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Teatro&Arte – Una imagen interior, Ecloga XI e La trilogia delle macchine

Dalla 27° edizione del Festival delle Colline Torinesi suggestioni sui tre spettacoli che all’interno della rassegna rappresentano il filone Teatro&Arte. Un viaggio nella poetica dell’umano attraverso il disfarsi delle comunità, la solitudine del maschile e femminile per una mancata redenzione, il perturbante e assordante silenzioso logos delle macchine. Un filo che unisce l’incanto in un crescendo di disgregazione.

“Vorrei renderti visita
nei tuoi regni longinqui
o tu che sempre
fida ritorni alla mia stanza
dai cieli, luna,
e, siccom’io, sai splendere
unicamente dell’altrui speranza”

(Andrea Zanzotto – IX Ecloghe)

“La luce del fuoco toglie spazio alla notte

e concede loro un tempo addizionale.

Un tempo per l’astrazione”.

(Da Una imagen interior testo teatrale di Pablo Gisbert)

In questo “tempo per l’astrazione” i pensieri si espandono, attraversano “regni longinqui” e poi ritornano come la luna di Zanzotto o come gli amori di Venditti.

In questo tempo addizionale mi ritrovo ad abitare i luoghi geometrici dei pensieri e come la donna vestita di bianco di Una imagen interior “considero me stessa una persona molto cerebrale”, la certezza della morte attraversa anche il mio corpo, per più di un secondo, ma che rimane comunque un tempo insufficiente. 

“È impossibile pensare alla morte quando si ha fretta”.

I RIFIUTI, LA CITTÀ E LA MORTE – GIOVANNI ORTOLEVA

Scritto da Rainer Werner Fassbinder nel 1975 nel corso di un unico viaggio aereo (così si dice, almeno), I rifiuti, la città e la morte suscitò scalpore a causa dei pesanti temi trattati, e venne quasi immediatamente censurato, cosicché la prima messa in scena tedesca del testo è avvenuta soltanto nel 2009, a trentaquattro anni dalla sua stesura e a ventisette dalla morte del suo autore.

In occasione della 27eisma edizione del Festival delle Colline torinesi, il regista Giovanni Ortoleva lo ha fatto rivivere sul palcoscenico del teatro Astra, il 18 ottobre 2022.

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UNA IMAGEN INTERIOR – EL CONDE DE TORREFIEL

Ipnosi tra arte, luci e parole

La sinergia “Teatro & Arte” apre la 27° edizione del Festival delle Colline Torinesi l’11 ottobre al Teatro Astra di Torino. L’immensa tela che appare distesa sul palcoscenico, a un primo sguardo di carattere avanguardistico, sarà infatti la vera protagonista dello spettacolo spagnolo, insieme all’azione ipnotica e dominante dello schermo dei sottotitoli. È grazie a quest’ultimo elemento in particolare che lo spettatore rifletterà su una quantità smisurata di temi, tra cui i binomi sogno/realtà, finto/autentico, artificio/natura, presente/passato, vita/morte.

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LA SOLITUDINE DEI CAMPI DI COTONE – ANDREA DE ROSA

Un teatro. Un sipario rosso sulla scena. Due luci.

Andrea De Rosa, ne La solitudine dei campi di cotone, ci pone già dall’inizio dello spettacolo davanti a un accadimento: due personaggi si incontrano nel mezzo di un cammino. Il cliente (Lino Musella) incontra il dealer (Federica Rossellini). Sulla strada del cliente, il cui ingresso avviene dalla platea, il dealer gli blocca la strada. Nasce così una riflessione sul commercio, sullo scambio, ma anche sul dare e sull’avere, sull’offrire e sul ricevere.

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SU ALDA MERINI – DUE SPETTACOLI A CONFRONTO

Galeotte furono le rose rosse e le sigarette.

“I poeti lavorano di notte

quando il tempo non urge su di loro,

quando tace il rumore della folla

e termina il linciaggio delle ore.”

