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SAHARA – CLAUDIA CASTELLUCCI

L’essenzialità è una condizione nel teatro sempre difficile da maneggiare, ma è proprio ciò che Claudia Castellucci fa, alla sua quinta presenza al estival, insieme alla compagnia Mòra. In Sahara riduce il teatro al grado zero, in scena ci sono solo tre elementi: corpo, luce e suono.

La scena iniziale delinea già l’atmosfera che accompagnerà tutto lo spettacolo: la platea e il palco sono immersi nel buio e nel silenzio quando la luce di una torcia inizia ad illuminare un attore sullo sfondo. Non appena il palco diventa più visibile, si nota la presenza di sei attori in uno spazio completamente vuoto, i loro vestiti sono rovinati, hanno colori tenui e di tonalità di marrone. Questi sono i colori protagonisti dello spettacolo: sembra di trovarsi in un deserto, intorno a loro non c’è nulla, la luce è di un colore caldo e le immagini non sono del tutto nitide, c’è del fumo che rende l’ambiente “opaco”, come se fossero immersi nella polvere o nella sabbia. 

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THEBES: A GLOBAL CIVIL WAR – PANTELIS FLATSOUSIS

Libano, Repubblica Democratica del Congo, Bosnia, Grecia. Quattro performer, quattro lingue, quattro nazionalità, unite da un passato (e spesso un presente) di guerra civile, di massacri tra vicini, di case e intere famiglie bombardate e distrutte. E proprio di questa sofferenza parla Thebes: A Global Civil War di Pantelis Flatsousis, presentato al Teatro Astra all’interno del Festival delle Colline Torinesi 2024/25.

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La scena è vuota e piena allo stesso tempo: ad abitarla non sono solo i corpi dei quattro attori e i loro racconti, ma soprattutto chi non c’è più, cancellato così radicalmente dalla guerra da lasciare come unica traccia di sé i propri abiti. I vestiti, che coprono ogni centimetro del pavimento, ci ricordano che in questo caso anche sopravvivere e avere la possibilità di sedersi davanti ad una telecamera e raccontare (e raccontarsi) è un privilegio. La recitazione oscilla come un pendolo tra l’incertezza della reminiscenza della sofferenza, in cui il performer mantiene sì la sua individualità, ma si fa mediatore dell’esperienza secolare di conflitti sanguinolenti e fratricidi, e la perfetta dizione di attori professionisti alle prese con un classico della cultura teatrale occidentale. I sette a Tebe si svolge lungo tutta la narrazione come un fil rouge storico, ma soprattutto profondamente umano, con lo scopo di sottolineare come questi argomenti non escano mai veramente dalla sfera dell’attualità.

Questo quartetto di lingue, estranee all’orecchio dello spettatore, lo costringe ad abbandonare la comoda posizione passiva sulle poltrone imbottite del teatro e a mettersi in gioco, riflettendo così in parallelo lo sforzo di testimoniare, di raccontare l’orrore che viene fatto dagli attori.

Il costante dialogo tra scena, video live e film (così profondo da concludere la spettacolo con la proiezione dei titoli di coda) contribuisce a rendere più coinvolgente la narrazione, eliminando la distanza tra attori e spettatori attraverso il primo piano sul volto e sullo sguardo dei performer, superando i limiti naturali del teatro stesso. La sensazione che rimane sulla pelle dello spettatore una volta conclusosi lo spettacolo è di essersi intromesso di nascosto dietro le quinte delle riprese di un documentario, di aver potuto vedere ciò che si cela oltre l’inquadratura.

Lo spettacolo ovviamente non si propone di esaurire un argomento così vasto come la guerra civile, ma nonostante ciò, dice molto più di tanti altri spettacoli che pretendono di informare ed educare sugli stessi argomenti. Thebes – A Global Civil War non scade mai nel banale, nel moralismo spicciolo che ripete massime vuote e ovvie; allo spettatore non viene concesso di scrollarsi di dosso lo sguardo e le parole dei quattro performer con un applauso. Davanti a una narrazione di questo calibro non c’è catarsi che tenga.

