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Arlecchino servitore di due padroni – Valerio Binasco

Fazz umilissima reverenza a tutti lor siori.

Come Arlecchino fa il suo ingresso in scena in casa di Pantalone, così Valerio Binasco, Direttore artistico del Teatro Stabile di Torino,  con il suo  spettacolo Arlecchino Servitore di due padroni, si fa spazio con umilissima reverenza nel salotto dei registi che hanno portato in scena uno dei testi goldoniani più famosi.  Arlecchino è un servo che entra in una casa in cui si sta consumando una festa di matrimonio. Con umiltà si presenta , ma allo stesso tempo ha quell’aria spavalda, forse ironica di chi sa già che quella sua interruzione avrà delle conseguenze interessanti. Binasco dopo l’inchino ad un maestro come Strehler, lo saluta con un sorriso impetuoso sapendo di fare altra cosa.

foto di Bepi Caroli

Lo spettatore è disorientato, le sue certezze si dissolvono, affondato nella  danza macabra in cui i due sposi e gli altri personaggi presenti al matrimonio si esibiscono per festeggiare. Marionette, corpi quasi paralizzati a cui è permesso solo un movimento a scatti, lento. Una festa mortuaria, o meglio che nasce da una morte, quella di Federico Rasponi. La sua morte ha permesso il matrimonio tra Silvio e Clarice, ma ben presto questo matrimonio sarà paralizzato, bloccato dalla comparsa di un servo che vuole annunciare il suo padrone: Federico Rasponi. Non troviamo nello spettacolo la comicità, il gioco fisico, il lazzo di Strehler oppure il lavoro di destrutturazione della tradizione, spogliata dagli orpelli e attualizzata, di Antonio Latella. Binasco si allontana da tutto questo. Pur rispettando il testo goldoniano con poche aggiunte personali, rende Il servitore di due padroni, molto cupo, con una comicità velata di tragico. I lazzi distraggono dalla storia che sta avvenendo, allontanando lo spettatore. Quei pochi che mantiene non si prendono la scena, ottengono sì la risata, ma non sono mai fini a se stessi. Arlecchino non è la maschera su cui ruotano gli altri personaggi, ma un personaggio come gli altri. Una volta spostata l’attenzione sulla storia si può capire come questa sia una storia tragica. Binasco, come ha detto all’incontro di Retroscena dedicato allo spettacolo,  ha voluto come cuore narrativo l’incontro tra i due amanti. Una scena di grande potenza liberatoria, in cui i due amanti che pensavano che il rispettivo partner fosse morto, si incontrano e piangono dalla gioia. Già nello spettacolo La Tempesta il motore della storia erano due persone divise, che poi si incontreranno. Momento spesso relegato in secondo piano. Nell’Arlecchino, sono due le coppie che vengono separate dai genitori. Arlecchino si pone come elemento di disturbo, un personaggio molto tetro che fa disperare due persone, Beatrice e Florindo. Binasco parte dalla domanda “se questa storia fosse vera?”, per creare il suo spettacolo. Spettacolo che vuole mostrare la verità della drammaturgia goldoniana, perché tutto quello che accade è in quel testo e  non inventato dal regista.

Chi può essere Arlecchino in una storia vera, nella società contemporanea?  L’Arlecchino di Natalino Balasso è il vero Arlecchino e l’attore ci fa capire come questa figura non rappresenti solo un marito divorziato che ha bisogno di lavori, ma può anche essere una ragazza che ha un figlio e deve poter vivere. In questo sta tutta la tragicità, sempre attuale di Arlecchino. Natalino Balasso è stato scelto da Binasco perché, a suo parere, l’attore mostrava un’aria impaurita e tenera allo stesso tempo, con la capacità di essere comico suo malgrado.

foto di Bepi Caroli

Il teatro di Binasco è un teatro d’attore, un teatro che vive e si modifica in continuazione. La sua regia è molto influenzata dalla sua interiorità attoriale. Gli attori di questo spettacolo sono consapevoli che il loro lavoro sul personaggio non viene fissato e replicato sempre uguale, ma è in continua evoluzione, per arrivare a capire ogni sfaccettatura del personaggio che interpretano. Un ulteriore lavoro è condotto dal regista per dare tridimensionalità e non nascondere personaggi che ad una visione addormentata possono risultare secondari. Un esempio può essere Florindo, spesso relegato a semplice amante di Beatrice: Florindo è un assassino che uccide Federico Rasponi per poter amare Beatrice, e questo suo lato tragico viene spesso sottolineato, un personaggio doppio, il tragico che si fonde nel buffo, come si può dire di tutto lo spettacolo.

È molto presente anche il tema della sopraffazione: padre-figlia, famiglia-coppia di amanti, padrone-servo. Siamo in un mondo in cui la donna ha bisogno di libertà, e questo risalta molto nello spettacolo. Qui le donne non hanno diritto di scelta e per ottenere quello che gli spetta devono camuffarsi da uomini, o chiedere al padrone il permesso. Binasco va in questa direzione fino a dove Goldoni lo permette, senza cadere in un dramma familiare. Lascia alla serva di Pantalone, Smeraldina, l’invettiva su la necessità di libertà da parte della donna e cerca di scuotere Clarice, proibendogli di continuare a far teatro per imporre i propri voleri e le scelte.

foto di Bepi Caroli

Uno spettacolo davvero riuscito. Non è mai facile riproporre un testo già affrontato ripetute volte in precedenza con intenti diversi anche secondo l’occorrenza dei momenti storici in cui veniva portato in scena, soprattutto se il confronto e l’immaginario collettivo porta subito a Strehler. Binasco non cade nella trappola didascalica o di omaggio al grande regista del passato, ma trova la sua strada. Una strada nuova, per ricercare la verità; la trova e ci mostra una storia cupa, tragi-comica di persone che in fondo cercano solo di amarsi o sopravvivere, ma che per farlo in una società in cui conta la pecunia o l’interesse privato, si uccide, si vende, o si mangia. Come all’inizio Arlecchino/ Balasso fa la sua comparsa in scena in punta di piedi, quasi non vorrebbe essere lì, vergognandosi, così alla fine sempre in punta di piedi chiede la mano di Smeraldina, senza esagerare sapendo che lui è un servo e sta chiedendo troppo. Lo spettacolo non ci dà risposte certe, non sappiamo se accettano la loro unione, forse possiamo immaginare che andrà così, ma non ci è dato saperlo. L’atmosfera cupa, accentuata dalla musica, è sempre in agguato anche in una delle scene più riuscite, quella in cui Arlecchino dichiara a Smeraldina il suo amore, con tutta la sua goffaggine buffa, una semplicità commovente. Ci sentiamo un po’ tutti Arlecchino e Smeraldina.  Già ci pregustiamo un finale romantico, dove alle due coppie si accosta un’altra, più semplice la loro, ma non sarà così. La festa c’è ma ci fa tornare in mente la danza macabra della festa iniziale.

