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Tre modi per non morire

Teatro Carignano, giovedì 7 novembre 2024.

Tre modi per non morire di Toni Servillo, testo di Giuseppe Montesano.
Quasi tutte le date sono esaurite da giorni e c’è ancora pubblico in fila al botteghino speranzoso di trovare un biglietto.

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Grande è l’attesa per un un attore molto amato, alte le aspettative per lo spettacolo: il pubblico appare visivamente emozionato.

La scena è molto essenziale. Ad occuparla sono solamente uno sfondo monocolore, un leggio e un microfono.
La voce profonda e intensa di Toni Servillo unite alla sua grandissima presenza scenica raccontano un testo che si appoggia ad alcuni grandi scrittori (Dante, Baudelaire e i classici greci), per proporre una riflessione sulla contemporaneità.

Ne emerge una critica a tutto tondo al capitalismo, all’era digitale, alla velocità, alla società del successo e della performatività, all’egoismo, alla disparità sociale, alla guerra e all’incapacità di accettare la noia.
Nonostante il talento di Servillo, data la quantità e varietà di elementi e argomenti, risulta talvolta difficile mantenere l’attenzione per tutti i novanta minuti dello spettacolo e comprendere il focus centrale dell’opera al di fuori di una critica generale all’epoca contemporanea.

Forte è l’ammirazione per scritti e valori antichi e questo è evidenziato dalle numerose citazioni letterarie di Baudelaire, Dante, del Vangelo e dei classici greci accostate tra loro.
Il riferimento alla cultura classica appare condivisa col pubblico e forse prevale il tentativo di catturare l’attenzione dello spettatore, rafforzando un punto di vista positivo e nostalgico nei confronti dell’antichità, contrapposto alla società moderna e contemporanea.

Il sottofondo musicale, a tratti grave e profondo, immerge in una dimensione quasi evangelica.
Quando il ritmo cambia e diventa invece più incalzante si riesce ad eludere in parte la staticità, dovuta anche al carattere monologico della lettura scenica.
La riflessione su corpo e mente, natura e interiorità umana viene legata al mito della caverna di Platone e lo spettacolo si chiude dapprima con un arringa sul significato e sul valore della poesia e in seguito con un elogio della conoscenza , capace di mostrare la grandezza dell’uomo in
contrapposizione alla sua piccolezza fisica nel paragone col Mondo.

Lo spettacolo si chiude con una stoccata finale: la tecnologia distrae l’uomo moderno dalla curiosità e lo allontana quindi dalla conoscenza.
In una visione decisamente distante da quella appartenente alle nuove generazioni, la tecnologia viene vista prevalentemente come elemento disturbante e causa della mancanza di cultura e valori morali e non, invece, come semplice mezzo di comunicazione.
L’avanzamento del tempo e i cambiamenti della società ad esso legati sono osservati con diffidenza e disincanto.
I tempi passati, l’assenza di tecnologia e la cultura letteraria di un tempo vengono elogiati e mostrati come parte di una società in grado di funzionare meglio.

L’individualismo della società contemporanea contrapposto alla collettività dei tempi antichi si mostra come indice di egocentrismo. Con tono sprezzante, ma in grado di trasmettere chiaramente
il concetto, Servillo ripete più volte le parole “Io, me ed io” che risuonano come rintocchi di una campana e cercano di risvegliare dal torpore dell’accettazione.

Emerge un punto di vista che trova consenso all’interno di una fascia di pubblico più adulto ed è un probabile monito alle nuove generazioni.

Lo spettacolo appare come una sorta di lezione di letteratura, che necessita di tempo e riflessioni profonde per essere accolta nel modo più corretto, andando oltre tutti i pregiudizi, gli stereotipi e le
idealizzazioni.