Questo spettacolo è testamento del vero potere del teatro e del senso della sua sopravvivenza nel mondo contemporaneo: non il rudere di un’epoca passata da adorare come un’icona e da conservare in una teca in qualche museo, ma la necessità radicata nelle caverne più profonde dell’Io umano di comunicare, di raccontare e di stabilire un rapporto fisico, visivo e mentale con un altro essere umano in carne ed ossa.

Barbara Turinetto

Uno spettacolo di Pantelis Flatsousis & the ensemble / Spectrum

Regia: Pantelis Flatsousis

Drammaturgia: Panagiota Konstantinakou

Interpreti: Vedrana Bozinovic, Racha Baroud, Albertine Itela, George Paterakis

Scene e costumi: Constantinos Zamanis

Musiche originali: Henri Kergomard

Video: Constantine Nisidis

Disegno sonoro: Christina Thanasoula

Assistente alla drammaturgia: Ioanna Lioutsia

Consulente scientifico: Manos Avgerides

Assistenti alla regia: Athena Bakoyianni, Anna Karamanidou

Manager di produzione: Rena Andreadaki, Zoi Mouschi

Produzione: Athens Epidaurus Festival

Con il patrocinio di Consolato Generale della Repubblica Ellenica in Torino

Con la collaborazione di Baroneostu

SENZA TITOLO – ROMEO CASTELLUCCI

L’individualità è per definizione il complesso degli elementi di caratteristica ed esclusiva pertinenza del singolo. Attualmente, cosa ci pone come individui all’interno della collettività? Una tematica complessa, che ci viene mostrata nell’elaborazione dell’installazione performativa Senza Titolo di Romeo Castellucci all’interno della Fondazione Merz. La sala che ospita l’azione è completamente bianca, per non concedere distrazioni allo spettatore, ed è presente un fumo che rende austero il luogo. Al centro della sala è collocata una sbarra d’oro sospesa, che viene colpita dai capelli dei diversi performer, generando così un suono. Appena si entra l’azione è già iniziata, probabilmente mai finita, perché l’azione non prevede una conclusione ma una ciclicità e un continuo sostituirsi di persone che compiono il medesimo gesto. Sono le prime impressioni a rendere la sala un luogo dal tempo altro.

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IL FUOCO ERA LA CURA – SOTTERRANEO

Nel momento in cui vige sempre più la cultura del disimpegno e del disfacimento intellettuale, la compagnia del Sotterraneo al teatro Astra mette in scena Il fuoco era la cura dove l’elogio dell’Arte in tutte le sue forme s’impossessa dello spazio scenico; dalla recitazione al ballo, dal cinema al teatro, con la letteratura come punto di riferimento alto. Come afferma il filosofo Ferraris, la verità non esiste se non viene registrata. Quando ogni impronta di sapere e di civiltà viene data alle fiamme l’umanità diventa vulnerabile all’affermazione di regimi autoritari. Questo, secondo il capitano Beatty (Radu Murarasu), per un principio di uguaglianza fra individui che libera dal peso di un pensiero complesso, in un futuro distopico che stimola l’immaginazione dello spettatore.

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LA LUZ DE UN LAGO – EL CONDE DE TORREFIEL


Presentato con Piemonte dal Vivo in condivisione con Torinodanza

Il 12 e 13 ottobre 2023 lo spettacolo LA LUZ DE UN LAGO della compagnia catalana EL CONDE DE TORREFIEL è andato in scena presso il Teatro Astra, in occasione della 29esima edizione del Festival delle Colline Torinesi.

El Conde De Torrefiel è una compagnia fondata a Barcellona nel 2010 da Tanya Beyeler e Pablo Gisbert. Il loro lavoro si articola attraverso varie collage di performance metafisiche tra video, pittura, suoni, luci.

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Dopo il precedente lavoro Imagen interior questo spettacolo concentra il progetto come essenza minimalista artefice di una visione narrativa concentrata sui sensi dello spettatore. 