Si ride notevolmente, ci si commuove, ma siamo subito portati con i piedi per terra perché intuiamo che c’è qualcosa che non va. Non ci resta che fare un umilissima reverenza a Valerio Binasco.

Emanuele Biganzoli

 

di Carlo Goldoni
con (in ordine alfabetico) Natalino Balasso (Arlecchino), Fabrizio Contri (il Dottore), Marta Cortellazzo Wiel (Smeraldina), Michele Di Mauro (Pantalone), Lucio De Francesco (servitore), Denis Fasolo (Silvio), Elena Gigliotti (Clarice), Gianmaria Martini (Florindo), Elisabetta Mazzullo (Beatrice), Ivan Zerbinati (Brighella)
regia Valerio Binasco
scene Guido Fiorato
costumi Sandra Cardini
luci Pasquale Mari
musiche Arturo Annecchino
regista assistente Simone Luglio
assistente scene Anna Varaldo
assistente costumi Chiara Lanzillotta
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
con il sostegno di Fondazione CRT

SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE: UN’INCONSCIA VISIONE DI UNA METAFORA D’ AMORE

Per la seconda volta, a distanza di pochi giorni mi ritrovo ad assistere ad un nuovo spettacolo al Teatro Carignano. Questa volta si tratta di Sogno di una notte di mezza estate diretto da Elena Serra.
Il teatro, sia per Romeo e Giulietta che per Sogno di una notte di mezza estate si è prestato ad un mutamento scenografico, allargando il palco fino a metà spalti e ricoprendolo di erba sintetica, quasi come se fosse una vera e propria scena elisabettiana.
Se con Romeo e Giulietta rimasi entusiasta per la freschezza degli attori nel rendere la tragedia una visione fanciullesca, nel Sogno la compagnia si è superata. Questi giovani attori sono riusciti a dare un qualcosa in più.

Non è la prima volta che assisto alle loro rappresentazioni e man mano, spettacolo dopo spettacolo, emergono nuove sfaccettature del loro modo di lavorare .
Questa volta, quello che mi ha colpita è stata il senso di interezza che sono riusciti a far emergere da una delle più famose commedie di Shakespeare, rendendo le parti uniche nel loro genere. Visto che il testo non ha un unità di tempo o di spazio, la regista ha potuto sfruttare a pieno il palco, utilizzando enormi cuscini dai quali fuoriescono una buona quantità di foglie, inserendo una fontana da cui sgorga acqua dove alcuni attori si siederanno, si bagneranno e si uniranno in un unico corpo ed infine facendo muovere tutti loro in danze ritmicamente nevrotiche con la musica dei Laibach. Inoltre i costumi degli attori passano da una maestosità contemporanea ad una semplicità quasi medievale.
Sicuramente nelle parole di Elena (Annamaria Troisi) un po’ tutte le donne o prima o dopo si sono ritrovate. La sua disperazione per il rifiuto continuo del suo amato Demetrio (Christian Di Filippo), ogni volta che lo rincorrere non fa altro che peggiorare la situazione, mentre la vivacità di Ermia (Barbara Mazzi), il suo essere algida nei suoi confronti lo porta ad innamorarsi di lei ma la giovane Ermia ha occhi solo per Lisandro, il suo unico amore (Marcello Spinetta). Insomma vedremo un bel quartetto in azione.

Ogni attore, in questa rappresentazione ha cercato di creare un siparietto divertente, come quello di Oberon (Vittorio Camarota) insieme al folletto Robin (Raffaele Musella) che oltre ad essere tecnicamente encomiabili sono riusciti ad avere una buona presenza sul palco utilizzando capriole, sbeffeggiamenti e una timbrica maestosa.

Ottima anche Titania (Beatrice Vecchione) che rimarrà fissa sulla fontana ma questo non le impedisce di ammaliare con la sua presenza scenica e con le sue alterazioni vocali proprio come la fata, Fior di Pisello (Giorgia Cipolla) che vedremo addirittura cantare.

Ed il padre di Ermia, Egeo (Alessandro Conti) il quale avrà una voce robotica e sarà posizionato su una “balconata”.
Ed infine i due soldati di Atene Nick Bottom (Angelo Tronca) e Peter Quince (Yury D’Agostino) che hanno creato un siparietto niente male, inscenando all’interno della commedia, la tragedia di Romeo e Giulietta con un’ironia e un sarcasmo che ha coinvolto tutto il pubblico, suscitando impeti di applausi e calorose risate durante la rappresentazione.

Insomma il progetto del “prato inglese” direi che ha dato i suoi frutti, portando in questo caso nel Sogno di una notte di mezza estate il tocco di una donna che ha affrontato la commedia shakesperiana con un’inconscia visione di una metafora d’amore.

di William Shakespeare
con Vittorio Camarota, Giorgia Cipolla, Alessandro Conti, Yuri D’agostino, Christian di Filippo, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Marcello Spinetta, Beatrice Vecchione, Annamaria Troisi, Angelo Tronca
scene e luci Jacopo Valsania
costumi Alessio Rosati, Aurora Damanti

regia Elena Serra
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Recensione di: Alessandra Nunziante

ROMEO E GIULIETTA: UNA FAVOLA BAMBINA

Freschezza. Ecco cosa mi viene in mente pensando allo spettacolo che possiamo vedere in questi giorni al Teatro Carignano su Romeo e Giulietta.

Freschezza per aver reso la rappresentazione con una spensieratezza fanciullina dei due protagonisti. Due ragazzi giovani, pieni di sogni che si innamorano con un solo sguardo l’uno dell’altro, lasciando alle spalle il presagio futuro.

L’attrice che interpreta Giulietta (Beatrice Vecchioni) è riuscita a rispecchiare bene queste dinamiche, con una voce molto scandita ma lasciando integro l’aspetto adolescenziale. Tutto si basa su una sorta di immaginario irreale ma al contempo vero negli aspetti umani. Il décor è quasi assente nonostante il palco allargato dalla vastità di verde. Sono a Verona ma sono gli attori a far vivere questa città con una spiccata fantasia bambinesca.

I miei occhi vengono attirati dalla presenza di un pallone gigante che viene fatto roteare dagli interpreti in avanti e indietro per simulare la luna e da una struttura moderna dove in alto è situata la giovane Giulietta e ancora più in alto un’attrice che simula il ruolo di voce parlante, coscienza ritmica e musicale.

Mercuzio (Angelo Tronca) amico fidato di Romeo, ha un peculiare senso di originalità e di presenza scenica. Quando morirà rimarrà presente in scena fino alla fine dello spettacolo creando un senso di amarezza.

 

 

Il frate (Raffaele Musella) riesce a far emergere l’animo di un messaggero del signore pieno di sentimenti, di una pazzia risolutoria che aiuta i due innamorati in un intento quasi vano.

In alcuni momenti dello spettacolo, troviamo anche performance musicali che catturano l’attenzione dello spettatore facendo venir voglia di muovere ritmicamente le gambe.

In conclusione, il regista Marco Lorenzi, insieme a tutti gli attori, è riuscito a ringiovanire uno degli spettacoli più conosciuti al mondo, facendo trapelare in alcuni momenti una sorta di favola bambina.

