non si arrendono all’idea di un’esistenza passiva, cercando di arrangiarsi come possono. Le famiglie non sono più un punto di riferimento e spesso anzi sono contenitori vuoti, senza valori.
I ragazzi , allo sbando più totale, non vogliono rassegnarsi allo scorrere tedioso del tempo e pertanto ricorrono a  passatempi che sono il ritratto della povertà morale e materiale che li circonda.
Le parole cominciano a manifestarsi ai nostri occhi in maniera tangibile, nonostante la presenza di una scenografia minimalista ma funzionale e coerente all’idea di decadenza che si vuole trasmettere.

 

Il racconto procede per capitoli isolati, sviscerando brevi aneddoti significativi tenuti insieme dall’abile maestria di Lino Guanciale, alter ego di Pasolini.
Egli si aggira tra una scena e l’altra un po’ narratore un po’ spettatore, talvolta insinuandosi in punta di piedi nella narrazione, senza mai però scombinare gli equilibri di quello spettacolo di vite incerte ma strepitanti.

 

 

I personaggi (18 attori in scena) si esprimono in un dialetto romanesco di borgata e contemporaneamente parlano in terza persona attraverso la prosa letteraria, come a voler segnare un distacco narrativo nella descrizione delle azioni da loro compiute.

Ogni attore, proprio come una piccola rotella dentata, ha reso possibile il funzionamento di un complesso ingranaggio con il risultato di un meccanismo pressocché  perfetto. Ogni storia lascia il segno, passando in pochi minuti dal dramma alla pura leggerezza, il tutto con un ritmo ben sostenuto.

Oggettivo merito va conferito, oltre che ad un bravissimo narratore, a ogni interprete e alla raffinata regia di Popolizio:  grazie anche all’esperienza attoriale, riesce  a conferire consapevolezza alle parole sul palcoscenico, conscio di come l’attore ne diventi veicolo. Vincitore di tre premi alla regia: “Ubu”, “Critica” e “Le Maschere”.

Va riconosciuta inoltre la nota piacevole data dalle canzoni dal vivo inserite nella partitura, che pervadono lo spettatore di una struggente tenerezza.

In tal senso è doveroso citare tutta la compagnia oltre a Guanciale: Lorenzo Grilli (Riccetto), Alberto Onofrietti (Genesio), Josafat Vagni (Agnolo) Sonia Barbadoro, Giampiero Cicciò, Roberta Crivelli, Flavio Francucci, Francesco Giordano, Michele Lisi, Pietro Masotti, Paolo Minnielli, Cristina Pellica , Lorenzo Parrotto, Silvia Pernarella, Elena Polic Greco, Francesco Santagada, Stefano Scialanga e Andrea Volpetti.

Una furiosa ed impulsiva lotta alla quotidianità, che ci fa uscire da teatro colmi di una felicità apparente, rivolgendo un ultimo tenero e malinconico sguardo a quei ragazzi che la vita l’hanno segnata sulla pelle.

Di Pier Paolo Pasolini

Drammaturgia: Emanuele Trevi
Regia Massimo:  Popolizio

Scene: Marco Rossi
Costumi: Gianluca Sbicca
Luci: Lugi Biondi
Canto: Francesca della Monica

 

Ilaria Stigliano

 

Matilde e il tram per San Vittore

Il sipario è aperto quando ci sediamo in platea. Delle grandi e alte lastre di ferro sovrastano il fondo del palco in una fila orizzontale che sembra infinita, e in mezzo alla scena vediamo solo un tavolo con due panche, anch’essi di ferro. L’atmosfera è quindi fredda, pesante, inquietante, come lo è il tempo in cui saremo catapultati a breve.

Del resto siamo in una fabbrica, e l’ambiente non può altro che essere grigio e opprimente. Ce lo rivela la prima attrice che entra in scena, iniziando a raccontare la storia dei tre grandi scioperi partiti dalle fabbriche di Milano dal 1943, durante la seconda guerra mondiale. Migliaia di operai, stanchi delle condizioni di lavoro inumane, della fame, della vita che stavano conducendo sotto la scure fascista, si ribellano con fierezza alla logica della guerra: se non si fabbricano più le armi, forse anche la guerra finirà. A seguito dello sciopero del 1943 ce ne furono altri due, nel ’44 e nel ’45: una lenta marcia verso la deportazione e la morte per centinaia di operai.