(Alda Merini)

“Non è facile accostarsi a un Mito” si legge nella nota dello spettacolo Alda Merini. Una storia diversa, in programma al TPE di Torino. Sebbene comprenda il motivo per cui ci si possa accostare a una donna “scomodamente immensa” come la Merini come a un mito, quest’associazione lascia qualche dubbio, proprio perché come scrive lei stessa di sé

E se diventi farfalla nessuno pensa più a ciò che è stato quando strisciavi per terra e non volevi le ali” – (Alda Merini)

È in quello strisciare “per terra” che nasce la poesia e la donna Alda Merini, piuttosto che dalle “altezze” del mito. Mitizzarla sarebbe come snaturarla, con il rischio, come è accaduto, di renderla icona bidimensionale, perdendo quella dimensione carnale che è stata per lei motivo di vita, nel vero senso della parola.

Alda Merini. Una storia diversa e Alda. Diario di una diversa sono due spettacoli omaggio alla poetessa milanese scomparsa nel 2009 che per dodici anni ha vissuto in manicomio, in un periodo in cui si praticava ancora l’elettroshock.  I due spettacoli parlano della stessa storia, usano gli stessi riferimenti testuali e hanno persino (o quasi) lo stesso titolo ma sono paradossalmente agli antipodi.

Perché?

Alda. Diario di una diversa andato in scena al Gobetti di Torino è uno spettacolo compiuto, che striscia nella polvere ma che sa innalzarsi su vette altissime senza perdere mai il peso dei corpi, capaci di ripiombare rovinosamente a terra anche dopo aver raggiunto altezze considerevoli, proprio come lei.

Alda Merini. Una storia diversa è fondamentalmente un reading, una voce senza corpo, uno spettacolo persino forse stucchevole con momenti di ridondante e didascalica banalità.

“Rosse rosse” dice l’attrice indicando con la mano delle rose rosse per terra sul palco. “E fumavo, fumavo” legge l’attrice mentre con le dita mima il gesto del fumare. Fino ad arrivare alla scomparsa definitiva di un corpo già inconsistente, per dare spazio a immagini statiche che si alternano sulla parete di fondo sulle note di brani ben noti che fanno l’occhiolino a un facile sentimentalismo.

Rose rosse per terra, un baule e un leggio. L’eco di una voce.

Così si può riassumere lo spettacolo Alda Merini. Una storia diversa con una frase che non è una frase, proprio perché lo spettacolo non è uno spettacolo. Il motivo per cui non possiamo definire “frase” la successione di parole sopracitate è per l’assenza della parte fondamentale di ogni preposizione: il verbo. L’assenza del verbo implica la mancanza di un’azione e di conseguenza di un “senso”, così che le parole private della possibilità di organizzarsi attorno ad esso rimangono un mero elenco. Ed è esattamente quello che accade durante lo spettacolo, la mancanza di “azione” che si limita allo spostamento dell’attrice da un luogo deputato a un altro (il leggio, le rose rosse e il baule) dove principalmente vengono letti brani e poesie scritti dalla stessa Merini pongono una scelta stilistica che si concentra principalmente sulla parola piuttosto che sul corpo. Anche nel breve monologo centrale, durante il quale le parole, seppur non lette, vengono comunque declamate, non assistiamo a una vera e propria interpretazione. L’attrice nonostante pronunci parole in prima persona, così come sono state scritte dalla Merini, non ci dà mai l’impressione di trovarci davanti a un personaggio ma al massimo a un narratore che ci sta leggendo una favola.