Marta Cavalliere

CREDITI: di Giuseppe Montesano
con Toni Servillo
luci Claudio De Pace
Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
si ringrazia Agenzia Teatri
fotografia – Masiar Pasquali

LAPIS LAZULI – EURIPIDES LASKARIDIS

IRONIA E CRUDELTA’

ph Alessandra Lai

Euripides Laskaridis mette in scena uno spettacolo giocato sulle contraddizioni e nel contempo produce un effetto disarmonico, a tratti consapevolmente, ma che fa uscire il pubblico dal teatro con molti interrogativi.
Un esplosivo inizio ci accompagna in un’atmosfera burlesca, un lupo mannaro rivela la sua ferocia ma lo fa mostrando una poetica sensibile e commovente.
I personaggi grotteschi ricordano creature che hanno attraversato la nostra infanzia, qualcosa di sopravvissuto al passato e che nel presente ritornano con sottile ironia.
Lapis Lazuli è uno spettacolo dalla forte dualità e ci fa interrogare su chi sono i veri mostri, i crudeli, gli assassini…
Il titolo prende spunto da una pietra dal colore blu, lapislazuli, che deriva dal latino e dall’arabo e che viene ripreso dal greco bizantino,il suo colore blu dovuto ad un’alta concentrazione di lazurite al quale vengono attribuiti svariati significati e proprietà spirituali.
Tra il terreno e il celeste i performer si muovono con un linguaggio fatto di suoni vocali e di spari, si disperano si interrogano e si dimenano. Ed è ciò che più colpisce appunto di tutto lo spettacolo, la maestria degli interpreti che giocano in un teatro fatto di variazioni e contraddizioni.
Uno spettacolo coinvolgente, misterioso, sognante e inquietante.
Le maschere ti osservano sotto intrecci di luci e si avvia un viaggio che attraversa scambi di visioni, giochi di potere e crudeltà ampliate da voci dispotiche ed esaltate: chi è il vero cattivo?
Quando arriva, il silenzio si fa denso e violento e lascia per un momento quell’ilarità iniziale.
Un volto mascherato che si lascia intravedere a tratti e ci evoca una trappola, un varco che gli uomini non riescono ad affrontare, intrappolati dalle maschere della società.
Il canto del lupo rivestito di ricchi diamanti esalta il potere della ricchezza e il rito sacrificale del maialino è compiuto.



Alessandra Lai

Ideato e diretto da Euripides Laskaridis
Musiche originali di Giorgos Poulios
Consulente alla drammaturgia Alexandros Mistriotis
Scenografia di Sotiris Melanos
Luci di Stefanos Droussiotis
Effetti sonori di Yorgos Stenos
Costumi di Christos Delidimos e Alegia Papageorgiou
Oggetti di scena di Konstantinos Chaldaios
OSMOSIS coordinamento e comunicazione
produzione Onassis Stegi
con il supporto di Fondation d’entreprise Hermès
coproduzioneThéâtre de la Ville, Théâtre de Liège, Espoo Theatre Finland, Teatros del Canal, Teatro della Pergola Firenze, Festival Aperto / Fondazione I Teatri Reggio Emilia, the Big Pulse Dance Alliance festivals: Julidans, Torinodanza Festival / Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, One Dance Festival
cofinanziato dal Creative Europe Programme of the European Union
con il supporto di Megaron – the Athens Concert Hall con il supporto del
Ministero della Cultura Greco
grazie a Onassis AiR Fellowship
un ringraziamento speciale Dimitris Papaioannou & Tina Papanikolaou

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USODIMARE – VALERIO BINASCO

Anche quando sveste i panni del personaggio, Valerio Binasco sale in scena con quella naturalezza, nel senso di autenticità e profondità in cui la intende Carlo Cecchi, che dice la realtà (sempre secondo la sua accezione di gioco reale) del suo teatro. 
Il corpo scenico – concreto e nervoso – è, in un modo quasi sensuale (il teatro è un fatto anche “erotico”), attratto dal palcoscenico, dal luogo fisico in cui sta agendo. La sua presenza concitata, vibrante e dinamica, incarna quel tipo di teatro – che non incontro di frequente – molto poco concettuale (nel senso di priorità data all’elaborazione intellettuale) e capace, invece, di verità: ciò che Binasco fa sulla scena viene fuori come liberazione di quella «bestia teatrale» che abita la sua anima. Come qualcosa di visceralmente sentito.

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Carcaça- Torinodanza Festival 2024

Il 20 ed il 21 settembre, alle Fonderie Limone per il Torinodanza Festival 2024, è andato in scena lo spettacolo di Marco da Silva Ferreira, Carcaça, una prima nazionale che si impone nel panorama teatro danza come rivelazione della stagione internazionale. Una vera e propria performance nata dalla commistione di diverse arti tra cui: l’arte visiva, la coreografia luci, l’utilizzo della voce e l’uso del corpo, esso stesso veicolo del cambiamento. 