Presto scopriamo che le attrici in scena saranno tre, ma le anime a cui daranno voce sono molte di più: tratto dal libro Dalla fabbrica ai lager di Renato Sarti, lo spettacolo rende giustizia alle storie delle donne, madri, figlie, sorelle degli uomini deportati nei campi nazisti, che prendono vita attraverso l’impeccabile performance artistica di Maddalena Crippa, Debora Villa, Rossana Mola: emozionanti, emozionate, ci trasportano in un epoca buia con le loro parole e azioni taglienti come lame.

Le vicissitudini di queste famiglie si susseguono senza sosta, dando vita a un puzzle che sembra quasi impossibile: la paralisi dei grandi stabilimenti del milanese porta alla paura di essere trovati dalla polizia nazifascista, allo smarrimento di non sapere che fine abbiano fatto i propri uomini.

Poi c’è la speranza di poterli rivedere, di potergli portare vestiti e viveri prima che siano trasferiti a “lavorare” in Germania: là fa freddo, ci ricordano le voci che aleggiano come fantasmi disperati intorno a noi, ed è necessario riuscire a portare ai cari in partenza almeno il cappotto. La frenesia del viaggio attraverso le stazioni lombarde di queste donne viene resa perfettamente dalla recitazione che si fa sempre più ritmata, come una marcia, quasi esasperata, fino ad arrivare alla partenza del treno, verso una meta ignota. Tante donne non erano nemmeno riuscite, nella calca impazzita, a salutare i figli, i mariti, i fratelli, a dargli il maglione o il tozzo di pane che avevano preso repentinamente da casa prima di andare di corsa alla stazione più vicina per raggiungerli.

E tante donne non parleranno nemmeno più con i loro familiari, amici: l’ultima parte dello spettacolo è infatti dedicata alle storie di chi non è più tornato, del vuoto che ha lasciato nel cuore e nelle case di molte famiglie. Ma anche a chi è riuscito a tornare, e negli occhi e nel cuore non ha più avuto lo stesso vigore con il quale era partito: uomini che non riusciranno mai a esprimere la sofferenza che hanno visto e vissuto sulla loro pelle, ma che ogni notte piangeranno in silenzio accanto alle mogli apparentemente addormentate.

Notevole la regia, che attraverso le luci ha esaltato perfettamente i sentimenti di panico, dolore, paura, smarrimento provati dalle tante donne che hanno avuto il coraggio di raccontare la loro storia. Inoltre è stato dato grande rilievo alla componente uditiva, soprattutto durante i racconti delle retate notturne nazifasciste: grazie all’uso abile delle componenti scenografiche in ferro, le attrici riuscivano a far emergere, almeno in parte, quella che doveva essere la confusione e il terrore dato anche dai forti rumori e suoni che rimbombavano nella notte silenziosa.

Una Resistenza, quindi, narrata in modo commovente dal punto di vista femminile di donne forti che si sono trovate improvvisamente a gestire situazioni impensabili, di violenza, miseria e dolore. Come ricorda infatti il regista Renato Sarti: “Fin dalle tragedie greche la voce delle donne è quella che meglio di ogni altra riesce a rievocare l’orrore della guerra, che sempre nuovo, purtroppo, si ripete”.

 

Di Alice Del Mutolo

 

di Renato Sarti
dal libro di Giuseppe Valota Dalla fabbrica ai lager
con Maddalena Crippa, Debora Villa, Rossana Mola
regia Renato Sarti
scena e costumi Carlo Sala
musiche Carlo Boccadoro
luci Claudio De Pace
progetto audio Luca De Marinis
dramaturg Marco Di Stefano
Teatro della Cooperativa
sostenuto da NEXT 2017/18 – Regione Lombardia con il patrocinio di ANPI, Istituto Nazionale Ferruccio Parri
e ISEC e dei comuni di Albiate, Bresso, Cinisello Balsamo, Monza e Muggiò con il sostegno di ANED

 

 

 