El Conde si rifugia in una sala cinematografica. “Questo è un film” dice la voce fuori campo all’inizio del pezzo, di fronte a uno spazio vuoto scenografato da diversi pannelli bianchi che serviranno per proiettare le storie. 

La musica, i suoni, le immagini in distorsione e le didascalie fanno da catena alla piece multimediale, un esperimento sonico e visivo all’interno di un programma multidisciplinare che tocca i sensi dell’essere umano.

Si passa dalla musica underground Atrocity Exhibition dei Joy Division degli anni ’80, ad Angels dei Massime Attack per finire al Vendredì di Flavier Berger del 2015. Questo è il lasso di tempo musicale: l’educazione tragico sentimentale di diverse generazioni temporali sfocia poi con un action shit painting.

Da lì nasce la storia di due ragazzi di 23 anni a Manchester nel 1995, che dopo un concerto dei Massive Attack (Angel fa da colonna sonora alla prima storia) decidono di andare al tempio della musica del momento, il mitico New Osborne. Lì, quei giovani scopriranno il suono tecno del loro tempo. Cito da un’intervista fatta al El Conde dal giornalista Pablo Caruana Húder e pubblicata su un periodico spagnolo:

“Una musica semplice, costante e ripetitiva, senza variazioni, senza complessità. Musica che non ha testi, musica che non ti dice nulla, musica che non intellettualizza, musica che non ti inganna, musica che ti penetra e soprattutto musica con volume. Un colpo grave, ritmico, continuo che ricorda la semplicità del tempo e allo stesso tempo la complessità del tempo”. E ancora: “Una marea di persone agita i loro corpi allo stesso ritmo. Invocano la complessità del tempo e ballano volendo scomparire…” Una storia di amore, corpi e LSD. Questa prima storia ci parla di quel passato in cui una generazione si è aperta al mondo quando Margaret Thatcher disse “La società non esiste, esistono solo gli individui…” I testi e la voce femminile che narra la storia procedono a ritmo diegetico.

Da lì, verranno altre storie che proseguono sulla sottile linea tra finzione e realtà. Nella seconda un impiegato di banca che, in un cinema sperduto in una Atene d’inizio crisi del 2006, vede un film sulla gioventù anni’80 incontra ripetutamente un tizio più giovane di lui: il tutto viene commentato da una voce narrante over. Questa gay story potrebbe omaggiare il cinema di Fassbinder con un finale ardente. Nella terza storia troviamo una biologa marina trans che tornando a casa legge una lettera lasciatagli dalla nonna morta, che si conclude con “Non aver paura”. Le didascalie ci accompagnano mentre un performer con gesti lenti tinge di nero due pareti bianche, come se ci volesse dire che l’inclusività non esiste.

Infine la quarta storia, ambientata nel futuro, esattamente nel 2036 a Venezia, al teatro della Fenice, dove in mezzo ad un dramma dai contenuti social environmental, irrompono in scena degli eco-attivisti smerdando gli spettatori in sala. Una storia che è anche un epilogo di riflessione meta-artistica, nel solco dei Friday for Future.

Non c’è trucco non c’è inganno, non esiste nessuna quarta, quinta , sesta parete tra le storie. Esistono solo pochi grandi pannelli che intrattengono il pubblico; le quattro storie si aprono e chiudono con l’aiuto dei tre attori in scena che svolgono con lentezza i movimenti dei cambi scena, sotto gli occhi degli spettatori, muovendo i pannelli fino ad arrivare ad un finale simile ad una installazione da happening d’arte concettuale.

Le didascalie, veri e propri testi, sono asciutti e vanno a ritmo seguendo una narrazione che non è parlata, non ci sono mai dialoghi: “I personaggi che non hanno immagine e sono solo parole sono come gocce d’acqua attraversate dalla luce che le fa brillare per un istante e poi le riporta alle profondità dell’anonimato” come lo sono i tre attori sul palco. Non succede nulla in scena e allo stesso tempo tutto accade. Non è teatro in senso classico, è un modo di rappresentare il disagio di un universo giovanile e il pubblico s’interroga se vale la pena di soccombere o combattere per una società consona ai nostri ideali. 