In Alda. Diario di una diversa si apre il sipario e vediamo tutto il palco ricoperto di sabbia, con un cumulo sullo sfondo a sinistra a formare una piccola sommità. Adagiati alla base e sul pendio di questa piccola vetta dei corpi inanimati, quattro donne e un uomo, appaiono come “cose” dimenticate. Troviamo due sedie sparse e un praticabile sulla destra, dal lato opposto della piccola altura, anche queste conficcate nella sabbia. Una donna avanza dal fondo verso una sedia in proscenio con indosso un cappotto e un abito che si intravede, come a volerci restituirci vagamente il sentore di un’epoca. Indossa scarpe scure con dei tacchetti bassi che affondano nella sabbia. Un corpo ingombrante, la fatica dello spostamento verso la sedia a causa della sabbia ma, seppur differente nelle sembianze, appare, dapprima con pudicizia e poi sempre più sfacciatamente, il personaggio di Alda Merini che lascia le pagine dei suoi scritti per prendere nuovamente vita in tutta la sua carnalità, come carnali saranno i suoi ricordi che in quei corpi adagiati troveranno presto nuova vita.

La bellezza di un corpo che manifesta la qualità della danza rende ancora più sublime questo confine tra realtà e finzione non solo inteso come soglia tra gli interpreti e gli spettatori ma come soglia tra il dentro e il fuori della donna, dell’amante, della madre, della poetessa Alda Merini.

Sulle sabbie del tempo i ricordi prendono corpo e la stessa spaventosa meraviglia della vita rifiorisce attraverso il gioco del teatro. Così cornici e altalene calano dal soffitto, sedute capovolte svelano nuovi utilizzi, cambi di abiti a vista, cambi di peso, ciò che è leggero appare pesante e viceversa, il fremito di una magia come stupore infantile che prende campo e il baratro di una solitudine che non ci abbandona mai. Su tutto e dentro tutto nuvole di sabbia, montagne da scalare, mani che tastano e afferrano la vita con violenza, trucco sbavato che accarezza.

La sigaretta non è un gesto mimato distrattamente tra una parola e l’altra è fuoco che arde e brucia è fumo tra le dita che va a confondersi con le nuvole di polvere diventando un tutt’uno. Le rose rosse non sono macchie per terra da indicare ma un mazzo dal gambo lungo di metallo che come giavellotti vengono lanciati e conficcati nella sabbia ad ogni passo che Pier compie per avvicinarsi ad Alda, come dardi piantati nel cuore.

La sigaretta non è un gesto mimato distrattamente tra una parola e l’altra è fuoco che arde e brucia è fumo tra le dita che va a confondersi con le nuvole di polvere diventando un tutt’uno. Le rose rosse non sono macchie per terra da indicare ma un mazzo dal gambo lungo di metallo che come giavellotti vengono lanciati e conficcati nella sabbia ad ogni passo che Pier compie per avvicinarsi ad Alda, come dardi piantati nel cuore.

In entrambi gli spettacoli gli spettatori erano entusiasti ma mentre in uno parlavano della bravura degli interpreti, della perfomance e sì anche di Alda Merini, nell’altro parlavano dei manicomi e della legge Basaglia e questo mi ha portato nuovamente a interrogarmi su che cos’è Teatro? Che cosa è Arte? Quale funzione deve assolvere uno spettacolo? Sempre che debba assolvere necessariamente funzioni diverse dal mero estetismo. Può anche uno spettacolo non riuscito sollevare riflessioni e porre accenti su aspetti che se no sarebbero forse dimenticati? Possiamo accettare per un fine più alto che anche l’approssimazione e la mancanza di profondità, di cura, di “bellezza”, possano svolgere una loro funzione educativa o morale? O è stata proprio questa accondiscendenza, questa tolleranza di un “all’incirca”, “quasi”, “ma va bene così perché tanto quello che conta è il cuore” l’inizio di una deriva inarrestabile?

In onestà non ho una risposta ma, nonostante mi senta un po’ “idiota”, continuo fermamente a credere che “la bellezza salverà il mondo”.