La ballata di Johnny e Gill – Fausto Paravidino

Una linea sottile orizzontale, l’universo appiattito, come in un buco nero. L’assenza di tempo e spazio. Una visione dall’alto che è anche visione senza tempo, al di sopra di tutto, primigenia e pura. La fine e l’inizio del mondo. L’anima che si fa Assoluto. Con questi presupposti, lo spettacolo crea il mondo, mondo in cui la necessità, l’imperativo morale è la migrazione. Mondo in cui si erge incontrastata e solinga la torre di Babele, monito del peccato di ubris dell’uomo. Segno della dispersione dell’uomo, diviso in lingue diverse. Gli uomini  tutti fratelli, ben presto si dispersero, chiusi nella loro incomunicabilità, divennero estranei. Ma al centro di tutto c’è sempre un uomo, un uomo qualunque non un santo: Abramo, a cui Dio, dà il compito terrificante di andare a conoscere gli altri uomini. Abramo lascia tutto e parte, non importa se spinto davvero da Dio, o semplicemente dall’impellenza o necessità di viaggiare e conoscere l’altro. Da qui ha origine la nostra civiltà, una civiltà di migrazione continua. La necessità di cambiare la propria condizione esistenziale e materiale verso una terra promessa.

“Vattene dal tuo paese, dalla tua patria / e dalla casa di tuo padre / verso il paese che io ti indicherò”, il Signore ad Abramo.

Fausto Paravidino, il Dramaturg del Teatro Stabile di Torino, mette in scena in qualità di regista e sceneggiatore, oltre che attore, lo spettacolo La Ballata di Johnny e Gill. Uno spettacolo diverso da quelli in cui siamo soliti imbatterci, se bazzichiamo tra le sue opere. Non più i kitchen sink drama degli esordi, da qualche anno Fausto Paravidino fa del teatro diverso, un teatro sempre contemporaneo, che guarda all’attualità per abbracciare tutto quello che offre, quindi anche il suo passato, la Storia tutta. I Fenomeni che vediamo non sono nuovi, ma repliche di azioni che abbiamo già fatto anni addietro. E allora viene spontaneo partire dalla Bibbia, testo cardine della nostra civiltà, testo che ci culla di nascosto fino al contemporaneo.

Lo spettacolo è una fiaba di qualcosa che non capiamo, con cui non riusciamo a fare i conti. La storia è costruita per quadri, riuniti parzialmente da delle dissolvenze in nero. Johnny e Gill sono italiani, sebbene non lo si dica apertamente. Vendono il pesce, ma non sono soddisfatti della loro condizione. Johnny, dopo uno strano sogno con uomini mascherati, forse emissari del Signore o semplicemente incarnazioni dei suoi turbamenti interiori, prende la moglie Gill e l’amico Lucky e decide di andare via dalla sua terra. Attraversano diversi luoghi, emblema di tutte le migrazioni passate e future, luoghi che portano con sé  i mali dell’uomo che non ha ancora accettato la diversità di Babele. Quindi il deserto con le sue carestie e i suoi predoni/terroristi, sciacalli perversi che spolpano la vittima lasciandola in agonia ad assaporare la sua vacanza spirituale tra la sabbia. I soldati corrotti, che invece si divertono a macerare ulteriormente questa carne sopravvissuta al deserto. E infine il mare, calma piatta di una tempesta in agguato. Sale, arsura, onde. Ma dov’è la terra promessa? Eccola! L’America, luogo della mente. Dove tutti sognano di andare. Paese dei Balocchi, dove i sogni saranno realtà. La massiccia immigrazione italiana in America in anni forse dimenticati di proposito, se si nota con quanto odio accogliamo oggi lo straniero. La xenia, l’ospitalità dell’antica Grecia. Era un dovere sacro per i greci ospitare chi chiedeva l’ospitalità. L’America che ci accoglieva, magari non per dovere, ma accoglieva. Cosa che oggi, pare, si sia persa nei meandri della storia, sia America come in Italia.