 

 

di William Shakespeare

con Vittorio Camarota, Giorgia Cipolla, Alessandro Conti, Yuri D’agostino, Christian di Filippo, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Marcello Spinetta, Beatrice Vecchione, Annamaria Troisi, Angelo Tronca

scene e luci Jacopo Valsania

costumi Alessio Rosati, Aurora Damanti

regia Marco Lorenzi

Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale

 

Recensione di Alessandra Nunziante

FDCT23 – AIACE

In conclusione al Festival delle Colline Torinesi è andato in scena il 22 giugno alle Lavanderie a Vapore di Collegno Aiace, testo classico di Sofocle rivisitato da Linda Dalisi e interpretato dall’attore ivoriano Abraham Kouadio Narcisse (Aiace), da Michelangelo Dalisi (Odisseo) e dall’attrice francese Estelle Franco (Dea Atena e Tecmessa).

Dopo la morte di Achille, al nono anno della guerra di Troia, le sue armi vengono ereditate da Odisseo. Aiace, il guerriero più forte tra gli Achei, secondo, un tempo, solo al Pelìde, in seguito a questa decisione, perde il senno. Preso dall’ira e ispirato da Atena, la protettrice di Odisseo, uccide tutto il bestiame greco, convinto che siano i suoi compagni, ma l’indomani, resosi conto dell’errore e della follia decide di salvare il proprio onore, davanti agli dei e ai Greci, suicidandosi. 

Prima del compiersi del gesto estremo si susseguono una serie di riflessioni sulla condizione umana: dalla follia alla soggiogazione dagli dei; dall’onore al rispetto delle tradizioni; dal ricordo dell’infanzia al rispetto dei padri. 

Il supporto visivo tramite tre proiettori che, letteralmente, proiettano su teli illusioni, sogni, speranze, paure, sangue nel mare ecc…, è particolarmente efficace poiché dà spazio all’interiorità e ai sentimenti dei protagonisti e trova il culmine nel finale, con l’ultima proiezione: Aiace, suicida, si trasforma in centauro.

Aiace prima di tutto, racconta una storia di estraneità, che è culturale, ideologica, temporale, personale. Questo elemento esiste su due differenti piani. Uno è radicato nel testo sofocleo stesso e viene arricchito in seconda istanza dalla presenza in scena di tre attori, provenienti da Costa d’Avorio, Francia e Italia, che parlano lingue diverse. Quello che potrebbe essere un punto di contatto, la lingua, sembra essere, invece, una barriera insormontabile: Aiace, ormai impazzito, non riesce nemmeno più a spiegarsi. Non riesce a esprimere i motivi per cui dovrebbe meritare le armi e Odisseo, dall’alto della sua condizione di forza e della sua arroganza, si rivolge direttamente al pubblico per sottolineare questa mancanza linguistica (Aiace/Abraham sta parlando nella sua lingua madre). Un’estraneità che si risolve in incomunicabilità, ma anche in estraneità da se stessi. La dea Atena infatti annebbia la mente di Aiace che non si riconosce più e tutte le certezze che aveva acquisito in vita scompaiono all’improvviso, lasciando spazio solo al dubbio, al rimorso, al disonore e alla consapevolezza di non poter cambiare in alcun modo il proprio triste destino.

Odisseo sembra solamente uno scaltro arrivista, ma quando entra in contatto con la sua dea protettrice compatisce la sorte del povero Aiace: «Nonostante mi sia nemico, ho pietà per quell’infelice, per la tremenda sciagura cui si trova aggiogato: nella sorte di lui trovo riflessa anche la mia». Ritiene infatti che la debolezza e l’errore siano condizioni che possono diventare di chiunque.

Il ruolo dei proiettori diventa particolarmente rilevante in unione alla musica e alla danza, poiché serve a sottolineare come le paure e i sogni delle persone, pur lontane per cultura o stato sociale, possano essere gli stessi. Aiace si sente inadeguato, deriso e disorientato in un mondo che non riconosce più, privo di tradizione ed onore, e sogna solo di poter tornare bambino e di potersi tuffare nel mare a gareggiare ancora con Achille. L’energia/L’empatia che viene trasmessa dall’esibizione deve far scattare l’allarme, accendere una lampadina: tutti possiamo essere Tecmessa, Atena, Odisseo e Aiace; tutti si possono trovare nelle stesse loro situazioni, ed è bene ricordarsi di non giudicare troppo in fretta, di andare oltre ai pregiudizi e a puntare subito il dito, che sia un amico, il tuo vicino di casa, uno straniero.

Il Festival delle Colline Torinesi arriva qui, con Aiace, alla conclusione della 23esima edizione riaffermando l’importanza delle arti e del teatro. Parafrasando una frase attribuita a Francis Scott Fitzgerald: «Questa è la parte più bella di tutto il teatro [orig. di tutta la letteratura]: scoprire che i tuoi desideri sono desideri universali, che non sei solo o isolato da nessuno. Tu appartieni».

di Linda Dalisi e Matteo Luoni

regia Linda Dalisi

con Abraham Kouadio Narcisse, Michelangelo Dalisi, Estelle Franco

scene Giuseppe Stellato

costumi Graziella Pepe

suono e musiche Marco Messina

luci Simone De Angelis

movimenti Francesco Manetti

assistente alle scene Domenico Riso 

aiuto regia Francesca Giolivo

production Brunella Giolivo

management Michele Mele

produzione stabilemobile

in collaborazione con l’Asilo – exasilofilangieri.it

FDCT23 – MACBETTU La zona d’ombra – Dove gli uomini si fanno lupi

Per la ventitreesima edizione del Festival delle Colline Torinesi è andato in scena il 17 e 18 giugno, alle Fonderie Limone di Moncalieri, Macbettu, versione in limba sarda con sovratitoli in italiano del capolavoro di Shakespeare, diretto da Alessandro Serra e interpretato dalla compagnia Teatropersona.

Lo spettacolo è stato il vincitore del prestigiosissimo premio UBU 2017 e del Premio ANCT 2017 (Associazione Nazionale dei Critici di Teatro).

 

Macbettu non si discosta per trama e contenuti dal testo originale, bensì lo amplia con i carnevali sardi: le maschere che rappresentano la foresta che avanza, nel finale, sono simili alle maschere dei Mamuthones e degli Issohadores del Carnevale di Mamoiada. La Sardegna è un luogo sacro e arcaico, dove gli antichi culti pagani sopravvivono ancora oggi in una maniera più vera e sentita rispetto ad altre località ed è lo scenario ideale per rappresentare una tragedia che fa della solennità e della ritualità dei movimenti e di una lingua dal sapore antico e impenetrabile il proprio codice di lettura.

 

La mancanza quasi totale di scenografia e l’assenza di attrici è un omaggio al teatro elisabettiano di Shakespeare. Ciò però non rende meno efficaci le ottime prove degli attori, sia a livello dei singoli – come per quanto riguarda Lady Macbettu, interpretata da un dionisiaco e barbuto Fulvio Accogli – sia a livello corale.

