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CASSANDRA- IL POTERE

Avete mai provato a far dei passi all’interno di una mente umana? No? Ebbene, al Teatro Astra con Cassandra è possibile farlo.

Dietro le quinte sono allestite le tribune, le nostre tribune, quelle del popolo troiano. Il pubblico diventa parte integrante dello spettacolo e della sua scenografia, luci e suoni ci portano in un ambiente onirico, attraversato da voci flebili ed emozioni strazianti. Due porte, il rituale della soglia è iniziato, aspettiamo la nostra principessa troiana, Cassandra. La sua ombra appare tutto d’un tratto, quasi impercettibile nel buio più cupo nel quale agisce; poi una luce, parla, stravolta e travolta dalla rabbia, legata ad un passato di tormento, incarnato perfettamente nelle corde elastiche che fisicamente la trattengono. Un’ingiustizia, quella perpetrata dal potere che tutto porta con sé e rade al suolo, lasciandosi alle spalle solo macerie dello stesso peso dei ricordi, quando essi divengono macigni, su un cuore che ha lottato troppo a lungo. Lo spettacolo appare di una struttura solida, visibile e percettibile lì dove la vista non arriva: ogni scelta, dalla scenografia ai suoni e alle luci, risulta minuziosa e precisa. L’impressione è che ogni cosa sia esattamente come dovrebbe essere, la percezione è che ogni cosa sia al posto giusto. Luci rosse, l’inferno, un incontrollato super-io, quello di Cassandra, che prende il sopravvento, che agisce senza chiedere il permesso. Un velo rosso, pietoso, che dalla sua anima si estende fino alle tribune, rendendo noi pubblico, ormai diventato solo un’ombra, la perfetta incarnazione di un popolo fantasma. Luci bianche, la principessa troiana torna al suo antico splendore, rendendo limpide, agli occhi dei troiani, le cicatrici di cui è coperta la sua più puerile e pura coscienza, segnata per sempre da profondissime ferite. Luci blu, sfondo della consapevolezza, un sentimento maturo di chi accetta il dolore senza mai smettere di combatterlo, l’arma è la memoria, una memoria eterna come Troia. Riecheggia, ad un certo punto, l’eco di un sussurro, un mito antico, quello di Eco, ninfa punita da Era, un’altra donna condannata per aver scelto in virtù di sé stessa che ora presta la sua voce a Cassandra, rendendo la sua condanna un potere. Potente è il contrasto tra i ricordi, le emozioni, la coscienza, un percorso che esplora e racconta la vita anche di altre donne, il quale destino non è stato determinato da loro stesse ma da altri sopra di loro, quali Elena di Troia, Polissene e così implicitamente anche altre. Un monologo, quello di Cecilia Lupoli, durato 60 minuti, che narra però di una vita intera, di più vite anzi, di un loop di ingiustizie dove la vera condanna è l’essere impotenti. La dizione è perfetta, la potenza vocale è penetrante, la forza e la fatica fisica richiesta dalla performance esprimono perfettamente e coerentemente la forza e la fatica di una morale di giustizia  che vuole affermarsi. Qual è il vero potere? Scegliere, decidere tra un si e un no, prendere una posizione e difenderla fino alla fine  << Il mio ruolo è dire NO>> , così trova la pace Cassandra e liberandosi di ciò che la trattiene, attraversa la seconda soglia in una bianca e splendente luce divina.