Johnny e Gill si scontrano con culture e lingue diverse , si sentono estranei. Gli attori nello spettacolo parlano inglese, francese e grammelot. La lingua può essere un ostacolo ma quando c’è volontà di capire, la si capisce. Dio ha punito gli uomini costringendoli a parlare diversamente, ma in questo spettacolo e sia all’esterno di esso, nel mondo delle migrazioni, c’è la necessità di ricongiungere quello che è stato diviso. Johnny e Gill, in questa nuova terra, fanno quello che sanno fare meglio: vendono il pesce. Incontrano il boss locale, ottengono il suo rispetto. Imbattersi nel boss locale, se si apre un’attività nella zona controllata da questo individuo, è un’usanza, un rito. Zeus proteggeva i viandanti, la xenia, Zeus Xenios. Ora a proteggerli c’è il Padrino. Nonostante gli imprevisti la loro attività avrà successo, ecco l’America che dà possibilità, il sogno americano. La loro vita scorre in parallelo a quella di Abramo: Gill/Sara non potrà avere figli e per questo tentano la strada dell’utero in affitto. Da Agar, la donna che si presta a ciò e che ha lo stesso nome anche della schiava di Abramo, nascerà il loro bambino, Ismaele. La gelosia tra Gill e Agar porterà all’allontanamento di questa e del bambino non riconosciuto. Spetterà ad un tassista vestito da Babbo Natale, annunciare la venuta di un bambino: “ Avrete un bambino, ma ricordatevi, donando la vita si dona la morte, il figlio sarà vostro ma non vi apparterrà: un giorno dovrete restituirlo”. Questo Dio camaleontico infonde speranza in ogni cosa. Ecco il bambino, ecco Isacco. Nella nostra epoca un sacrificio di un figlio come sarebbe possibile e visualizzabile? C’è sempre un sacrificio all’angolo della strada. La guerra, la patria che sacrifica i suoi figli, il figlio che torna allo zio Sam che lo richiede. La guerra in Iraq dopo gli attentati di Al-Qaeda, si presta ad inglobare i figli della terra. Ecco il sacrificio. Ma come Dio salva Isacco, anche il figlio di Johnny e Gill è salvo dalla guerra, così continueranno la loro vita in pace.

La guerra e le migrazioni sono fondamentali per capire il nostro tempo, per individuare il punto da sanare che è lì visibile e aspetta solo la cessazione di queste oscenità. Le persone scappano dalle guerre, dalla povertà, da condizioni esistenziali inaccettabili e ha il diritto di farlo, di migliorare la condizioni. Queste persone lasciano tutto per l’ignoto, per una fede in qualcosa che spesso idealizzano, il paradiso ci sarebbe, ma noi abbiamo deciso di chiuderlo, i porti sono chiusi. Noi abbiamo invece il dovere di accogliere, la xenia dovrebbe essere normale, la regola. Le migrazioni sono anche un fenomeno culturale, un fenomeno per ricongiungere i popoli, per riconoscersi attraverso le diversità. Questo lo spettacolo mette in scena con ironia beffarda e riso ammiccante. La fede, la necessità di poter cambiare di senso la torre di Babele, da monito di peccato a un peccato di ubris ancora maggiore, ma bello: la voglia di accogliere e comprendere il diverso. A noi non ci resta che avere fede nei pesciolini gialli: quando siamo tristi pensiamo a loro.

Emanuele Biganzoli

 

Testo e regia Fausto Paravidino
Ideazione Iris Fusetti e Fausto Paravidino
con Federico Brugnone, Iris Fusetti, Fatou Malsert, Daniele Natali, Tibor Ockenfels, Fausto Paravidino,
Aleph Viola
scene Yves Bernard
luci Pascal Noël
video Opificio Ciclope
costumi Arielle Chanty
maschere Stefano Ciammitti
musiche Enrico Melozzi
coreografia Giovanna Velardi
aiuto regia Maria Teresa Berardelli
Le Liberté, scène nationale de Toulon, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Il Rossetti Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, La Criée – Théâtre National de Marseille, Pôle Arts de la Scène
Les Théâtres de la Ville de Luxembourg

LA SCORTECATA – EMMA DANTE

La vicenda che Emma Dante porta in scena è liberamente ispirata alla decima fiaba della prima giornata de Lo cunto de li cunti  di Gianbattista Basile (1556-1632), riproposta in un’originale chiave comico-grottesca.

La scenografia è ridotta al minimo: uno sfondo nero, due piccole sedie di legno, un castello giocattolo e pochi essenziali oggetti funzionali alla narrazione dei fatti, la quale viene affidata esclusivamente alla bravura dei due protagonisti: Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola.