Non è la prima volta che il Macbeth viene rivisitato e ambientato in un’altra cultura. Ne è un esempio il film del 1957 di Akira Kurosawa Il trono di sangue che compie un adattamento in territorio nipponico.

Sono state molteplici negli anni le versioni cinematografiche del capolavoro shakespeariano, ma la versione di Roman Polanski – proiettata al cinema Massimo in preparazione allo spettacolo sardo – è di particolare rilievo perché approfondisce il lato dionisiaco (e demoniaco) delle streghe e di Lady Macbeth. In questo senso compie un’operazione simile anche Alessandro Serra, che caratterizza le Sorelle e soprattutto Lady Macbettu, tutte interpretate da uomini, facendo loro perdere  sembianze umane e femminee in favore di un’aura diabolica. Fulvio Accogli è ottimo nel rappresentare la sensualità del personaggio, specie nella scena del suicidio durante la quale è completamente nudo (o nuda) sul palco, esprimendo una inquietante e peculiare femminilità.

In questo senso Macbettu incontra il Festival delle Colline Torinesi: il viaggio dell’identità tramite la rievocazione elisabettiana e l’annullamento di genere, e la Sardegna come luogo lontano, nel tempo e nello spazio, e straniero dove inscenare temi universali che accomunano tutti gli esseri umani, in una ricerca radicale dell’uomo, sino alla zona d’ombra, la più oscura e bestiale.

 

La zona d’ombra, ovvero il luogo in cui si svolge la vicenda. Un’ombra visibile – lo spettacolo si apre e si chiude entro lunghi momenti di oscurità lacerata dalle streghe, all’inizio, e da suoni metallici che rappresentano il cuore morente di Macbettu, al termine – ma soprattutto un’ombra dell’anima.

Quella che le Sorelle Fatali pronunciano a Macbettu e Banquo potrebbe anche non essere una vera e propria profezia, quanto un dubbio, un’insinuazione proposta e in seguito raccolta dal Conte di Cawdor, che poi si avvererà. Un’ombra che si impossessa anche della consorte che sostiene e inneggia a ogni assassinio (accumulato simbolicamente pietra su pietra come un piccolo nuraghe)  utile per la scalata verso il potere. La zona d’ombra che è il regno del soprannaturale, della vita dopo la morte che si interseca con quella dei vivi con l’apparizione del fantasma di Banquo; ma anche la bestialità dell’essere umano che trova il proprio culmine nella scena, che richiama la maga Circe e i film Porcile (1969) e Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pasolini, in cui i due coniugi danno da mangiare alle guardie del corpo di Re Duncan che lottano tra di loro come maiali e cinghiali, mettendo a dura prova gli spettatori.

Una bestialità che si incarna nell’essere umano e lo porta, giù nella zona d’ombra, a compiere le nefandezze più gravi, che possono essere ben spiegate dalle parole di Cesare Pavese: «Non conosci la strada del sangue. Gli dèi non ti aggiungono né tolgono nulla. Solamente, d’un tocco leggero, t’inchiodano dove sei giunto. Quel che prima era voglia, era scelta, ti si scopre destino. Questo vuol dire farsi lupo […]».

Dialogo tra due cacciatori tratto dal racconto L’uomo lupo da Dialoghi con Leucò, Cesare Pavese

Riccardo Ezzu

Macbettu 

regia Alessandro Serra

tratto da Macbeth di William Shakespeare

con Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino

traduzione in sardo e consulenza linguistica Giovanni Carroni

collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini

musiche, pietre sonore Pinuccio Sciola

composizioni pietre sonore Marcellino Garau

scene, luci, costumi Alessandro Serra

produzione Sardegna Teatro e compagnia Teatropersona

con il sostegno di Fondazione Pinuccio Sciola, Cedac Circuito Regionale Sardegna

Premio Miglior Spettacolo UBU 2017,  Premio ANCT 2017 (Associazione Nazionale dei Critici di Teatro)

Questa terra è malata!

Questa terra è malata. Il mondo della Grecia antica preso ad emblema del nostro mondo contemporaneo, passando dall’Antico Testamento alla Danimarca amletica, da un mondo in cui il dio è morto, arrivando, possiamo dire, anche alla Los Angeles di Altman.  Il sacrificio come aeterna conditio del genere umano.

Ifigenia Liberata. Foto ©Masiar Pasquali

Carmelo Rifici mette in scena la tragedia di Euripide, Ifigenia in Aulide, attualizzandola, ma forse meglio dire universalizzandola. Lo spettatore viene spiazzato dalla presenza degli attori in scena a sipario aperto  fin da prima che lo spettacolo cominci, e da un buio che si fa attendere. Il pubblico non si accorge subito dell’inizio, continuando la sua parte di disturbatore. Appena ritrova le condizioni “comuni” di uno spettacolo, presto si acquieta.

Uno spettacolo che ammicca al teatro di Brecht, nel proporre una riflessione su diversi temi a partire da Ifigenia, attraversando diversi autori che hanno inciso nella cultura della propria epoca e di quelle successive: Eraclito, Omero, Eschilo, Sofocle, Renè Girard, Freidrich Nietzsche, e la Bibbia per fare qualche esempio. Uno straniamento dello spettatore e allo stesso tempo dell’attore, che si percepisce fin da subito, quando l’attore che interpreta la parte del regista (Tindaro Granata), spiega al pubblico l’impostazione dello spettacolo. Un teatro nel teatro, dove gli attori vengo diretti da un regista e una drammaturga (Mariangela Granelli) nel mettere in scena prima l’uccisione di Abele da parte di Caino, e poi varie scene dell’Ifigenia in Aulide di Euripide. Ogni scena è intervallata da riflessioni  del regista o della drammaturga, forse a volte un po’ scontate, rivolte al pubblico o agli stessi attori, che a volte non riescono a cogliere il senso di quello che stanno facendo. In questi intermezzi gli attori rimangono come sospesi  in un altro tempo, mentre lo spettatore è portato a ragionare sul perché i Greci accettano di sacrificare una fanciulla innocente. Lo spettacolo non perde di ritmo in questi frangenti, un’energia che subito si sprigiona quando gli attori riprendono a recitare. Attori di grande intensità e presenza fisica, che appena sono chiamati in causa dominano la scena, come dei veri condottieri , uomini valorosi che si trovano davanti ad una scelta difficile: Agamennone ( Edoardo Ribatto) , Menelao (Vincenzo Giordano), Odisseo (Igor Horvat). Anche le donne non sono da meno, forse mostrano più fragilità, incredulità, arrendevolezza, con corpi minuti, ma dolci con movimenti più sereni, forse già arresi al destino rispetto a quelli degli uomini: Clitemnestra (Giorgia Senesi), che deve cercare di mantenere l’onore dei suoi figli, e Ifigenia (Anahì Traversi). Al coro delle donne del popolo, le donne di paese diremmo oggi, che mostrano ,da un lato una conoscenza semplice delle situazioni, ma sognatrice, che si fanno influenzare dalle circostanze senza rifletterci, e dall’altro una misteriosa preveggenza, portatrici dei caratteri di una società, è affidato il compito di commentare quello che sta accadendo ai Greci, e di attualizzarlo, il tutto con un ritmo incalzante. Se si va a conquistare le loro città e stuprare le loro donne, non possiamo lamentarci troppo se loro poi verranno a conquistarci, così una frase del coro.