Rossella Cutaia

Crediti

di Christa Wolf

regia Carlo Cerciello

scene Andrea Iacopino

costumi Anna Verde

musiche Paolo Coletta

luci Cesare Accetta

consulenza movimenti Dario La Ferla

trucco Vincenzo Cucchiara

acconciatura Team Leo

aiuto regia Aniello Maraldo

foto di scena Guglielmo Verrienti

assistente alla regia Mariachiara Falcone

produzione Teatro Elicantropo, Elledieffe, TPE- Teatro Piemonte Europa

La Ragazza sul Divano- Jon Fosse

Coinvolgente, appassionante, struggente, queste sono le parole che vestono perfettamente la pièce teatrale La ragazza sul divano, nata dalla penna del premio Nobel Jon Fosse e portata in teatro da Valerio Binasco. La scenografia è stata sapientemente studiata e disposta in modo da trasportarci, con gli stessi personaggi, nella quotidianità di una donna sola, colma di rimpianti e di rimorsi. Uno spettacolo per questo che permette allo spettatore di muoversi con uno sguardo, nella sottile linea del tempo, tra passato e presente. Il dolore, la paura, la solitudine, sentimenti forti e imponenti, i quali governano la scena senza timore alcuno, risuonando in ogni battuta e in ogni gesto. Il gesto teatrale accompagna perfettamente la drammaturgia, le scene che si susseguono mi appaiono dinamiche e connesse: sono rimasta catturata e assorta da un immenso dolore che ho in qualche modo compreso e che avrei, senza dubbio, voluto consolare. Si tocca la sensibilità dello spettatore, si instaura in esso un’importante consapevolezza, quella che ci permette di prendere atto che tutto passi, la gioventù, gli amori, perfino i legami più forti, tutto finisce e tutto ricomincia, in un circolo continuo, quello della vita, che in questo spettacolo ha le sonorità di You don’t own me di Lesley Gore:

You don’t own me

Don’t try to change me in any way

You don’t own me

Don’t tie me down ‘cause I’d never stay

I don’t tell you what to say

I don’t tell you what to do

So just let me be myself

That’s all I ask of you

I’m young and I love to be young

I’m free and I love to be free

To live my life the way I want

To say and do whatever I please

Il grido di una libertà perduta, storie di scelte sbagliate e anime ingombranti, la storia di una ragazza che tutta la vita ha passato “seduta sul divano”, senza essere capace di reagire alle difficoltà, la cui unica consolazione diventa la pittura dei suoi quadri: “se non stai attenta, si prendono tutto lo spazio, non perché siano belli o brutti ma perchè sono quadri”, tele macchiate di colori che colano come sangue dalle ferite, colori che escono dal loro confine incontrollati, senza senso, come la vita di questa donna a cui non è rimasto NIENTE. Niente è una delle parole chiave di questa pièce teatrale, cos’è il “niente”, cosa significa, perchè niente? Forse si riferisce ad un’anima persa che non sa più come ritrovarsi e che non ha più nessuno che possa aiutarla a farlo. “Tu non mi possiedi” dice la canzone “sono giovane e amo essere giovane, sono libera e amo essere libera, lasciami vivere come voglio”, parole che vibrano nel cuore dello spettatore con la stessa intensità che la voce dell’attrice principale, Pamela Villoresi, esprime nel suo urlo di disperazione finale. Una donna abbandonata e che abbandona, una donna a cui è rimasto un padre la quale unica costanza è stata l’assenza nella sua infanzia, una figura paterna ormai anziana e sola a cui lei stessa si appoggia, in quanto figlia, che seppur adulta,  possiede ancora l’ingenua anima di una bambina, la cui innocenza si riflette nel bisogno di cura, nella ricerca di attenzione, nella volontà di riparare la propria anima rotta, ricominciando da capo, dal suo primo e significativo abbandono, quello del papà. La trasgressione che incoraggia la colonna sonora viene incarnata perfettamente dalla sorella della protagonista, la sua libertà si traduce nella nudità scenica, una nudità ricercata, necessaria? Forse no, ma la mancanza di senso, talvolta, regala attimi di normalità. Tanti sono infatti i momenti imbarazzanti interpretati nelle scene, tanto imbarazzanti da essere realistici, attimi che si sono colorati di uno humor sottile e familiare. Le interpretazioni degli attori evidenziano una coerenza tra un personaggio e l’altro, il file rouge della trama è scorrevole e seppur complesso nella costruzione, di facile comprensione, chiaro ed impattante. Un vinile su un vecchio giradischi suona, sopra di esso un piccolo vasetto con un fiore: scena finale, un’immagine delicata che esprime l’essenza di questo dramma musicale. L’armonia della vita è stata perfettamente rappresentata da un’armonica successione degli eventi, spingendo gli spettatori a riflettere sul proprio passato, sul proprio presente, sulle proprie scelte e soprattutto sul significato del “Niente”.