Nina Margeri

Alda Merini. Una storia diversa

scritto e diretto da Ivana Ferri – con Lucilla Giagnoni – voce fuori scena Michele Di Mauro – musiche di Don Backy, Lucio Dalla, Gianluca Misiti – luci e scene Lucio Diana – montaggio video Gianni De Matteis – coordinamento tecnico Massimiliano Bressan – organizzazione Roberta Savian – produzione Tangram Teatro Torino – con il sostegno di Ministero della Cultura e Regione Piemonte

Alda. Diario di una diversa

Da Alda Merini adattamento teatrale di “L’altra verità. Diario di una diversa di Alda Merini – Drammaturgia e regia Giorgio Gallione – con Milva Marigliano – e con i danzatori di Deos Danse Ensemble Opera Studio: Luca Alberti, Angela Babuin, Eleonora Chiocchini, Noemi Valente, Francesca Zaccaria – Coreografia Giovanni Di Ciccio – Scene Marcello Chiarenza – Costumi Francesca Marsella – Luci Aldo Mantovani

BREVI INTERVISTE CON UOMINI SCHIFOSI

Il drammaturgo e regista Daniel Veronese, maestro del teatro argentino, porta in scena le Brevi interviste con uomini schifosi con sguardo feroce e molto humor,  uno zibaldone di perversioni e meschinità, che ritraggono il maschio contemporaneo come un essere debole, che ricorre al cinismo se non alla violenza come principale modalità relazionale con l’altro sesso. Attraverso una rosa di racconti traccia una propria linea drammaturgica che racconta di uomini incapaci di avere relazioni armoniche con le donne e ci invita a osservarli da vicino.

Daniel Veronese traspone queste voci, scritte da Wallace in forma di monologo al maschile, in dialoghi tra un uomo e una donna. In scena però chiama a interpretarli due uomini, Lino Musella e Paolo Mazzarelli che si alternano nei due ruoli maschile e femminile, in una dialettica che mette in luce tutte le fragilità, le gelosie, il desiderio di possesso, la violenza, il cinismo insiti nei rapporti affettivi.

Con umorismo feroce e impietoso, il maschio contemporaneo è ritratto come un essere incapace di costruire relazioni con le donne.  Assisteremo all’uomo che insulta la moglie che lo sta lasciando; all’uomo che vanta la propria infallibilità nel riconoscere la donna che ci sta senza fare storie; a quello che usa una propria deformazione per portarsi a letto quante più donne gli riesce, insomma una galleria impietosa di mostri.

Brevi interviste con uomini schifosi non può non suscitare serie riflessioni sul rapporto uomo-donna. In effetti è lo stesso attore Lino Musella ad affermare in un’intervista:

Azionano domande che il pubblico deve completare, su un tema come il sessismo, ma non solo. Ci sono questioni di genere, dinamiche di relazione, rapporti cannibali.

Foto di Marco Ghidelli

Nonostante i due attori collaborino ormai da anni come coppia, in questo spettacolo non hanno forse trovato la loro piena sinergia apparendo talvolta “sbilanciati”. Scelta interessante quella di alternare i ruoli di genere e non renderli statici ma non completamente riuscita. Da un lato Lino Musella incarna e indaga perfettamente, attraverso i vari ruoli, la mostruosità umana conferendo anche sfumature diverse non solo in base agli episodi ma anche nell’alternanza maschile/femminile. Mazzarelli al contrario, nonostante l’indiscutibile capacità attoriale, sembra quasi trattenersi e non voler cedere a tale mostruosità rimanendo sulla difensiva (se così si può definire la non immedesimazione completa nel testo) e non lasciando spazio a troppe nuances tra maschile e femminile.

Lo spazio scenografico è essenziale, l’unico movimento geometrico è costituito da una diversa disposizione dei tavolini e dai due attori che a secondo del ruolo e della dialettica fra di loro, stanno uno seduto e l’altro in piedi, o entrambi seduti. Anche i costumi sono ridotti al minimo: t-shirt, jeans e a piedi scalzi.

Il risultato finale è comico e disturbante allo stesso tempo. Una rappresentazione cinica ma attuale dell’uomo moderno che suscita il riso nella sua drammatica veridicità.