Ifigenia Liberata. Foto ©Masiar Pasquali

La scenografia è quella semplice di una sala prove, qualche sedia, una scrivania per la drammaturga che in scena scriverà il finale e uno schermo, in cui sono proiettati video in presa diretta di scene che avvengono fuori dal portone principale, un luogo separato dalla realtà, dove accadono solo eventi di grande portata, come per esempio l’uccisione di Abele o il sacrificio di Ifigenia. La musica è dal vivo con il musicista Zeno Gabaglio che suona diversi strumenti, tra cui spicca il contrabbasso che accompagna con la sua musica grave le scene più accese.

Veniamo al sacrificio. La bonaccia che costringeva all’esercito greco di rimanere nei terreni paludosi della pianura di Aulide, e poi la guerra che avrebbero voluto intraprendere, sono solo un pretesto per sfuggire ai loro peccati, ai mali. Senza guerra si massacrerebbero tra di loro, ci sarebbero guerre fratricide. Quindi si decide, con un certo sollievo (Agamennone prova un po’ di sollievo quando prende quella scelta, l’esercito reclamava il sangue che gli spettava), di scaricare le proprie colpe su altri.

Ifigenia Liberata. Foto ©Masiar Pasquali

Un sacrificio per redimere la Grecia intera, forse potremmo anche azzardare un sacrificio che è una costante di ogni epoca, un mito di cui si ha bisogno per forgiare la propria cultura. Qualcuno che si carica su di sè gli errori dell’umanità. Se si libera il male, il male contamina come la peste le persone e se si uccide il minotauro bisogna pagarne il prezzo. Allora l’unica via di scampo è tornare a racchiudere il male. Ifigenia accetta una morte gloriosa per la Grecia, accetta il suo compito per evitare catastrofi ulteriori, come Gesù accetta la crocifissione assorbendo tutti i peccati. Al destino non si sfugge. Nemmeno un vecchio, simbolo dell’uomo qualunque tentando di salvare Ifigenia, si accorge della  sua impotenza, l’impotenza dell’uomo di fronte al fatto. Ma perchè la dea vuole questo sacrificio? Gli dei sono esseri altri, imperscrutabili e a noi non è dato capire il loro scopo.

E qui si ricollega il senso ultimo dello spettacolo: la drammaturgia che non trova modo di far terminare la tragedia se non tramite il sacrificio di Ifigenia per dare un senso a tutta la vicenda, mentre per il regista il vero senso di questa vicenda umana, e quindi dello spettacolo, sta nel parlare di questo fatto per tentare di comprenderlo.

I classici sono sempre contemporanei, parlano anche al nostro presente; temi e miti fondanti della nostra umanità si protraggono fino ad oggi. Forse siamo impotenti davanti al divenire di certi voleri, ma a noi è dato il compito di riflettere, di capire, per poi poter avere una lieve forza per cambiare le situazioni. Far in modo che il sacrificio di Ifigenia, di Cristo e di ogni persona che viene cancellata per volere di una bomba, non sia stato invano e non si perda nella memoria del mito.

Emanuele Biganzoli e Roberto Lentinello

 

Produzione: Luganoinscena / in coproduzione con Lac Lugano Arte e Cultura, Piccolo Teatro Milano – Teatro Europa, Azimut in collaborazione con Spoleto Festival dei due mondi, Theater Chur, con il sostegno di Pro Helvetia, fondazione svizzera per la cultura.

Ispirato ai testi di Eraclito, Omero, Eschilo, Sofocle, Euripide, Antico e Nuovo Testamento, Friedrich Nietzsche, René Girard, Giuseppe Fornari

Progetto e drammaturgia: Angela Demattè e Carmelo Rifici

Regia: Carmelo Rifici

Interpreti: Caterina Carpio (corifea, ominide), Giovanni Crippa ( Calcante, Vecchio), Zeno Gabaglio (musicista), Vincenzo Giordano (Menelao, ominide), Tindaro Granata (regista), Mariangela Granelli (drammaturga), Igor Horvat (Odisseo, ominide), Francesca Porrini (corifea), Edoardo Ribatto (Agamennone), Giorgia Senesi (Clitemnestra), Anahì Traversi (Ifigenia)

Scene: Margherita Palli

Costumi: Margherita Baldoni

Maschere: Roberto mestroni

Musiche: Zeno Gabaglio

Disegno Luci: Jean-Luc Chanonat

Progetto visivo: Dimitrios Statiris

Cuore/Tenebra: racconto di una tirocinante.

Ho avuto la fortuna di svolgere il tirocinio presso il Teatro Stabile di Torino, seguendo come assistente allestimento la prima fase della creazione dello spettacolo Cuore/Tenebra: migrazioni da de Amicis a Conrad, in cartellone al Teatro Carignano dal 22 maggio al 10 giugno, con la regia di Gabriele Vacis e l’allestimento (o meglio, la scenofonia) di Roberto Tarasco.

Con questo articolo voglio condividere con i lettori del blog la mia esperienza in un mondo teatrale che non conoscevo e che ho trovato estremamente interessante e coinvolgente.

Da subito mi è stato chiaro che non si trattava solo della produzione di uno spettacolo nel senso stretto del termine, ma che questo sarebbe stato il risultato finale di un progetto più ampio.

Cuore/Tenebra infatti è il primo esito spettacolare dell’Istituto di Pratiche Teatrali per la Cura della Persona, un progetto ideato da Gabriele Vacis, Roberto Tarasco e Barbara Bonriposi, sostenuto dal Teatro Stabile di Torino, la Regione Piemonte e la Compagnia di San Paolo.

Per comprendere l’esperienza dello spettacolo è indispensabile fare un excursus sul progetto da cui nasce.

L’Istituto di Pratiche Teatrali per la Cura della Persona propone un teatro sociale, basato sull’inclusione, dedicandosi alle tecniche che il teatro può offrire all’individuo, a prescindere dallo spettacolo e facendole confluire nella pratica della Schiera e nel teatro di narrazione.

La base per la cosiddetta salute personale è la consapevolezza.

In un mondo dove l’attività principale è il fare, non siamo più abituati a soffermarci ad ascoltare noi e le persone che abbiamo accanto, non siamo più in grado di prestare attenzione allo spazio in cui ci troviamo e alle relazioni che in questo spazio stabiliamo.

La parola chiave è Attenzione, e la pratica con la quale viene allenata prende il nome di Schiera, o Stormo.