Rossella Cutaia

Edipo Re- Andrea De Rosa

“Abbracciare l’irrazionalità, più che altro l’ignoto, l’unico rapporto che può avvicinarci agli dei è la follia”

Platone

Un’impronta rimane sul vetro, come nell’anima, come sul cuore, senza far respirare i tessuti, nella smania di imparare l’arte di vedere le cose nascoste, soffochiamo ogni battito di sincera verità. 

Pannelli di plexiglass, pannelli dorati, fari antichi che proiettano una luce calda, quasi rovente. La scenografia di Daniele Spanò è metallica, direi trasmetta un  richiamo spaziale, simbolo di un lungo viaggio che si consuma durante il suo stesso percorso. Edipo, interpretato da Marco Foschi è come una navicella che arrivata troppo vicina al sole, brucia e si dissolve. Tiresia, portatore di profezie, colui che intimorisce l’animo umano e ne svela ogni fragilità. Cosa si è disposti a fare per non imbattersi nel proprio destino? Per mutarlo e cambiarlo a nostro piacimento?  Tiresia è interpretato da Roberto Latini, che incarna anche Apollo, un Apollo rivisitato, un Apollo rock. Personaggi sapientemente inseriti nella drammaturgia dal regista, nonché direttore artistico del Teatro Astra, Andrea De Rosa. Apollo, dio obliquo, dio della luce, colui che funge da guida appellandosi alla ragione, senno che il cuore rifiuta, rendendo cechi gli occhi di qualunque essere umano, la cui forza, è inevitabilmente sottratta dalla verità. Aletheia è la parola chiave, una verità fatta di reminiscenze che attende solo di uscire allo scoperto, come una nascita. Edipo Re indaga e svela la tragedia della verità, attraverso i legami, materni e fraterni nonché amorosi ma anche attraverso il significato del potere di cui Creonte mette a nudo l’essenza. Uno spettacolo che mette in mostra il fato, un destino ineluttabile che l’uomo incontra specialmente quando cerca di sfuggirgli.  La voce è la protagonista indiscussa della pièce teatrale, le corde vocali del coro composto da Francesca Cutolo e Francesca Della Monica vibrano forti e decise, voci dotate di un’amplificazione divina, i lamenti del coro appaiono indecifrabili, sono forse gemiti o grida? Sono strazianti urla di nascita o di vita sottratta? Domande a cui lo spettatore è chiamato a rispondere, collocando i suoni che sente in base alla propria interpretazione del dolore, della disperazione e della paura, sentimenti noti a tutta l’umanità seppur in modo differente per ognuno. Una sedia, rosso sangue è posta in primo piano, Edipo si mostra raramente in volto, le spalle sono ciò che lo spettatore vede per la maggior parte del tempo, anche noi siamo Edipo, anche noi siamo chiamati a vedere la verità con lui. Giocasta, interpretata da Frédérique Loliée, è un personaggio che seppur principale, risulta talvolta messo in secondo piano come ogni madre, inconsapevolmente, fa col proprio figlio: confessioni e rimpianti si slegano come nodi di uno stesso filo, ingarbugliato nel gomitolo della verità. La peste, antenata del Covid, viene richiamata come punizione divina all’ingiustizia, condannati, noi esseri umani ad una fragilità che non possiamo contrastare se non accettandola. Distanza, rabbia, paura e solitudine, le questioni irrisolte della vita ritornano indietro, come un boomerang, nella disperata ricerca della pace. 