El Conde ha voluto che fosse il pubblico a sviluppare il film durante lo spettacolo, per essere trasportato in un virtuale “Luz de Un Lago”. Sarebbe stato interessante, da un punto di vista soggettivo, dare forse più enfasi ai quattro episodi con maggiori sottolineature musicali. La fine è come uscire dalla sala cinematografica perché la Compagnia annulla il rito di  ringraziamento con gli spettatori.

Luigi Rinaldi

  • regia e drammaturgia Tanya Beyeler e Pablo Gisbert
  • scenografia La Cuarta Piel (César Fuertes, Iñigo Barrón García, Ximo Berenguer), Isaac Torres, El Conde de Torrefiel
  • performer Mireia Donat Melús, Mauro Molina, Isaac Torres
  • sculture Mireia Donat Melús
  • coordinazione e direzione tecnica Isaac Torres
  • suonoRebecca Praga, Uriel ireland
  • luci Manoly Rubio García
  • video Carlos Pardo, María Antón Cabot
  • distribuzione e produzione Alessandra Simeoni
  • una produzione CIELO DRIVE – Alessandra Simeoni
  • con il supporto di ICEC – Generalitat de Catalunya, Festival TNT, Terrassa Teatre Principal de Lloret de Mar
  • coproduzione Festival GREC – Barcelona, CC Conde Duque – Madrid, Théâtre St. Gervais – Genève, Teatro Municipal de Porto – Rivoli, Festival d’Automne – Paris, Festival delle Colline Torinesi, Teatro Metastasio di Prato, VIERNULVIER – Gent

Fantasmi. La Stagione 2024-2025 di Teatro Piemonte Europa

Da qualunque angolazione lo si accosti, il teatro si fa gioco della sua etimologia. La parola teatro deriva dal greco ϑέατρον, ovvero gli edifici in cui fare teatro, che a sua volta nasce dal verbo ϑεάομαι: guardare essere spettatore. Eppure basta frequentarlo, studiarlo anche poco, per rendersi conto che la vista non è la chiave giusta per penetrarvi. 
Bisogna, anzi, allenare i sensi all’invisibile. Si potrebbe dire che il teatro è luogo dove si pratica una prossimità con i fantasmi. Una caccia continua allo spettro.
Questa è la strada che ci invita a percorrere Andrea De Rosa, direttore artistico del TPE, che presenta alla stampa la prossima stagione teatrale, l’ultima di un triennio incentrato sul macrotema della verità.

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29 Festival delle Colline Torinesi- Sergio Ariotti e Isabella Lagattolla