 

Essi mettono in scena la vita di due sorelle vecchie, brutte e soprattutto sole.

Per combattere la lentezza del tempo, le due donne inscenano la favola della scortecata. Due vecchie vivono isolate in una casupola. Un re, passando nei pressi dell’abitazione, si innamora della voce della più giovane delle due. Questa decide di cedere alle lusinghe del re, illudendosi di giungere a un lieto fine che la dipinge come una donna finalmente apprezzata e desiderata.

Si concede dunque al sovrano, richiedendo una stanza senza luce, al fine di non mostrare la sua bruttezza, ma passata la notte, il re scopre l’inganno e caccia la vecchia dal palazzo.

Qui avviene il miracolo: una fata viene in soccorso della donna, e realizza il suo più grande desiderio, rendendola giovane e bella.

Nel suo nuovo corpo, è finalmente accettata dal re che la chiede in sposa.

La sorella, invidiosa, si farà invece scorticare da un barbiere, illudendosi che sotto la pellaccia nera potesse essercene una nuova, fresca e giovane.

[…] E, fattola sedere su uno scannetto, cominciò a fare macello di quella scorza nera, che piovigginava e piscettava tutta sangue e, di tanto in tanto, salda come se si stesse radendo, diceva: “Uh, chi bella vuol parere, pena deve patire!”

Nella rilettura di Emma Dante, il tentativo delle due sorelle di rivivere la favola fallisce nel momento in cui la più giovane delle due realizza la drammatica inconsistenza del loro sogno e prende un’atroce decisione.

L’essenzialità della scenografia e delle luci, sommata alla straordinaria bravura degli attori, crea un equilibrio efficace fra la comicità e la disperazione del racconto.

Il pubblico ha assistito alla rappresentazione con un atteggiamento curioso e volto a cogliere le giuste sfumature di significato delle battute, che, al di là del registro “basso”, enfatizzato dal dialetto napoletano , nascondevano una particolare intensità emotiva.

Un solo applauso durante l’intera esecuzione, alla fine, quando il pubblico, visibilmente commosso, arriva a comprendere il principale messaggio del racconto.

Improvvisamente tutta l’opera prende senso e la dinamicità degli eventi cede il posto a una lenta e angosciosa riflessione sull’utopia dell’eterna giovinezza.

Aurora Colla

 

liberamente tratto da: Lo cunto de li cunti
di Giambattista Basile;
con Salvator e D’Onofrio, Carmine Maringola;
testo e regia Emma Dante
elementi scenici e costumi Emma Dante
luci Cristian Zucaro
assistente di produzione Daniela Gusmano
assistente alla regia Manuel Capraro

Prima rappresentazione assoluta

Spoleto – 60° edizione Festival dei Due Mondi

 

La classe operaia va in paradiso – Claudio Longhi

“Su questa terra verrà creato il paradiso migliore che sia, non sarà quello del proletariato, ma sarà quello della borghesia”. Una canzoncina ci culla, accarezzandoci dolcemente, è la Ninna Nanna del capitale di Fausto Amodei.

Claudio Longhi porta in scena al teatro Carignano di Torino lo spettacolo La classe operaia va in paradiso. L’adattamento teatrale dell’omonimo film di Elio Petri del 1971, opera cardine del cinema italiano e necessario per quegli anni, ha l’intento di usare il passato come specchio, o meglio travestimento, parola molto cara al regista, del presente. Il presente che ci troviamo a vivere è un tempo di crisi, in cui le strutture si mettono in discussione, un tempo interessante. Quindi guardare lontano per vedere meglio chi siamo oggi.