Parlando con i protagonisti

Andrea De Rosa, Regista

Edipo e Giocasta, madre e figlio , marito e moglie per patto politico, un rapporto di condivisione e non di seduzione, nulla avviene per caso è Apollo a disegnare questo percorso ma chi è Apollo? Apollo è un personaggio che io ho inventato, come Tiresio, poichè per me è sempre esistito, è colui che porta la luce e che pone la verità in obliquo, così che non possa accecare. Edipo Re è lo spettacolo su cui è stata costruita l’intera stagione “Cecità”, non vedere non è solo un limite, talvolta è anche un vantaggio. Con questo spettacolo in particolare abbiamo indagato sul concetto odierno di verità comparandolo al concetto di verità per i Greci.

 E’ Edipo Re un’opera fatalista? 

Apollo lascia le scelte, sono gli stessi uomini a decidere quali prendere, decretando così il proprio destino. 

Qual è il significato dei pannelli in scena?

L’idea dei pannelli è nata nel lockdown,  quando arrivano questi eventi a cambiare il corso della storia, ci si chiede il perché ed è la stessa domanda a cui Edipo Re si sottopone con l’arrivo della peste a Tebe. 

A quale parte di voi stessi avete rinunciato per interpretare al meglio i vostri personaggi? 

Fabio Pasquini, Creonte

Più che rinunciare a qualcosa, l’abbiamo aggiunta, io personalmente ho portato con me la paura, il risentimento, la stessa sensazione di impotenza, mettiamo tanto di noi nella complessità dei personaggi.

Qual è stato il vostro rapporto con questa tragedia?

Frédérique Loliée, Giocasta 

Per me il rapporto con la tragedia greca di Andrea De Rosa è stato scioccante, indagare la verità è stato folgorante. La tragedia è per me il primo stupore, ciò che ti lascia attonito.

Quale è l’importanza della voce , interagendo in un Edipo archetipico e atipico? 

Francesca Della Monica, Coro

Ogni spettacolo dovrebbe essere un concerto di voci, liberare la voce dalla sua identrofia espressiva permette di lavorare sul binomio mutos/vogos e così abbracciare la voce e la parola. Un connubio perfetto tra verbale ed extraverbale, tra voce della storia e voce del muto. 

Rossella Cutaia

Arlecchino Furioso – Stivalaccio Teatro

Dal 19 dicembre 2023 all’1 Gennaio 2024, al Teatro Gobetti, è andato in scena lo spettacolo Arlecchino Furioso.
La compagnia Stivalaccio Teatro, che si occupa di teatro popolare, teatro per ragazzi e arte di strada, in questa occasione ci riporta indietro nel tempo seguendo la tradizione della Commedia dell’Arte.

“Sono dinamici e creativi i giovani di Stivalaccio Teatro, e anche coraggiosi nel dedicare le loro energie a un genere di nobile tradizione e di alta specializzazione qual è la Commedia dell’Arte, che li porta a confrontarsi con interpreti giganteschi e insuperabili”.

Questo ciò che viene detto della compagnia in occasione del Premio ANCT – Associazione Nazionale Critici Teatro 2023, che gli viene assegnato proprio al Teatro Gobetti.

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Salveremo il mondo prima dell’alba- Carrozzeria Orfeo