Settantacinque minuti di incessante energia: la musica tribale ha il sapore dei legami delle origini, quei legami profondamente instaurati con la propria terra, con la propria carne e con piccoli o grandi atti di sopravvivenza. Un ballerino, mutilato da un braccio, danza, con una protesi, in assoli che restituiscono all’immaginario dello spettatore sentimenti di forza, di volontà, di ribellione, di libertà e di sacrificio. Le coreografie di gruppo appaiono talvolta armonicamente dissonanti restituendo il significato stesso della rivolta: rumore, sovversione e unione. I costumi, ricchi di colori e sfumature, accentuano la bellezza della diversità, toni freddi e caldi, cromature e neri scurissimi, una varietà che sposa perfettamente l’anima eversiva dello show. 

Cantiga sem maneras

“Unirci per fare un altro passo

De nos unirmos p’ra dar mais um passo

Combattiamo e ripuliamo

Vamos lutar e sanear

Saremo responsabili

Vamos ser nós a comandar

Con questa lotta per un nuovo mondo

Com esta luta por um mundo novo

E gli operai davanti a guidare

E os operários à frente a guiar

E ci sono così tante persone da combattere

E há tanta gente p’ra lutar

Per la democrazia popolare

P’la democracia popular…”

Due voci maschili, possenti ed intense cantano con sorpresa del pubblico: “Cantiga sem maneras”, un canto politico, del gruppo portoghese Vozes na Luta (GAC), per scelta non tradotto in lingua italiana dal coreografo. Il fervore latino originario e le vigorose vibrazioni di questo spettacolo traspaiono in ogni sua parte, dando al pubblico la possibilità di cogliere, facilmente, ogni sua tonalità. Gli spettatori accolgono infatti il ribollente sangue di Carcaça con fermento ed emozione. La narrazione della visione collettiva che Marco da Silva Ferreira possiede, raggiunge lo spettatore forte e chiaro: “l’unione fa la forza”. Il dolore in questo show resta presente ma flebile, prende la forma di un tappeto bianco steso sul palcoscenico, un tappeto impressionato dal calore del corpo dei ballerini che una volta alzatisi, lasciano un’orma indelebile, quella del loro corpo, un’ombra come in un negativo, come un attimo bloccato per sempre in una fotografia. I corpi dei performers sono ormai immobili, come cadaveri, la cui anima continua a danzare sulle note del dolore, un’intensa emozione che fa da sfondo al sentimento di giustizia. Il tappeto bianco diviene un telo che improvvisamente si innalza sul palcoscenico, la coreografia di luci di ogni tono lascia spazio al buio, poi, i ballerini, uno dopo l’altro, impressionano il telo nuovamente, questa volta con una luce, una piccola torcia. Compare piano piano, con la palpabile fatica dei performer un messaggio: “Tutti i muri cadono”. Quel tessuto dal colore puro diventa un muro, quello di Berlino chissà o forse un muro etico e morale o addirittura una barriera che impedisce alle persone di fuggire in cerca di una vita migliore. Il telo cade, una commemorazione forse, per tutti i muri già caduti ed un augurio, per tutti i muri che ci sono e che, prima o poi, cadranno. 

“Ballate, voi esseri umani pieni di energia, prendete la vostra forza dalla terra stessa, che dai vostri piedi, come radici, possa raggiungere la mente e portarvi finalmente ad abbattere ogni muro. Noi esseri umani, tutti diversi per ricchezza e non per condanna, dovremmo imparare ad amarci, ad essere un’unica squadra, tanto grande da coprire un intero pianeta. Che il sangue che ribolle in ognuno di noi, possa essere lo stesso di chi l’ha perso lottando per la nostra libertà, noi che nel progresso vediamo l’amore prima dell’odio”. Queste parole, mie e mie soltanto, sono frutto della mia coscienza, scossa ancora dalla potente arte dell’accadere che questa volta, agisce sotto il nome di: Carcaça.