<< Dì la verità ma dilla obliqua>> così si apre la presentazione del 16 maggio del  Festival delle Colline Torinesi, giunto alla sua 29 edizione, con una mostra alla Fondazione Merz, dal riflesso apollineo, una pala sacra situata in un luogo che sembra essere una chiesa, panchine vuote, candele bruciate ormai spente e dentro la pala lapidi distrutte, epigrafi con nomi, volti e foto differenti. Luci e ombre nuovamente si incontrano e si scontrano per restituire una visione, quanto più realistica e profonda del mondo di oggi. Numerosi gli ospiti invitati all’evento, quali la stessa Beatrice Merz presidentessa della Fondazione omonima che da anni collabora con il Festival delle Colline, Matteo Negrin direttore della Fondazione Piemonte dal Vivo, Filippo Fonsatti direttore del Teatro Stabile di Torino e ancora Andrea De Rosa direttore artistico del Teatro Astra e ultima ma non per importanza Grazia Paganelli responsabile Area Cinema Museo Nazionale del Cinema e così tante altre figure in rappresentanza del Ministero della Cultura, della Fondazione Compagnia di San Paolo, Fondazione CRT e Circolo dei Lettori, Teatro DAMS, Mediateca Rai e altro ancora. La collaborazione sembra essere quindi la parola chiave del Festival delle Colline, nato nel 1996 da un’idea di Sergio Ariotti, direttore artistico del Festival e Isabella Lagattolla, direttore amministrativo. Coppia nel lavoro e nella vita, la loro sintonia è palpabile in ogni stagione, la visione contemporanea e attuale che vogliono trasmettere è fuori dagli schemi, un nuovo modo di portare il teatro nel mondo torinese e non solo. Confini e sconfinamenti è il tema di quest’anno, riproposto pensando al successo dell’anno precedente e rafforzato dalle quotidiane dinamiche odierne, che ci rendono spettatori di guerre, dolori, sofferenze e tanta dispersione. I confini sono quelli del tempo, delle nazioni, delle proprie radici ma anche quelli della memoria e dei ricordi. La 29 edizione abbraccia senza timore il passato, il presente ed il futuro rappresentandolo in ben 52 recite in 28 giorni. Una full immersion colma di significato, storie ed identità alla quale, sono sicura non mancherà l’effetto sorpresa. Numerosi sono gli eventi connessi alla programmazione teatrale che come un grappolo d’uva, accoglie i propri spettacoli in numerose sedi differenti tra cui la Fondazione Merz, il Teatro Astra, Lavanderia a Vapore e le Fonderie Limone. Partecipare al Festival delle Colline come spettatore permette di viaggiare per il mondo stando seduti su una poltrona. Un festival internazionale con la missione di far incontrare le diverse culture, di farle intrecciare, di creare una nuova e più positiva, consapevole e profonda visione del Diverso. Il pubblico è un nuovo cittadino, un cosmopolita teatrale. Non ci resta quindi che la trepidante attesa del 12 ottobre per immergerci completamente nella proposta artistica di Sergio Ariotti e Isabella Lagattolla.

Rossella Cutaia

Cassandra- il potere

Avete mai provato a far dei passi all’interno di una mente umana? No? Ebbene, al Teatro Astra con Cassandra è possibile farlo.

Dietro le quinte sono allestite le tribune, le nostre tribune, quelle del popolo troiano. Il pubblico diventa parte integrante dello spettacolo e della sua scenografia, luci e suoni ci portano in un ambiente onirico, attraversato da voci flebili ed emozioni strazianti. Due porte, il rituale della soglia è iniziato, aspettiamo la nostra principessa troiana, Cassandra. La sua ombra appare tutto d’un tratto, quasi impercettibile nel buio più cupo nel quale agisce; poi una luce, parla, stravolta e travolta dalla rabbia, legata ad un passato di tormento, incarnato perfettamente nelle corde elastiche che fisicamente la trattengono. Un’ingiustizia, quella perpetrata dal potere che tutto porta con sé e rade al suolo, lasciandosi alle spalle solo macerie dello stesso peso dei ricordi, quando essi divengono macigni, su un cuore che ha lottato troppo a lungo. Lo spettacolo appare di una struttura solida, visibile e percettibile lì dove la vista non arriva: ogni scelta, dalla scenografia ai suoni e alle luci, risulta minuziosa e precisa. L’impressione è che ogni cosa sia esattamente come dovrebbe essere, la percezione è che ogni cosa sia al posto giusto. Luci rosse, l’inferno, un incontrollato super-io, quello di Cassandra, che prende il sopravvento, che agisce senza chiedere il permesso. Un velo rosso, pietoso, che dalla sua anima si estende fino alle tribune, rendendo noi pubblico, ormai diventato solo un’ombra, la perfetta incarnazione di un popolo fantasma. Luci bianche, la principessa troiana torna al suo antico splendore, rendendo limpide, agli occhi dei troiani, le cicatrici di cui è coperta la sua più puerile e pura coscienza, segnata per sempre da profondissime ferite. Luci blu, sfondo della consapevolezza, un sentimento maturo di chi accetta il dolore senza mai smettere di combatterlo, l’arma è la memoria, una memoria eterna come Troia. Riecheggia, ad un certo punto, l’eco di un sussurro, un mito antico, quello di Eco, ninfa punita da Era, un’altra donna condannata per aver scelto in virtù di sé stessa che ora presta la sua voce a Cassandra, rendendo la sua condanna un potere. Potente è il contrasto tra i ricordi, le emozioni, la coscienza, un percorso che esplora e racconta la vita anche di altre donne, il quale destino non è stato determinato da loro stesse ma da altri sopra di loro, quali Elena di Troia, Polissene e così implicitamente anche altre. Un monologo, quello di Cecilia Lupoli, durato 60 minuti, che narra però di una vita intera, di più vite anzi, di un loop di ingiustizie dove la vera condanna è l’essere impotenti. La dizione è perfetta, la potenza vocale è penetrante, la forza e la fatica fisica richiesta dalla performance esprimono perfettamente e coerentemente la forza e la fatica di una morale di giustizia  che vuole affermarsi. Qual è il vero potere? Scegliere, decidere tra un si e un no, prendere una posizione e difenderla fino alla fine  << Il mio ruolo è dire NO>> , così trova la pace Cassandra e liberandosi di ciò che la trattiene, attraversa la seconda soglia in una bianca e splendente luce divina.