Irene Merendelli

Di David Foster Wallace

Regia e drammaturgia Daniel Veronese
Traduzione Aldo Miguel Grompone e Gaia Silvestrini
Con Lino Musella e Paolo Mazzarelli
Disegno luci Marciano Rizzo
Direzione tecnica Marciano Rizzo Gianluca Tomasella
Fonica e video Marcello Abucci
Realizzazione video Alessandro Papa
Responsabile di produzione Gaia Silvestrini
Assistente alla produzione tirocinante dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico Gianluca Bonagura
Foto di scena Marco Ghidelli
Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Marche Teatro, TPE – Teatro Piemonte Europa, FOG Triennale Milano Performing Arts, Carnezzeria srls
in collaborazione con Timbre 4, Buenos Aires, e Teatro di Roma – Teatro Nazionale

I DUE GEMELLI VENEZIANI – VALTER MALOSTI

Da martedì 21 a venerdì 31 dicembre va in scena al Teatro Astra I due gemelli veneziani di Carlo Goldoni per la regia di Valter Malosti, con Marco Foschi.

Il sipario si apre su un tavolo in legno, vi giace disteso un corpo umano ben vestito; dietro sta Pulcinella, che in un vorticare di gesti sapienziali ci dice è muort, Zanetto è mourt! Pulcinella si divincola, serpentina qua e là sopra il corpo del protagonista, ma i due paiono scultorei, un monumento funebre rimediato nel salotto di un dottore. La commedia si articola sulla soglia di casa – in quella zona liminale che Giorgio Agamben in Stasis problematizza in quanto frontiera politica –, e lungo le strade di Verona. Convenzionalmente, gli individui, dentro il perimetro della propria casa, vivono rapporti di sangue e, per così dire, privati; oltre la soglia di casa e per le strade, nella polis, dovrebbero accedere a una dimensione più propriamente pubblica. Queste due realtà, che se ben distinte garantiscono il nostro orientamento nella comunità, possono confondersi, e trascinare il corpo sociale nella cosiddetta guerra civile – quel momento critico in cui il conflitto politico divide e oppone fratello a fratello, padre e figlio.

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CADUTO FUORI DAL TEMPO

Un uomo si alza all’improvviso da tavola, prende commiato dalla moglie ed esce per andare “laggiù”. Ha perso un figlio, anni prima, e “laggiù” è dove il mondo dei vivi confina con la terra dei morti. Non sa dove sta andando, e soprattutto non sa cosa troverà. Lascia che siano le gambe a condurlo, per giorni e notti gira intorno alla sua città e a poco a poco si unisce a lui una variegata serie di personaggi che vivono lo stesso dramma e lo stesso dolore. Questa è la storia e la trama dello spettacolo tratto dal libro di David Grossman, Caduto fuori dal tempo. Scritto nel 2011, il romanzo elabora la riflessione sulla perdita del suo secondogenito Uri, ucciso in missione da un missile anticarro sul fronte libanese nel 2006.

I numerosi personaggi presenti nel libro vengono tutti interpretati da Elena Bucci e Marco Sgrosso che incarnano più ruoli contemporaneamente: l’Uomo, la Donna, il Duca, una levatrice, un ciabattino e così via. Scelta forse discutibile, in quanto, nonostante l’evidente maestria e capacità attoriale dei due interpreti, non tutti questi ruoli si adattano al meglio a quella che è la predisposizione sia della Bucci che dello stesso Sgrosso. Elena Bucci è ad esempio perfetta come Scriba, incaricato dal Duca di prendere nota delle storie dei suoi sudditi che hanno perso i figli, meno nella parte della madre.

Lo spettacolo parte un po’ con scarsa spinta emotiva ma si sviluppa in un crescendo di sentimenti e di tensione grazie anche all’accompagnamento musicale dal vivo del fisarmonicista Simone Zanchini e ad un ampio uso della scenografia fatta non solo di molti oggetti e spazi ma soprattutto dall’utilizzo di proiezioni, luci e fumo in particolar modo nel finale. Grazie a queste tecniche scenografiche alla fine l’intensità del dramma di cui si fa carico il testo viene trasmessa anche allo spettatore ed è sicuramente di impatto, lasciando scosso chi guarda.