Rossella Cutaia

coreografia e direzione artistica Marco da Silva Ferreira
assistenza artistica Catarina Miranda
interpreti André Speedy, Fábio Krayze, Leo Ramos, Marc Oliveras Casas, Marco Da Silva Ferreira, Maria Antunes, Max Makowski, Mélanie Ferreira, Nelson Teunis, Nala Revlon
tecnico del suono João Monteiro
design delle luci Cárin Geada
direzione tecnica Luísa Osório
musica João Pais Filipe (percussionista) e Luís Pestana (musica elettronica)
costumi Aleksandar Protic
scenografia Emanuel Santos
p.ulso | Big Pulse Dance Alliance
con Il sostegno del Programma Creative Europe dell’Unione Europea

Il combattimento di Tancredi e Clorinda- Torinodanza Festival 2024

Nella Sala Piccola delle Fonderie Limone è andato in scena il 20 ed il 21 settembre lo spettacolo Il combattimento di Tancredi e Clorinda, una co-produzione del Torinodanza Festival. Un piccolo gioiellino la cui narrazione si concentra sul contrasto tra amore ed odio e le emozioni che li accompagnano. Struggimento, paura, rancore e risentimento, vengono elegantemente rappresentati dai ballerini Gador Lago Benito e Alberto Terribile, accompagnati dall’intensa performance canora del tenore Matteo Straffi e del clavicembalista Deniel Perer. Quattro interpreti per 25 minuti di spettacolo, commovente, profondamente sentito. Uno spettacolo dalle vibrazioni antiche. La dolcezza e la naturalezza dei movimenti regalano autenticità ad una vera storia d’amore, finita nel peggiore dei modi. L’affetto profondo talvolta ci svela la profondità di chi ci si pone d’innanzi, rendendoci però ciechi, nel vederne le oscurità. Una storia d’amore destinata alla tragedia, un raggio di realtà indiscussa, una rappresentazione della guerra più antica del nostro mondo, quella contro noi stessi e la persona che amiamo, l’unica, talvolta, ad avere il potere, di renderci completamente vulnerabili. Tancredi e Clorinda, ci confermano nuovamente quale sia l’esito di un buio che incombe inaspettato, quando le certezze su cui abbiamo umanamente costruito ogni nostra aspettativa, decadono.

Poco quindi lontan nel sen d’un monte

scaturia mormorando un picciol rio.

Egli v’accorse e l’elmo empiè nel fonte,

e tornò mesto al grande ufficio e pio.

Tremar sentì la man, mentre la fronte

non conosciuta ancor sciolse e scoprio.

La vide e la conobbe: e restò senza

e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!

Non morì già, che sue virtuti accolse

tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,

e premendo il suo affanno a dar si volse

vita con l’acqua a chi col ferro uccise.

Mentre egli il suon de’sacri detti sciolse,

colei di gioia trasmutossi, e rise:

e in atto di morir lieta e vivace

dir parea: “S’apre il ciel: io vado in pace.”

Una pedana è protagonista del palcoscenico, dalla forma circolare, bianca, rappresenta un mondo, forse il loro. Col volto coperto, i due amanti- combattenti, lottano, corrono e si rincorrono, fuggono e si cercano. Il suono di ogni passo sulla pedana ricorda un battito del cuore, mi sovviene alla mente il suono onomatopeico del ritmo cardiaco, un’eco dall’inesauribile forza e costanza. Ad un tratto il  suono si ferma, il cuore non batte più, la battaglia è terminata e l’amore con esso. Una corda unisce indissolubilmente i due amanti, che cinti in vita da essa, si incastrano e si intrecciano, si scontrano e si liberano ma senza mai allontanarsi davvero. L’anatomia dei corpi dei ballerini, restituisce il più alto ideale della carne: attrazione e rifiuto, bellezza, possenza e virtù ed  allo stesso tempo, come nell’opera: L’anatomia di un abbraccio di Luna Lu, lo spettacolo, ci regala la possibilità di indagare le anime di Tancredi e Clorinda e vedere due cuori legati ma fragili. Il coinvolgimento che ho provato è stato per me un coinvolgimento totale, ogni nota del canto, scritto da Torquato Tasso, era intrisa di suspense e attesa, la danza, dai movimenti puliti e precisi, ha reso la narrazione chiara e limpida. Una storia quindi che tocca l’anima di ognuno di noi che abbia conosciuto nel suo viaggio di vita l’amore e l’innamoramento e che abbia fatto anche i conti con la perdita, il dolore di un errore e la delusione.

Tancredi e Clorinda sono un paradosso che abita ancora i giorni nostri e che credo fermamente non morirà mai, uno spettacolo quest’ultimo che celebra la sconfitta come libertà e la vittoria come condanna. Le sconfitte  ci liberano e aprono davanti a noi le strade più luminose, come Clorinda che ora, troverà la sua pace. La vittoria invece, accecante, ci richiede un prezzo da pagare, talvolta la nostra stessa esistenza.