Rossella Cutaia

Crediti

di Christa Wolf

regia Carlo Cerciello

scene Andrea Iacopino

costumi Anna Verde

musiche Paolo Coletta

luci Cesare Accetta

consulenza movimenti Dario La Ferla

trucco Vincenzo Cucchiara

acconciatura Team Leo

aiuto regia Aniello Maraldo

foto di scena Guglielmo Verrienti

assistente alla regia Mariachiara Falcone

produzione Teatro Elicantropo, Elledieffe, TPE- Teatro Piemonte Europa

Edipo Re- Andrea De Rosa

“Abbracciare l’irrazionalità, più che altro l’ignoto, l’unico rapporto che può avvicinarci agli dei è la follia”

Platone

Un’impronta rimane sul vetro, come nell’anima, come sul cuore, senza far respirare i tessuti, nella smania di imparare l’arte di vedere le cose nascoste, soffochiamo ogni battito di sincera verità. 

Pannelli di plexiglass, pannelli dorati, fari antichi che proiettano una luce calda, quasi rovente. La scenografia di Daniele Spanò è metallica, direi trasmetta un  richiamo spaziale, simbolo di un lungo viaggio che si consuma durante il suo stesso percorso. Edipo, interpretato da Marco Foschi è come una navicella che arrivata troppo vicina al sole, brucia e si dissolve. Tiresia, portatore di profezie, colui che intimorisce l’animo umano e ne svela ogni fragilità. Cosa si è disposti a fare per non imbattersi nel proprio destino? Per mutarlo e cambiarlo a nostro piacimento?  Tiresia è interpretato da Roberto Latini, che incarna anche Apollo, un Apollo rivisitato, un Apollo rock. Personaggi sapientemente inseriti nella drammaturgia dal regista, nonché direttore artistico del Teatro Astra, Andrea De Rosa. Apollo, dio obliquo, dio della luce, colui che funge da guida appellandosi alla ragione, senno che il cuore rifiuta, rendendo cechi gli occhi di qualunque essere umano, la cui forza, è inevitabilmente sottratta dalla verità. Aletheia è la parola chiave, una verità fatta di reminiscenze che attende solo di uscire allo scoperto, come una nascita. Edipo Re indaga e svela la tragedia della verità, attraverso i legami, materni e fraterni nonché amorosi ma anche attraverso il significato del potere di cui Creonte mette a nudo l’essenza. Uno spettacolo che mette in mostra il fato, un destino ineluttabile che l’uomo incontra specialmente quando cerca di sfuggirgli.  La voce è la protagonista indiscussa della pièce teatrale, le corde vocali del coro composto da Francesca Cutolo e Francesca Della Monica vibrano forti e decise, voci dotate di un’amplificazione divina, i lamenti del coro appaiono indecifrabili, sono forse gemiti o grida? Sono strazianti urla di nascita o di vita sottratta? Domande a cui lo spettatore è chiamato a rispondere, collocando i suoni che sente in base alla propria interpretazione del dolore, della disperazione e della paura, sentimenti noti a tutta l’umanità seppur in modo differente per ognuno. Una sedia, rosso sangue è posta in primo piano, Edipo si mostra raramente in volto, le spalle sono ciò che lo spettatore vede per la maggior parte del tempo, anche noi siamo Edipo, anche noi siamo chiamati a vedere la verità con lui. Giocasta, interpretata da Frédérique Loliée, è un personaggio che seppur principale, risulta talvolta messo in secondo piano come ogni madre, inconsapevolmente, fa col proprio figlio: confessioni e rimpianti si slegano come nodi di uno stesso filo, ingarbugliato nel gomitolo della verità. La peste, antenata del Covid, viene richiamata come punizione divina all’ingiustizia, condannati, noi esseri umani ad una fragilità che non possiamo contrastare se non accettandola. Distanza, rabbia, paura e solitudine, le questioni irrisolte della vita ritornano indietro, come un boomerang, nella disperata ricerca della pace. 