Ispirandosi al volo degli uccelli, la pratica della schiera (apparentemente ma ingannevolmente facile), chiama in causa corpo, movimento e voce. Si tratta di ascoltare ciò che accade e farne costantemente parte, con la consapevolezza che chiunque può modificarlo in qualsiasi momento; di trovare un respiro comune, in cui si è parte di un coro, ma si è anche persona singola, si è parte di un gruppo ma si è anche protagonisti, consapevoli del fatto che le dinamiche e le relazioni cambiano costantemente.

Accanto all’allenamento dell’attenzione, la narrazione.

Ognuno di noi ha la sua storia, o meglio, le sue storie da raccontare e il palcoscenico si offre come il luogo dove farsi ascoltare. Un teatro per dare voce ai racconti.

A questo proposito l’Istituto porta avanti diverse attività tra le quali i colloqui con i migranti e i laboratori nelle scuole.

Mi ricollego ora con il progetto specifico Cuore/Tenebra, con il quale ho collaborato.

Lo spettacolo vede la partecipazione, oltre ad attori a tutti gli effetti, di un paziente del centro di salute mentale di Settimo Torinese, un ragazzo immigrato e sei scuole superiori di Torino e provincia.

Il punto di partenza sono i due famosi romanzi: il libro Cuore di Edmondo de Amicis e Cuore di Tenebra di Conrad.

Cuore, uscito nel 1886 è da subito uno dei libri in assoluto più venduti, nel tempo elogiato o criticato, ma che non lascia di certo indifferenti. Forte la sua matrice pedagogica nel voler formare gli Italiani come popolo unito. Enrico, un ragazzino torinese delle scuole elementari, grazie al suo diario ci racconta l’Italia e le sue storie di ricchezza, povertà, amicizia ed immigrazione (dal sud al nord Italia).

Cuore di Tenebra, del 1899, è un libro di ben diverso spessore e complessità. Narra di un viaggio nell’Africa nera, raccontando le barbarie e le razzie compiute dalle potenze occidentali sul continente africano.

Lo stesso periodo storico raccontato dai due punti di vista: storie di colonialismo e immigrazione.

Sono queste storie che Gabriele Vacis vuole portare sul palcoscenico del Carignano, mescolate con i racconti dei ragazzi delle scuole superiori e le loro esperienze di vita. Il progetto infatti si sviluppa su due fronti: la creazione con gli attori e i laboratori nelle scuole.

Durante il mio periodo di tirocinio ho avuto modo di seguire entrambi i fronti, ma in particolar modo vorrei descrivere il lavoro svolto nelle scuole, poiché è questa esperienza a rendere cosi diversa la proposta di Gabriele Vacis e Roberto Tarasco.

Il principio fondamentale è che ai ragazzi non viene detto cosa devono fare e quando devono farlo, ma vengono allenati alla consapevolezza e al racconto. Da un lato praticando la schiera e ascoltando i testi (presi da Cuore e Cuore di Tenebra) che gli attori raccontano loro, dall’altro gli viene chiesto di ricordare ed elaborare delle esperienze personali a partire da spunti di riflessione nati da temi presenti nei libri, con lo scopo di creare un filo di collegamento tra i racconti di Enrico nel suo diario e la loro quotidianità scolastica: “Ricordi una volta che hai avuto davvero paura?”, “Quando ti sei sentito parte di un “noi”?”, “C’è stato un momento in cui ti sei sentito al sicuro?”.

Ogni classe si approccia in modo diverso, e in ogni classe ci sono ragazzini e ragazzine di ogni tipo: il bulletto che si rifiuta di fare le cose, il timido, quello a cui piace stare al centro dell’attenzione, il ragazzino veramente interessato a quello che si sta facendo.

All’inizio del percorso laboratoriale le differenze erano molto evidenti. Una cosa che mi ha colpito molto è stato vedere come man mano che il lavoro avanzava, i ragazzi hanno iniziato a capire l’importanza e soprattutto la bellezza di quello che stava accadendo, lasciando piano piano cadere le resistenze, trovando cosi il piacere di fare parte di questo progetto comunitario.

Di sicuro non è questo quello che si aspettavano quando gli è stato detto che avrebbero fatto parte di un progetto teatrale.                                     Più di qualcuno nelle video interviste o nel loro Diario ha scritto “ci aspettavamo di dover interpretare qualche personaggio, e invece passiamo il tempo a camminare”.

E difatti è cosi: non c’è nessun personaggio da recitare, c’è da portare sul palcoscenico se stessi. E per portare sul palcoscenico se stessi bisogna imparare ad essere presenti, nel qui e ora, in relazione a ciò che accade e alla presenza dei compagni.

Lo stesso tipo di allenamento viene chiesto agli attori, in prova alle Fonderie Limone. Ad ogni attore sono assegnati dei racconti, ma oltre a questo, non esiste una drammaturgia precisa di ciò che deve accadere in scena. Esiste solo la verità del presente di ognuno, e sono queste verità che vanno a costruire lo spettacolo.

Concludo così, augurando una buona visione a tutti coloro che saranno prossimamente tra il pubblico del Carignano.

Lara Barzon

Presentazione Stagione 2018-2019 Teatro Stabile Torino

Il 7 maggio 2018 al Teatro Gobetti si è tenuta la conferenza stampa di presentazione della stagione 2018/2019 del Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale.  Il presidente del Teatro Stabile, Lamberto Vallarino Gancia, e il direttore Filippo Fonsatti, introducono le novità della nuova stagione. Già il 2018 è iniziato con un “tridente artistico” formato dal nuovo Direttore Artistico Valerio Binasco, dal Dramaturg residente dello Stabile che si occupa della parte di ricerca, Fausto Paravidino, e  da Gabriele Vacis per la formazione, nel ruolo di Direttore della Scuola per Attori.  Un punto di svolta per lo Stabile volto a consolidare un rapporto complementare tra le sue diverse funzioni quali la produzione, la formazione e la ricerca.

La parola poi passa al direttore artistico Valerio Binasco, un vero mattatore, che si prende la scena. Ci racconta, teatralizzando la lettura, la sua idea di teatro e l’orizzonte a cui vuole tendere la nuova stagione. Comincia a parlare di sé e spiega diversi problemi a partire dai quali si è posto delle domande. Ha cercato di girare a largo dalla cattiva recitazione e che continuerà a provarci. <<La recitazione ha a che fare spesso con le bugie e l’unico metodo per dire buone bugie è nel crederci>>. Quindi il problema numero  uno è con se stesso.

Il secondo riguarda il suo modo di fare e concepire la regia. Un teatro come prassi che per manifestarsi, non ha bisogno di ragionamenti, ma solo di alcune condizioni fisiche dove persone fatte in carne e sangue incontrano persone immaginarie e in uno spazio dove poter agire. Quindi un regista deve scegliere le persone e lo spazio in cui farle agire e mettersi in ascolto profondo di quel che accade tra attori e lo spazio.

Cita poi uno dei suoi maestri che lo ha influenzato con i propri scritti, Peter Brook. Da lui ha preso anche l’abitudine a lavorare sugli esercizi. La recitazione va continuamente nutrita, stimolata, coccolata.