Rossella Cutaia

regia e visual Fabio Cherstich
coreografia e movimenti scenici Philippe Kratz
musica Claudio Monteverdi
danzatori Gador Lago Benito, Alberto Terribile
tenore Matteo Straffi
clavicembalo Deniel  Perer

U. (UN CANTO)- Torinodanza Festival 2024

“Dolce è sentire

Come nel mio cuore

Ora umilmente

Sta nascendo amore

Dolce è capire

Che non son più solo

Ma che son parte di una immensa vita[…]” Dolce sentire

U.(Un Canto), in scena il 15 settembre, è il secondo spettacolo della programmazione del Torinodanza Festival 2024. Nel palco regna indisturbata la presenza dei coristi, i costumi di scena sono semplici, dalle linee pulite e dai colori neutri. Le luci  fredde seguono il ritmo diaframmatico dei canti e con essi le parole stesse delle canzoni che sembrano interpretare. Esse contrastano il tiepido calore della sala e accompagnano con devozione, attenzione e cura i cantanti, durante tutta la loro performance. I microfoni dalle linee sottili, sono disposti discretamente sopra i loro scalpi, per amplificare quella che verrà presentata come una coreografia di voci. Alessandro Sciarroni, direttore dello spettacolo sceglie la voce come protagonista assoluta, mettendo la platea nell’ottica dell’invisibile, talvolta in movimento ci sono muscoli che non possiamo vedere, come le corde vocali dei coristi, le quali forti, vibrano intensamente investendo la sala di una calda e quasi austera atmosfera. I canti folkloristici scelti dal direttore raccontano la tradizione popolare italiana, si intonano canzoni sui temi dell’amore, della perdita, della famiglia ma anche della natura, della passione, della fede, della solitudine e dell’amicizia.

“Amo il profumo che vien dalla tua terra,

amo la luce e il colore del tuo cielo,

amo la pace delle tue montagne,

amo la voce delle tue acque.

Amo i misteri scolpiti sulle rocce,

sogni lontani persi dentro te,

guardo la valle che nasconde il nostro bene,

sorridi e il cielo rosa sembrerà.

Oh,oh!”  Rosa Camuna

 Le corde del passato vengono pizzicate delicatamente, rimbomba il suono della nostalgia, gli spettatori si lasciano trasportare dalle note dolci della musica, si lasciano essi cullare dalle polifoniche voci degli artisti i quali regalano l’illusione di poter ascoltare un’unica voce.

Co-prodotto dal Torinodanza Festival 2024, U. (Un Canto)è uno spettacolo che oltre a lavorare sul movimento invisibile, lavora anche sull’assenza di movimento: un solo passo viene effettuato dai coristi, una volta alla fine di ogni canto, un cammino, lento e disciplinato che li porta dal fondo palco fino a proscenio. La platea è silente, talvolta qualcuno intona flebilmente il canto in atto, in memoria chissà di qualche ricordo riportato alla luce. L’applauso al termine della performance è d’obbligo, la voce, strumento da tutti posseduto ma da pochi utilizzato consapevolmente, sia nella vita reale che in una prospettiva artistica, quale magia possiede: la forza e la potenza se usata in gruppo, l’unicità e l’originalità se usata da una persona soltanto. Il timbro, la firma inequivocabile della nostra voce, inimitabile. Un muscolo, la corda vocale, in grado di cambiare il mondo, dichiarare amore e odio, in grado di urlare una vittoria e  sussurrare una sconfitta. La danza, fatta di muscoli, è da sempre indissolubilmente legata alla musica, alla canzone che essa interpreta. Danzano le voci con le corde vocali, con i muscoli del viso, della lacrima e del sorriso e noi, platea, abbiamo danzato con loro credendo di essere immobili. Questo spettacolo è travolgente; ancora una volta il Torinodanza Festival ci ha messo di fronte ad un estremo contrasto ed anche dinanzi alla consapevolezza che non tutto ciò che vediamo è come sembra. Bisogna muoversi, fisicamente e mentalmente, per poter andare oltre e danzare là dove nessuno aveva mai danzato prima, come il coro di Alessandro Sciarroni.