Parlando con i protagonisti

Andrea De Rosa, Regista

Edipo e Giocasta, madre e figlio , marito e moglie per patto politico, un rapporto di condivisione e non di seduzione, nulla avviene per caso è Apollo a disegnare questo percorso ma chi è Apollo? Apollo è un personaggio che io ho inventato, come Tiresio, poichè per me è sempre esistito, è colui che porta la luce e che pone la verità in obliquo, così che non possa accecare. Edipo Re è lo spettacolo su cui è stata costruita l’intera stagione “Cecità”, non vedere non è solo un limite, talvolta è anche un vantaggio. Con questo spettacolo in particolare abbiamo indagato sul concetto odierno di verità comparandolo al concetto di verità per i Greci.

 E’ Edipo Re un’opera fatalista? 

Apollo lascia le scelte, sono gli stessi uomini a decidere quali prendere, decretando così il proprio destino. 

Qual è il significato dei pannelli in scena?

L’idea dei pannelli è nata nel lockdown,  quando arrivano questi eventi a cambiare il corso della storia, ci si chiede il perché ed è la stessa domanda a cui Edipo Re si sottopone con l’arrivo della peste a Tebe. 

A quale parte di voi stessi avete rinunciato per interpretare al meglio i vostri personaggi? 

Fabio Pasquini, Creonte

Più che rinunciare a qualcosa, l’abbiamo aggiunta, io personalmente ho portato con me la paura, il risentimento, la stessa sensazione di impotenza, mettiamo tanto di noi nella complessità dei personaggi.

Qual è stato il vostro rapporto con questa tragedia?

Frédérique Loliée, Giocasta 

Per me il rapporto con la tragedia greca di Andrea De Rosa è stato scioccante, indagare la verità è stato folgorante. La tragedia è per me il primo stupore, ciò che ti lascia attonito.

Quale è l’importanza della voce , interagendo in un Edipo archetipico e atipico? 

Francesca Della Monica, Coro

Ogni spettacolo dovrebbe essere un concerto di voci, liberare la voce dalla sua identrofia espressiva permette di lavorare sul binomio mutos/vogos e così abbracciare la voce e la parola. Un connubio perfetto tra verbale ed extraverbale, tra voce della storia e voce del muto. 

Rossella Cutaia

MARCO CORSUCCI – LE MIE PAROLE VEDRANNO PER ME

Uno sguardo interno e amplificato

Nell’ambito della stagione 2023/24 del TPE Teatro Astra è stato presentato un lavoro di ricerca sullo sguardo in relazione alla cecità, tematica che attraversa i 25 spettacoli selezionati per questa stagione.

Le mie parole vedranno per me nasce dalla proposta di Andrea De Rosa, direttore del TPE, a Marco Corsucci e Andrea Dante Bernazzo, giovani talenti del teatro contemporaneo, di indagare il tema della cecità attraverso la loro attenzione verso la percezione visiva e il ruolo delle immagini, già intrapresa nei precedenti lavori.

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