Lulù Massa (Lino Guanciale) è un operaio che deve mantenere due famiglie, stakanovista e sostenitore del lavoro a cottimo, grazie al quale, lavorando a ritmi infernali, riesce a guadagnare abbastanza da permettersi l’automobile e altri beni di consumo. Lulù è amato dai padroni, che lo utilizzano come modello per stabilire i ritmi ottimali di produzione, e odiato dai colleghi operai per il suo eccessivo servilismo. Non ha nessuna vita sociale, nessun dialogo con i propri cari, non riesce neppure più ad avere rapporti con la compagna. La sua vita continua in questa totale alienazione, finché un giorno ha un incidente sul lavoro e perde un dito. Sarà da qui che parte la sua discesa sulla terra, dove l’alienazione svanisce un poco per volta. Basta un infortunio per uscire dal paradiso della fabbrica e vergognarsi per la propria condizione di sfruttato. Così Lulù ha maggiore consapevolezza, ma nel mondo di fuori, nuovo ai suoi occhi è disorientato, non sa cosa fare. Lo guidano i suoi due angeli custodi, o meglio coloro che vorrebbero soddisfare tale ruolo, ma che finiscono per essere dei consiglieri mendaci. Lo studente e il sindacalista, il gatto e la volpe, randagi che chiedono l’elemosina, in questo caso di persone, per le loro lotte al padrone, e allo stesso tempo che apparecchiano inganni ai danni degli onesti lavoratori. Inganni che promettono la lotta contro Dio, senza un progetto compiuto e quindi ignaro delle conseguenze. Lulù perderà, a causa delle sue contestazioni, il lavoro, verrà meno la sua ragion d’essere. Ma Dio è misericordioso, e così Lulù sarà redento da questa sua devianza e verrà riammesso in Paradiso.

Lo spettacolo è intriso di Bertolt Brecht, nume tutelare chiamato in causa in diverse circostanze. L’intento di far riflettere su quello che accade sul palcoscenico, ma anche su quello che accade al di fuori, nella vita di tutti i giorni, si amalgama bene attraverso elementi di rottura della continuità scenica, come i personaggi di Pirro e Petri, e soprattutto dalla figura del narratore, un cantastorie che rilassa il pubblico con canzoni di Fausto Amodei, per poi spronarlo a continuare la sua riflessione. L’attualità è ampiamente evocata: dal lavoro al conflitto con il femminile, attraverso la figura di Adalgisa, una giovane all’interno del mondo virile della fabbrica, ma anche i rapporti familiari. La famiglia è il risultato di tutto ciò che si acquista. Il visone come stato sociale, per citare l’attrice. Abbiamo indossato tutti un visone e ora non sappiamo più riconoscere la nostra pelle naturale, viviamo in una società che tende a coprire le nostre individualità. Una società in cui l’unica via di fuga non è rappresentata da Lulù, che viene inglobato di nuovo nella fabbrica, ma da Militina, figura da tragedia antica. Un pazzo che vede la contemporaneità e chissà forse anche il futuro. Capace di sognare l’utopia per essere profeta di una rivoluzione.

Uno spettacolo necessario, intenso, che oltre a deliziare le nostre papille emotive ci induce a chiederci che cosa sia oggi il proletariato. La risposta a questa domanda sarò una lunga quete tra i meandri della nostra società, forse appagata solo alla fine dalla semplice constatazione che oggi il proletariato è tutto ciò che sogna non di andare in Paradiso, ma di avere un posto da vivere pienamente fuori da esso.

“Proletari di tutto il mondo unitevi!”. Una vocina ci reca fastidio, ma presto scompare, silenzio. Cos’era? Tendiamo di nuovo l’orecchio, ma nulla. Distratta, la gente se ne va. Ma chi era? Forse proprio Lulù Massa? O quello studente fracassone e perdigiorno? E il sindacalista? No per carità! A casa presto, che domani si lavora. Era il Militina!!!

Emanuele Biganzoli

Liberamente tratto dal film di Elio Petri (sceneggiatura Elio Petri e Ugo Pirro)
di Paolo Di Paolo
con Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo, Filippo Zattini
regia Claudio Longhi
scene Guia Buzzi
costumi Gianluca Sbicca
luci Vincenzo Bonaffini
video Riccardo Frati
musiche e arrangiamenti Filippo Zattini
regista assistente Giacomo Pedini
assistente alla regia volontario Daniel Vincenzo Papa De Dios
Emilia Romagna Teatro Fondazione

COPENAGHEN: DIALOGO TRA SCIENZA E ETICA

Nel 1941 il fisico tedesco Werner Karl Heisenberg si reca a Copenaghen per incontrare il suo maestro, Niels Bohr. Dall’ultima volta che si sono visti, le cose sono molto cambiate: l’occupazione nazista, le leggi razziali (anche se in quel momento non ancora valide in Danimarca) e il velo cupo di terrore che si era depositato sull’Europa. In questo contesto i due fisici hanno una conversazione che li porta all’estrema rottura, Bohr infatti lo caccia di casa. Ma cosa si sono detti? Di cosa hanno parlato di preciso? Quali sono state le esatte parole che hanno utilizzato?