Irene Merendelli

dal testo di David Grossman edito in Italia da Mondadori / traduzione di Alessandra Shomroni / progetto, elaborazione drammaturgica e interpretazione Elena Bucci e Marco Sgrosso / regia Elena Bucci / con la collaborazione di Marco Sgrosso / musiche originali eseguite dal vivo alla fisarmonica Simone Zanchini / disegno luci Loredana Oddone / cura e drammaturgia del suono Raffaele Bassetti / ideazione spazio scenico Elena BucciGiovanni Macis, Loredana Oddone / elementi di scena e costumi Elena Bucci e Marco Sgrosso / trucco e consulenza ai costumi Bruna Calvaresi / assistente all’allestimento Nicoletta Fabbri / progetto a cura di Mismaonda / produzione Centro Teatrale BrescianoTPE – Teatro Piemonte Europa e ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione / collaborazione artistica Le Belle Bandiere / spettacolo realizzato con il sostegno di NEXT 2021

EROS E THANATOS – DUE SPETTACOLI A CONFRONTO EDIPO.UNA FIABA DI MAGIA E TUTTO BRUCIA

“Forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione”(Cantico dei Cantici 8, 6)

Le Pulsioni, secondo Freud, hanno come fine ultimo l’appagamento che porta allo sviluppo e alla crescita delle potenzialità adattive di quella parte dell’ego deputata al riconoscimento e all’attuazione del Principio di Realtà (L’IO).

In altre parole l’“Eros”, in quanto pulsione, per Freud indica una tendenza all’aggregazione una potenza creatrice strettamente legata alla libido che non solo diventa la forza creativa generatrice di vita ma che spinge l’essere umano verso un’integrità che in qualche modo lo definisce.

“Chi sono io?” questo chiede Edipo alla Sfinge.

Nello spettacolo Edipo. Una fiaba di magia vediamo un giovane soldato zoppicante che arriva dinanzi al velo della verità oltre il quale egli spera di trovare la risposta alla sua domanda esistenziale. Una volta risposto correttamente alla domanda della Sfinge egli strappa via il velo, bramoso di poter finalmente “possedere” la verità ma, trovando il Nulla, sconfortato e avvilito si accascia a terra, in un angolo, inerte come morto.

Sempre secondo Freud ciò che muove l’uomo non è e non può essere solo una pulsione libidica; dopo un’attenta osservazione Freud arrivò alla conclusione che, per esempio, nei comportamenti dei sadici e dei masochisti non c’è solo il piacere, ma anche una spinta alla distruzione, alla disgregazione. Freud approda così a una spiegazione della dinamica della società, basata sul contrasto tra i due principi della psiche umana, Eros e Thanatos.

Anche in Tutto Brucia c’è un velo sullo sfondo di un paesaggio devastato. Un velo pesante, denso, che rimanda alla consistenza di acque ataviche, amniotiche, dalle quali però vengono vomitati aborti, feti non compiutamente definiti, relitti di una società alla deriva, di maternità negate, di uomini bestia, di cadaveri bruciati che possono essere celebrati solo attraverso arcaici riti funebri di fagocitazione, fatti a pezzi e divorati per tornare a essere contenuti per sempre entro uteri sterili, profanati dalla violenza. Ancora una volta vita e morte, Eros e Thanatos.

Entrambi i lavori affondano le loro radici nel mito classico per raccontare la contemporaneità. L’uno -Edipo, per narrare l’aggregazione e la disgregazione di un’individualità; l’altra -Tutto Brucia, ispirato al mito delle Troiane, per narrare l’aggregazione e la disgregazione di una collettività.