Rossella Cutaia

di Alessandro Sciarroni
con Raissa Avilés, Alessandro Bandini, Margherita D’Adamo, Nicola Fadda, Diego Finazzi, Lucia Limonta, Annapaola Trevenzuoli
casting, direzione musicale, training vocale Aurora Bauzà & Pere Jou
casting, consulenza drammaturgica
training fisico Elena Giannotti
styling Ettore Lombardi
disegno luci e cura tecnica Valeria Foti
cura, consiglio e sviluppo Lisa Gilardino
Corpoceleste_C.C.00#, Marche Teatro Teatro Di Rilevante Interesse Culturale
Progetto Ring: Festival Aperto – Fondazione I Teatri Reggio Emilia, Bolzano Danza – Fondazione Haydn,
Fog Triennale Milano Performing Arts
Torinodanza Festival, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Freedom Sonata by Emanuel Gat-Torinodanza Festival 2024

<<Il fatto che qualsiasi insieme di condizioni (HOW) si traduca sempre in incentivi specifici (WHY) per gli individui coinvolti, è ciò che definisce il ruolo del coreografo. Poiché c’è sempre il problema di dover predefinire queste condizioni//incentivi, in base alla propria visione del mondo. Domande primordiali come autorità, sovranità, libertà, verità, entrano in gioco nel processo di definizione delle condizioni coreografiche.>> Emanuel Gat

Con Freedom Sonata Emanuel Gat inaugura il Torinodanza Festival 2024. Il pubblico è scalpitante nell’attesa di vedere in prima assoluta il nuovo spettacolo del pluripremiato coreografo. Quattordici ballerini danzano sulle note di Kanye West per la Sonata della libertà. L’esibizione è dinamica, fluida, armonica, i movimenti dei ballerini sono un tutt’uno con la musica, non sono ammesse dissonanze, la coordinazione sembra essere la chiave di questa danza polifonica.

La coreografia di Emanuel Gat sembra raccontare della quotidianità, del tempo che passa, della fragilità dell’essere umano e della sua forza. Questo spettacolo parla della vita umana, un pendolo che oscilla tra dolore e gioia passando attraverso un fugace attimo di pura danza. La vita non è solo in bianco e nero, è anzi colma di sfumature, ombre e luci che la Emanuel Gat company ci racconta attraverso il movimento e la scenografia. Il tappeto danza da nero, diventa bianco, anche i colori dei costumi dei performer si invertono, da un puro e fanciullesco bianco ad un più maturo e profondo nero. Il coreografo sembra quindi porci dinanzi ad un’etica del contrasto; la totale assenza di colore e  la luce sfavillante, il palco con i suoi danzatori sembra ormai essere un negativo della realtà. I ballerini, un rotolo alla volta, distendono il nuovo tappeto collaborando fra di loro, per un momento la magia della danza si ferma e lascia spazio alla magia dell’umanità, l’uomo, animale sociale, il quale coopera con altri suoi simili nell’inconscia speranza di imparare il valore dell’amicizia, dell’amore e della solitudine. Il tappeto diventa il simbolo della trasformazione, su di esso rimbalzano le luci ed i ballerini alternano momenti di gruppo a momenti dedicati a performance da solista, una ballerina cerca il suo equilibrio su una sottile linea d’ombra. La spensieratezza nei movimenti dei performer presto si trasforma in tormento e poi ancora in leggerezza, i ballerini sembrano incarnare l’esatto momento nel quale ognuno di noi da fanciullo diventa adulto, un momento dove il passare del tempo diventa concreto e inesorabile e la cui unica modalità di affrontarlo sembra essere quella di lasciarsi andare, liberi di esprimere il proprio rapporto con gli altri e con sé stessi, liberi di farsi trasportare dai ricordi e dai sentimenti, liberi di condividere carezze affettuose o lotte impetuose. Il corpo parla dell’anima che lo abita, la carne ne racconta il passato, morbida è la musica che guida il nostro sguardo nell’interpretazione di ogni movimento e così ci lega, indissolubilmente, a quella coreografia che ora, è anche un po’ nostra. La vita è essa stessa una coreografia, ossia “un sistema operativo che consente ad individui e gruppi, di creare e condividere contenuti e significati attraverso l’azione” (Emanuel Gat).