Il terzo problema  riguardo l’idea del mondo. Per avere un’idea di teatro ci vuole un’idea di mondo, e quindi dell’uomo. Binasco è innamorato della vita degli uomini , e da lì nasce la sua vocazione teatrale . Il suo lavoro è un tentativo di narrare questo amore, condividerlo col pubblico, ma le persone non si meritano tutto questo amore.

Quest’anno darà il via ad un Ensamble, chiamato Lemon Ensamble che si terrà alle Fonderie Limone, dove gli attori vivranno e studieranno e metteranno in scena Shakespeare. Oltre a questa novità, un’altra è quella di dare spazio ai giovani, non relegandoli in una sezione a loro dedicata, per esempio delle nuove scoperte, ma integrandoli con gli altri registi e attori.

Un ultimo punto da lui affrontato è il lavoro sui classici. Teatro è un gioco, una festa. Festa dei sentimenti umani, festa delle storie che l’umanità ha raccontato su se stessa e sui suoi sentimenti. L’antico teatro è ancora il teatro della festa e della favola. Un teatro classico che ha continuato ad essere contemporaneo nei secoli. Siamo tutti contemporanei, almeno da Socrate in poi.

Questa è l’idea di teatro di Valerio Binasco. Ma veniamo agli spettacoli in programma per la prossima stagione. Qualche numero: 67 spettacoli di cui 17 produzioni, 32 spettacoli ospiti e 18 di Torinodanza. Proposte che spazieranno dai grandi classici, portati in scena anche in modo innovativo, alla drammaturgia contemporanea. Un programma molto ricco, attento alla valorizzazione dei talenti emergenti e sempre più internazionale, come conferma l’inserimento del Teatro Stabile di Torino (unico teatro italiano) nel prestigioso network Mitos 21, composto dai più importanti teatri europei.

Nucleo centrale, come di consueto, sarà il progetto produttivo: a portare in scena i classici in modo originale, mantenendo un rispetto del testo risaltandone l’attualità, sarà Valerio Binasco con Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni (spettacolo di apertura della stagione al Teatro Carignano) e Amleto di William Shakespeare. A mettere in scena altri classici saranno Antonio Latella che dirigerà L’isola dei pappagalli con Bonaventura prigioniero degli antropofagi di Sergio Tofano e Nino Rota; Filippo Dini che curerà la regia di Così è (se vi pare) di Luigi Pirandello,  con Giuseppe Battiston e Maria Paiato, arte e vita si disintegrano sulle tavole del palcoscenico, potente metafore sull’incertezza delle relazioni; Jurij Ferrini regista e interprete di Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand.

L’impegno Internazionale si conferma con la produzione de La Maladie de la mort, una profonda esplorazione dell’intimità, della pornografia e del sesso, diretto dalla regista inglese Katie Mitchell, coprodotto con il Theatre des Bouffes du Nord,  e con Nora/Natale in casa Helmer diretto da Kriszta Szekely, giovane regista ungherese; Alain Platel porterà in scena Requiem Pour L., riflessione sofferta sul tema della morte intesa come parte sostanziale e sublime della vita, come esperienza umana e spirituale.

La valorizzazione della drammaturgia contemporanea avviene con la messa in scena per esempio de La ballata di Johnny e Gill di Fausto Paravidino , un viaggio della speranza; Sei di Spiro Scimone e Francesco Sframeli, che si soffermano per la prima volta su un testo pirandelliano; la difficoltà di vivere con un malato, le dinamiche famigliari che si incrinano di fronte ad un disturbo mentale, il rapporto tra genitori ed adolescenti, e un omicidio sono presenti in Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Simon Stephens dal romanzo di Mark Haddon diretto da Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani; Il canto della caduta di Marta Cuscunà, giovane talento emergente, artefice di un teatro impetuoso e coinvolgente, racconta della fine di un regno delle donne e l’inizio di una nuova epoca del dominio e della spada, con la presenza di robot analogici creando una sinergia tra arte e tecnologia; Francesco d’amore e Luciana Maniaci mettono in scena Petronia, interrogandosi sull’immaginazione come unica forza capace di rivoluzionare le nostre vite.

Tra le produzioni ci saranno anche Se questo è un uomo di Valter Malosti; tornerà Novecento di Alessandro Baricco diretto da Gabriele Vacis e Mistero Buffo di Dario Fo, per la regia di Eugenio Allegri.

Altri spettacoli saranno Il giocatore da Fedor Dostoevskij diretto da Gabriele Russo ; I miserabili da Victor Hugo e diretto da Franco Però; Massimo Popolizio porterà in scena Ragazzi di vita di Pasolini; sarà presente anche Cechov con Il Gabbiano per la regia di Marco Sciaccaluga; Il vangelo secondo Lorenzo portato in scena da Leo Muscato; Giuseppe Cederna dirige Mozart-Il sogno di un clown; sarà presente inoltre Gabriele Lavia con I ragazzi che si amano da Jacques Prevert; Emma Dante con La scortecata.

Molti altri nomi comporranno la prossima stagione dello Stabile di Torino. Tutti insieme formeranno, per riprendere alcune delle parole di Valerio Binasco, una festa, perché il teatro è una festa, a cui tutti siamo invitati.

Torino, 7 maggio 2018

 

INFO STAMPA: Area  Stampa e Comunicazione del Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

CarlA Galliano (Responsabile), Simone Carrera

Via Rossino 12 – Torino (Italia). Telefono + 39 011 5169414 –  5169435

E-mail: galliano@teatrostabiletorino.itcarrera@teatrostabiletorino.it – www.teatrostabiletorino.it

 

Una serata con Don Giovanni

Al Teatro Carignano di Torino, dal 3 al 22 aprile 2018, è andato in scena Don Giovanni di Molière, uno spettacolo in prima nazionale diretto da Valerio Binasco, al suo esordio come direttore artistico del Teatro Stabile torinese.

Arriviamo al Carignano. Cerchiamo il nostro posto. Ci sediamo e attendiamo l’inizio. Le luci si spengono: ci siamo! Il palco è illuminato da una candela in scena. C’è un telo scuro, semi trasparente. Attacca un arpeggio di chitarra. È Stairway to Heaven dei Led Zeppelin che accompagna la scena: Don Giovanni sta andando a caccia (di una donna). Lo scambio di battute è proiettato sul telo durante lo svolgimento dell’azione, quasi un omaggio al cinema muto.

Si tratta del prologo del Burlador de Sevilla di Tirso de Molina, primo ideatore di Don Giovanni. Un inizio interessante, anche perché estraneo – quasi fosse un frammento a sé stante – per scrittura, interpretazione, modalità, toni e musica al resto della commedia.

L’opera di Molière, suddivisa in cinque atti, narra le (ultime) avventure di Don Giovanni, seduttore seriale ante litteram, e del suo servo Sganarello, sempre al fianco del padrone in ogni nuova impresa e conquista: da Donna Elvira fino alle “contadinotte” Maturina e Charlotte. I due protagonisti sono costantemente in fuga dalle ire dei fratelli della prima e dal promesso sposo di Charlotte. Per trovare riparo e un po’ di riposo, si rifugiano per la notte in un bosco, in cui si imbattono dapprima nei già nominati fratelli e in seguito nella statua del Commendatore che tempo prima Don Giovanni aveva ucciso. Provocata da Don Giovanni che la invita a cena, la statua risponde positivamente e si presenta l’indomani per trascinare il seduttore impenitente con sé nel mondo dei morti.