Questo è ciò che il testo e lo spettacolo cercano di indagare, per fare i conti con il passato e dare un senso a parole e azioni di più di cinquant’anni fa: gli attori parlano infatti con noi, come se volessero spiegarci che cosa sia avvenuto in quel fatidico incontro.

Come se si ritrovassero dopo anni e anni, dopo la loro stessa morte, in un tempo e uno spazio sospesi tra formule fisiche e un passato che schiaccia le loro coscienze, i due fisici e la moglie di Bohr, Margrethe, vogliono ripercorrere nei minimi dettagli il loro incontro, in primo luogo per capire loro stessi. Margrethe è un personaggio strategico, con le sue osservazioni funge come da punto di vista esterno, un ago della bilancia che, quando la rievocazione di ricordi fra i due fisici si fa troppo nostalgica, li riporta al punto principale dell’indagine.

La scenografia, alta, nera e imponente, è composta da una serie di lavagne poste asimmetricamente, piene zeppe di formule matematiche e fisiche. Le luci giocano molto sul chiaroscuro, creano una scena introspettiva e la musica, presente solo in pochi momenti, funziona da contrappunto per aiutare lo spettatore a mantenere sempre l’attenzione vigile. Inoltre i costumi degli attori sono tutti composti dai toni del grigio e per tutto lo spettacolo i personaggi orbitano l’uno attorno all’altro, spostandosi come in una danza scientificamente studiata. Tutto questo contribuisce a dare la sensazione di trovarci proprio nella loro mente, nei loro ricordi, partecipi di questa ricerca di risposte.

La recitazione dei tre attori è davvero magistrale: ognuno di loro costruisce un personaggio estremamente sfaccettato e allo stesso tempo coerente in ogni dettaglio e, nonostante durante le conversazioni si raggiungano picchi di tensione altissimi, nessuno di loro perde mai la concentrazione.

La forza delle loro parole è sottolineata anche dal fatto che fossero molto statici e che quasi mai si toccassero o interagissero fra di loro. Le questioni etiche sui limiti della ricerca scientifica, o i dialoghi sulla condizione umana, solo affrontati in questo modo potevano arrivare allo spettatore taglienti come lame.

Perché sì, questo spettacolo, oltre ad intrecciare piani temporali e a rievocare ricordi apparentemente sconnessi tra loro, è anche un susseguirsi di interrogativi legati alla filosofia, all’etica, alla scienza, a cosa sia lecito e cosa non lo sia più in determinate circostanze.

Entrambi i fisici erano vicini a un traguardo che avrebbe portato alla realizzazione della bomba atomica. Bohr accusa Heisenberg ferocemente, perché accetta di lavorare sotto il regime nazista, regime che si stava macchiando dei peggiori crimini pensabili, e lo condanna proprio per le sue ricerche collegate ad un arma che avrebbe potuto distruggere l’umanità. Ma Heisenberg non riuscirà mai a creare la bomba atomica, poiché, come lui stesso ci confessa, non riusciva (o forse non voleva?) risolvere una formula. Invece Bohr, che sarà costretto a scappare negli Stati Uniti perché per metà ebreo, userà le sue conoscenze e il suo sapere per contribuire alla realizzazione della bomba che sarà poi sganciata dagli americani sul Giappone.

Ed è questa la grandezza dello spettacolo: gli attori, con la loro forza recitativa, ci pongono continuamente delle questioni da risolvere, ma ci fanno uscire dal teatro più confusi di prima e senza una risposta. Alla fine, l’interrogativo che ci risuona nella mente, è solo uno: chi è da condannare, Heisenberg o Bohr?