Per capire “perché il mito?” dovremmo probabilmente prima provare a rispondere ad altri quesiti: cos’è un mito? Da dove viene? Come nasce? Cosa lo mantiene in vita nel tempo? In che direzione si muove? Fino a che punto lascia in noi un segno e fino a che punto siamo noi a lasciare un segno nel mito stesso? Una sintesi che può risultare efficace ai fini del nostro ragionamento la troviamo nelle TecheRai proprio nella sezione dedicata al mito:

“Il mito classico, in ogni epoca, ha costantemente esercitato la funzione di fissare archetipi di tutti i comportamenti umani e, proprio per questo, ha da sempre rappresentato uno degli elementi fondamentali per fornire una connotazione socioculturale ai vari periodi storici. I miti, infatti, pur basandosi su qualcosa di interamente rivelato, tendono a produrre una forza creatrice regolare e incessante sull’azione umana. […] Il mito determina e subisce tante proiezioni e trasformazioni nel tempo quante sono le vite e le menti che influenza. Pertanto, quando si impone nel contesto temporale di un dato periodo, il mito intesse rapporti di interdipendenza con la letteratura, l’arte, il teatro, la psicologia, i rapporti sociali, incarna scopi, tempi, luoghi e circostanze di fruizione, assurge e esegesi di modelli di comportamento quotidiano e dà vita a molteplici interpretazioni di sé stesso. In tal modo i grandi archetipi umani, si chiamino Edipo, Cassandra, Ecuba, (nomi modificati in funzione della trattazione – ndr) pur improntando su di sé i vari periodi storici con interpretazioni contingenti, assumono connotazioni perenni al di là di ogni epoca”.

Il fascino del mito e il ricorrere ai suoi paradigmi risultano perciò sempre attuali nel loro originario tentativo di risolvere il mistero dell’esistenza.

Interessante è inoltre notare come entrambe le pièce si siano affidate a terre desolate, alla polvere di una memoria che si tende a preservare come monito ma che sembra non essere sufficiente a evitare gli errori del passato.

Edipo entrerà nella terra afflitta da erosione e morte dove un tempo c’era “un prato fiorito” e dove la speranza di una rinascita è racchiusa nella promessa di una vendetta.

Anche nella tematica delle Troiane (Tutto Brucia), in quell’inferno statico di morte, dove tutto è già accaduto, la speranza sembra affidata alla sola certezza profetizzata della futura disfatta degli usurpatori.

In questo eterno conflitto tra Eros e Thanatos, in entrambi gli spettacoli, sembra avere la meglio la morte, la forza disgregativa. Dov’è finito Eros? Allora è necessario che Tutto Bruci, per far tornare in quelle fiamme l’ardore della passione, fiduciosi che quelle ceneri, innaffiate dalle lacrime, possano essere il giusto nutrimento per una terra “assopita” che possa ritornare ad essere un prato fiorito, perché il sacrificio non vada sprecato, perché la lezione appresa a caro prezzo non vada perduta.  

Eros e Thanatos sono due facce della stessa medaglia e la Vita non può che esistere in questa frattura, su questa fragile e sottilissima linea tra Essere (assoluto ed eterno) e Non-Essere.

Nina Margeri

THE MOUNTAIN – AGRUPACION SEÑOR SERRANO

“Buonasera, e benvenuti a The Mountain.” Si apre così l’ultimo lavoro della compagnia teatrale catalana Agrupación Señor Serrano, ospite al 26° Festival delle Colline Torinesi. Uno spettacolo teatrale a cavallo tra la performance multimediale e l’esperimento sociale, che dopo pochi istanti dall’inizio, dà il via al percorso che gli artisti propongono al pubblico: “Facciamo un esperimento”. Lo spettacolo si presenta come un viaggio alla scoperta dei meccanismi che definiscono vero o non vero un certo evento, una scalata sulla montagna della verità, alla cui vetta dovrebbe trovarsi la risposta che tutti cerchiamo. Ma è davvero questo il tema di fondo di The Mountain, il messaggio che la compagnia vuole portare al pubblico? Proviamo a dare una risposta procedendo per gradi.

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