Don Giovanni, interpretato da Gianluca Gobbi, è spogliato e rivestito di una contemporaneità lontana dalla tradizione letteraria francese seicentesca. I suoi punti di forza sono fisicità e voce, potenti come un tuono. E’ un’interpretazione, sia da parte del regista sia del protagonista, insolita, originale, estremamente viscerale e corporea. Don Giovanni è uno spietato cacciatore di prede, estremo nel concepire il contatto amoroso solo all’interno di logiche di puro consumo. E’ sposato sì, con tantissime donne in ogni città, ma l’unico vero rapporto di fedeltà è con il suo servo, interpretato da Sergio Romano, che lo segue dappertutto, facendosi trascinare da un’avventura all’altra e provando ogni tanto a farlo ragionare, come una moglie sensibile e pacata farebbe con il proprio marito.

Un altro tema fondamentale è il rapporto con la religione e con la morte (approfondito a più riprese con l’omicidio del Commendatore, interpretato da Fabrizio Contri che veste simbolicamente anche i panni di Don Luigi, il padre del protagonista). Don Giovanni si fa beffe di due delle esperienze che fondano ogni esistenza umana.

Non manca, inoltre, l’intenzione di richiamare la tradizione italiana, quella basata sui dialetti, in particolare per le scene nella locanda con i promessi sposi Pierrot (Lucio De Francesco) e Charlotte (Elena Gigliotti).

Le peculiarità del Don Giovanni contemporaneo affiancate alla tradizione dialettale e musicale che incontriamo all’interno dello spettacolo sono cifre stilistiche di un regista che ha come suo primo obiettivo la comunicazione con il pubblico. Parafrasando le sue parole nell’incontro di presentazione dello spettacolo nel ciclo Retroscena: a Don Giovanni, come a qualsiasi classico che si rispetti, piace emozionare ed essere aggiornato.

«Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire» – Italo Calvino, Perché leggere i classici

Federica Beccasio

Riccardo Ezzu

di Molière

con Fabrizio Contri, Lucio De Francesco, Giordana Faggiano, Elena Gigliotti, Gianluca Gobbi, Nicola Pannelli, Fulvio Pepe, Sergio Romano

e con Vittorio Camarota, Marta Cortellazzo Wiel

regia Valerio Binasco

scene Guido Fiorato

luci Pasquale Mari

costumi Sandra Cardini

musiche Arturo Annecchino

assistente regia Nicola Pannelli

assistente scene Anna Varaldo

assistente costumi Silvia Brero

Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Elvira (Elvire Jouvet 40)

“Il teatro è una cosa dello spirito e un culto dello spirito”, così Louis Jouvet pensando al perché si fa teatro e che cosa spinge un attore a entrare in questo mondo misterioso e affascinante. 

Brigitte Jacques traendo spunto dal saggio di Jouvet Molière et la comedie classique (1965, Gallimard), scrive questa pièce teatrale che si concentra su sette lezioni che l’artista francese fece stenografare tra il 1939 e il 1940. Toni Servillo dirige e interpreta  l’apologo del mestiere dell’attore, entrando  nella tecnica e nel pensiero di Jouvet.

In queste lezioni,  che si svolsero  tra il 14 febbraio e il 21 settembre 1940, Jouvet fa preparare a una giovane attrice, Claudia, l’ultima scena del personaggio di Elvira nel Don Giovanni di Molière.  Un’avventura a due, maestro e allieva che si prendono per mano addentrandosi in un territorio oscuro, quello del personaggio. Un territorio da indagare fino in fondo per poter comprendere e dialogare con il personaggio, che va  costruito passo passo, così che lo spettatore in scena al posto dell’attore veda il personaggio. Per giungere a questo il percorso è arduo, estenuante, ma necessario. Per Jouvet  è dovere di una grande attrice arrivare a quell’emozione del personaggio. 

In questa ultima scena Elvira è cambiata: non è più rancorosa a causa del tradimento di Don Giovanni.  È come in estasi, in pace con se stessa. Va incontro a Don Giovanni, all’uomo che ha creduto di poter amare, come un angelo che scende lentamente con gli occhi pieni di luce ad annunciare qualcosa. E’ dunque una scena di annunciazione per Jouvet, in cui Elvira si accosta a Don Giovanni per supplicarlo di cambiare vita, altrimenti l’unico posto che lo accoglierà sarà l’Inferno. Tutto questo è detto   pacatamente, quasi vergognandosi dei suoi momenti di ira precedenti. Torna da lui perché in fondo lo ama ancora, vuole salvarlo.  Sarà l’ultima volta che si vedranno. Così la storia di Elvira e Don Giovanni si intreccia con la storia vera, di un maestro e un’allieva che per sette mesi hanno condiviso lavoro e passione, lezioni di vita e rimproveri reciproci, per poi perdersi e non incontrarsi mai più a causa della guerra e dell’occupazione nazista di  Parigi.

Toni Servillo, nelle vesti di Jouvet, accentua la figura di un  maestro le cui  parole sono cariche di passione, emotività e tenerezza.  È uno spettacolo fatto di sguardi e di silenzi, degli sguardi e dai silenzi da cui nasce la creazione. Può sembrare a prima vista uno spettacolo semplice, ma la grandezza sta nel rendere vive queste lezioni. Lezioni  di recitazione, ma ancor  più lezioni di vita. Sul palcoscenico accade la finzione, ma sul palcoscenico della vita ci aspetta quotidianamente e anche qui l’entrata e i movimenti devo essere quelli giusti.

Abbiamo la possibilità di vedere l’uomo, l’artista nel momento di più alto sforzo e tenerezza, il momento della creazione. Un momento grandioso e allo stesso tempo tenero, ma qui non si tratta di creare un oggetto, un materiale, ma creare il personaggio  attraverso il corpo e le parole di un’attrice.  Per arrivare al punto più alto, le paure e l’orgoglio vanno messi da parte, è necessario liberarsi mentalmente.   Così storia umana e recitazione si intrecciano in un apologo  del mestiere dell’attore che è anche una lezione di vita.

Emanuele Biganzoli

Di Brigitte Jaques

Da Molière e la commedia classica di Louis Jouvet

Traduzione: Giuseppe Monetsano

Regia: Toni Servillo

Interpreti: Toni Servillo (Louis Jouvet), Petra Valentini (Claudia/Elvira) Francesco Marino (Octave / Don Giovanni), Davide Cirri (Leon /Sganarello)

Costumi: Ortensia De Francesco

Luci: Pasquale Mari

Suono: Daghi Rondanini

Aiuto regia: Costanza Boccardi

Produzione: Teatro Milano- Teatro D’Europa, Teatri Uniti