Il diaframma dei ballerini si contrae sempre più, la fatica è visibile anche dalla platea, il respiro si affanna ed i passi sono sempre più pesanti. La sensazione di leggerezza e spensieratezza però non mi lascia, vorrei anche io ballare con loro, su quel tappeto. Vorrei imparare a lasciarmi trasportare, da ciò che accade, talvolta dagli altri o dai suoni della città, da una Sonata magari, da una Freedom Sonata.

L’eco degli applausi sovrasta le grida di approvazione, la disciplina è finita e quel silenzio che aveva governato la platea, curiosa e attenta, ora si rompe in un grido di libertà.

Rossella Cutaia

CONFERENZA STAMPA TEATRO STABILE DI TORINO – ATTO UNICO

Unico atto politico

Lo scorso 4 giugno, presso il Teatro Gobetti, si è tenuta la conferenza stampa della stagione 2024/2025 del Teatro Stabile di Torino, dal titolo “Atto Unico”. Un anno di festeggiamenti, giacché ricorrono i 70 anni del Teatro Stabile di Torino e i 50 anni del Centro Studi. Settant’anni come settanta sono gli spettacoli che verranno messi in scena, come sottolinea il direttore, Filippo Fonsatti.

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29 Festival delle Colline Torinesi- Sergio Ariotti e Isabella Lagattolla

<< Dì la verità ma dilla obliqua>> così si apre la presentazione del 16 maggio del  Festival delle Colline Torinesi, giunto alla sua 29 edizione, con una mostra alla Fondazione Merz, dal riflesso apollineo, una pala sacra situata in un luogo che sembra essere una chiesa, panchine vuote, candele bruciate ormai spente e dentro la pala lapidi distrutte, epigrafi con nomi, volti e foto differenti. Luci e ombre nuovamente si incontrano e si scontrano per restituire una visione, quanto più realistica e profonda del mondo di oggi. Numerosi gli ospiti invitati all’evento, quali la stessa Beatrice Merz presidentessa della Fondazione omonima che da anni collabora con il Festival delle Colline, Matteo Negrin direttore della Fondazione Piemonte dal Vivo, Filippo Fonsatti direttore del Teatro Stabile di Torino e ancora Andrea De Rosa direttore artistico del Teatro Astra e ultima ma non per importanza Grazia Paganelli responsabile Area Cinema Museo Nazionale del Cinema e così tante altre figure in rappresentanza del Ministero della Cultura, della Fondazione Compagnia di San Paolo, Fondazione CRT e Circolo dei Lettori, Teatro DAMS, Mediateca Rai e altro ancora. La collaborazione sembra essere quindi la parola chiave del Festival delle Colline, nato nel 1996 da un’idea di Sergio Ariotti, direttore artistico del Festival e Isabella Lagattolla, direttore amministrativo. Coppia nel lavoro e nella vita, la loro sintonia è palpabile in ogni stagione, la visione contemporanea e attuale che vogliono trasmettere è fuori dagli schemi, un nuovo modo di portare il teatro nel mondo torinese e non solo. Confini e sconfinamenti è il tema di quest’anno, riproposto pensando al successo dell’anno precedente e rafforzato dalle quotidiane dinamiche odierne, che ci rendono spettatori di guerre, dolori, sofferenze e tanta dispersione. I confini sono quelli del tempo, delle nazioni, delle proprie radici ma anche quelli della memoria e dei ricordi. La 29 edizione abbraccia senza timore il passato, il presente ed il futuro rappresentandolo in ben 52 recite in 28 giorni. Una full immersion colma di significato, storie ed identità alla quale, sono sicura non mancherà l’effetto sorpresa. Numerosi sono gli eventi connessi alla programmazione teatrale che come un grappolo d’uva, accoglie i propri spettacoli in numerose sedi differenti tra cui la Fondazione Merz, il Teatro Astra, Lavanderia a Vapore e le Fonderie Limone. Partecipare al Festival delle Colline come spettatore permette di viaggiare per il mondo stando seduti su una poltrona. Un festival internazionale con la missione di far incontrare le diverse culture, di farle intrecciare, di creare una nuova e più positiva, consapevole e profonda visione del Diverso. Il pubblico è un nuovo cittadino, un cosmopolita teatrale. Non ci resta quindi che la trepidante attesa del 12 ottobre per immergerci completamente nella proposta artistica di Sergio Ariotti e Isabella Lagattolla.

Rossella Cutaia