 

Di Alice Del Mutolo

 

di Michael Frayn
con Umberto Orsini, Massimo Popolizio
e con Giuliana Lojodice
regia Mauro Avogadro
scene Giacomo Andrico
costumi Gabriele Mayer
luci Carlo Pediani
suono Alessandro Saviozzi
Compagnia Umberto Orsini e Teatro di Roma – Teatro Nazionale
in coproduzione con CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia
si ringrazia Emilia Romagna Teatro Fondazione

LA MALADIE DE LA MORT

                   

 

LA MALADIE DE LA MORT
Regia KATIE MITCHELL

In una stanza d’albergo, unica ambientazione dello spettacolo, assistiamo a un dramma amoroso, o meglio a un dramma erotico, perché di amoroso fra i due protagonisti non c’è nulla dall’inizio alla fine. Anzi, è l’impossibilità d’amare il motore centrale della storia, fra una donna (Laetitia Dosch) e un uomo (Nick Fletcher), una donna pagata per più notti con l’unico scopo di esaudire tutte le follie erotiche di un uomo che, come lui stesso dice durante lo spettacolo, non ha mai amato una donna, lasciando  presagire un suo lato omosessuale. La regista britannica Katie Mitchell, con l’aiuto di Alice Birch, ha deciso di raccontare una storia tratta dall’omonimo libro di Marguerite Duras. Una storia triste e malinconica con uno sfondo di speranza, una speranza di vita, che si evince da alcuni serrati dialoghi fra i due protagonisti, speranza che viene puntualmente stroncata dalle aggressive reazioni dell’uomo, dimostrando così di essere malato, di una malattia che verrà chiamata successivamente dalla donna “malattia della morte”. E’ l’incapacità d’amare che porta a non vivere e dunque a morire, la maladie de la mort. Morire pian piano dentro di sé, trovando come unica soluzione il voler togliere ad un altro la vita che tu non riesci a costruirti, ed i vani tentativi di uccidere la donna da parte dell’uomo ne sono la dimostrazione. All’instabile e imprevedibile rapporto fra i due si aggiunge un ricordo ancora acceso e vivo nella donna, che si ripete e torna in mente ogni qualvolta lei entra nella stanza d’albergo. La scena, che torna per tutta la durata dello spettacolo, solo alla fine si svela allo spettatore limpida e nitida in tutta la sua completezza: è un trauma che la donna, allora bambina, visse quando trovò il padre impiccato in casa. L’atmosfera triste e malinconica che è la conseguenza di una storia che non trova sbocchi di serenità, è rafforzata dall’effetto che la regista ha voluto infliggere sull’ambiente, estremamente provante e caratterizzato da una scelta di luci e musiche che sembrano andare in un’unica direzione, quasi a rafforzare il concetto, se ce ne fosse bisogno, gioco di ombre, ambientazioni prevalentemente oscure. Uno spettacolo stravolgente e coinvolgente che ti fa entrare quasi in scena. Quella stanza d’albergo sembrava allargarsi a tutto il teatro, come se ognuno di noi non avesse un seggiolino per guardare lo spettacolo ma una camera in quell’albergo e guardasse impotente quello che nella stanza affianco stava succedendo.

Lo spettacolo con il suo procedere lento e angosciante, ha la caratteristica di tenere lo spettatore con il fiato in sospeso fino alla fine, in una condizione quasi di apnea. La stessa condizione nella quale era, per precisa volontà della regista, Jasmine Trinca, racchiusa in una cabina con la sua inconfondibile voce allo scopo semplicemente di narrare, rimanendo distaccata dalla scena, dove non è mai entrata, mantenendo piuttosto il ruolo di collante fra la scena stessa e il pubblico.
La storia è un set a cielo aperto. Le scene sul palco sono seguite, per tutta la durata dello spettacolo, da tre macchine da presa che insieme allo schermo situato sopra gli attori rappresentano un esperimento, fra teatro e cinema. Due mondi, due modi di fare arte paralleli ma che finora si sono incontrati di rado.

Grazie all’intraprendente regista britannica, nonostante le difficoltà, dovute alla lingua e alla scelta di realizzare uno spettacolo fuori dagli schemi, questo progetto internazionale è un coraggioso esperimento e merita il suo successo.

da Marguerite Duras
adattamento Alice Birch
con Laetitia Dosch, Nick Fletcher
narratrice Jasmine Trinca
regia Katie Mitchell
regista associato Lily McLeish
regia video Grant Gee
scene e costumi Alex Eales
musiche Paul Clark
sound design Donato Wharton
video design Ingi Bek