Possono i soldi fare la felicità? A questa domanda risponde la Carrozzeria Orfeo con Salveremo il mondo prima dell’alba, nato dalla regia di Massimiliano Setti, Ivan Zerbinati e Gabriele di Luca attore oltre che uno dei drammaturghi dello spettacolo. La pièce teatrale indaga cinque storie di cinque persone facoltose e molto conosciute che, tormentate dai loro problemi personali, si rifugiano in una clinica per riabilitazione; non una qualunque però: una clinica situata nello spazio. La scenografia è costituita da una costruzione semicircolare in legno che sembra imitare una cupola, al centro appare un oblò che mostra o nasconde la cosiddetta “grande meraviglia”, ovvero la terra. Un richiamo all’arte, a mio avviso, dal riferimento alla cupola alla visione eterea della terra, di tutto ciò che è stato quindi creato e reso incredibilmente concreto, sfidando le leggi della fisica, i confini vengono superati ma questo è possibile osservarlo solo estraniandosi dalla quotidianità per lasciarsi andare a se stessi. Uno scienziato indiano, biologo e portaborse di un uomo d’affari, esperto nel muovere le masse con la creazione di fake news, un imprenditore e il suo compagno, una coppia omosessuale fatta da numeri (l’uno) e da spirito (l’altro), infine una cantante, attivista e femminista. Ognuno di loro fugge dalla propria vita, un’esistenza infelice e irrisolta colmata da dipendenze, siano esse affettive, economiche o derivate da sostanze stupefacenti. Uno psicologo è presente nella narrazione (il Coach viene chiamato), una guida dei suoi pazienti che ha come missione divina quella di salvare le anime di chi, senza accorgersene, le ha logorate con l’inconsapevolezza, la superbia, l’invidia, la gelosia e l’egoismo. Alle estremità della costruzione semicircolare, appaiono due camere rettangolari, sempre in legno, una sauna a destra, simbolo di relax ed espiazione, ed una zona fitness a sinistra, al suo interno sono poste due biciclette, simbolo di fatica: pedalando con esse non si va da nessuna parte, la destinazione è dentro di noi. Un contesto onirico, un viaggio nella mente e nei sentimenti accompagnato da dolci musiche e da una voce femminile, quella della coscienza. Una teca è protagonista della scena, al suo interno i cinque pazienti dovranno, insieme, piantare un alberello, un piccolo baobab che raramente fa i frutti e di cui l’utilità appare inizialmente solo legata alla nascente coesione del gruppo. Chi mette un sassolino di ghiaia alla volta, chi mette la terra lentamente, chi scava il piccolo fosso per le radici, chi lo pianta effettivamente e chi lo bagna. Bisogna prendersene cura, bisogna prendersi cura della vita per farle fare i frutti, per quanto possa sembrare difficile o impossibile, la squadra impedisce l’errore, poichè a turno ci si occupa dell’alberello, così che non possa mai morire. Il linguaggio scelto per comunicare è familiare, a volte la dialettica è cruda e scurrile tuttavia è sciolta e chiara, la violenza della verbalità, accorcia ulteriormente le differenze sociali che dividono i ricchi dai poveri, già notevolmente diminuite dalla disperazione portata in scena. Tre ore di spettacolo scorrono ad una velocità impressionante, la mia curiosità nello scavare fino in fondo le storie dei personaggi è incontrollabile, in questo scenario divino e filosofico, mi pare talvolta di sentire le parole di Platone, quando parlava della caverna. Quattro uomini ed una donna, vivono all’ombra di loro stessi, circondati dalle loro paure più profonde, le reazioni ai tentativi di  trascinarli fuori dalle mura ormai fossilizzate delle loro menti, sembrano essere ataviche, deliri, violenze e autodistruzione. L’alba serve per far sorgere il sole, vicini allo spazio non la si dovrebbe neanche attendere, bisognerebbe solo aprire gli occhi e scegliere tra la luce e l’oblio: questo è il compito del Coach, tirarli fuori dalla loro caverna e farli scegliere. La narrazione è incalzate, i personaggi calzano agli attori come guanti, non  mi sento a teatro, la distanza che separa me stessa dal palcoscenico sembra non esistere, colmata dal silenzio della platea, interrotto spesso da risate: gli equivoci, l’ironia, il sarcasmo, il ridicolo, sono strumenti scelti dai drammaturghi e dai registi come mezzo di realtà, diceva infatti Madeleine L’Engle che una bella risata guarisce molte ferite, tagli che la drammaturgia di questo spettacolo riporta (dolori, disperazioni, dissolutezze, mancanze, assenze, privazioni, vuoti) alla mente di ognuno di noi, diventando, noi pubblico, soggetto stesso dell’analisi. Le scelte individuali condizionano la collettività ogni giorno, facciamo tutti parte di un grande gioco di squadra solo che ce ne siamo dimenticati; da lassù, dai cieli, come dei, i cinque personaggi assumono delle scelte e compiono azioni per se stessi soltanto, cercando di salvare disperatamente le loro vite sulla terra, preparando il terreno per quando ritorneranno; il loro egoismo però costerà la vita di tutti. I potenti, persone fragili con il potere di distruggere le vite degli altri come la propria, i potenti, persone che fuggono, lontane dal mondo e da loro stesse, nella speranza che tutto ciò che li circondi possa subire la loro stessa sorte, l’abbandono. Thanatos: Freud diceva che oltre all’eros, siamo fatti anche della più violenta voglia di farci a pezzi, l’uomo d’affari e il suo compagno scelgono l’oblio, gettandosi nel buio più profondo insieme. Il primo, affetto da una malattia degenerativa aveva vissuto gli ultimi anni della sua esistenza in preda al delirio di essere il numero uno, il lavoro era la sua ossessione, un ripiego, il successo, al suo fallimento come padre, uomo e persona.  Il suo compagno, uomo di spirito e spirituale,  aveva vissuto una vita senza scopo, non sentendosi mai all’altezza di nulla e trovando la sua occupazione nel prendersi cura dell’uomo che amava. Il personaggio del creatore di fake news aiuta in un impeto di generosità il suo servo, lo scienziato e biologo, nell’avere i campioni del DNA di specie rare o estinte, nella speranza forse, di fare la differenza, fugge alla ricerca di un riparo,  si distingue per codardia, tratto principale del suo carattere. La cantante invece non vuole fuggire, rimane su una sedia ad osservare e aspetta, forse di vedere la luce, arte. Il Coach nella sua missione di salvare il mondo da un disastro, approda su una terra la cui concatenazione di azioni non può più essere fermata, esplode e lui con essa. Rimangono nella clinica la cantante e il biologo: l’arte e la scienza, a prima vista incompatibili, devono unirsi per ricreare un mondo che ormai è scomparso. Ricominciare da capo, l’albero nella teca ha fatto i frutti, sono mele, non c’è né Dio, né il serpente, solo il frutto del peccato, Adamo ed Eva, ancora una volta. I soldi danno la felicità? No, non la danno e a quanto pare non rendono neanche liberi, la felicità sta nel prendersi cura della vita e coglierne i frutti. La mela non viene colta, la consapevolezza si fa, forse, strada nei loro cuori. Come ricomincerà la vita? E’ una domanda a cui non possiamo rispondere ma forse, l’unico modo per imparare a vivere è sbagliare. Che mordano quella mela.

Rossella Cutaia 

uno spettacolo di Carrozzeria Orfeo
drammaturgia Gabriele Di Luca
con (in o.a.) Sebastiano Bronzato, Alice Giroldini, Sergio Romano, Roberto Serpi, Massimiliano Setti, Ivan Zerbinati
regia Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi
assistente alla regia Matteo Berardinelli
consulenza filosofica Andrea Colamedici – TLON
musiche originali Massimiliano Setti
scenografia e luci Lucio Diana
costumi Stefania Cempini
creazioni video Igor Biddau
con la partecipazione video di Elsa Bossi, Sofia Ferrari e Nicoletta Ramorino
Una coproduzione Marche Teatro, Teatro dell’Elfo, Teatro Nazionale di Genova, Fondazione
Teatro di Napoli – Teatro Bellini
in collaborazione con Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna “L’arboreto – Teatro Dimora |
La Corte Ospitale”

COPPIA APERTA QUASI SPALANCATA

Coppia aperta quasi spalancata,  questo è il titolo di uno dei più famosi spettacoli dal carattere comico riflessivo di Dario Fo e Franca Rame, che dal 1982 ad oggi ha registrato  più di 700 repliche in tutto il mondo. Viene riproposto a Torino, e non solo, prima al Teatro Stabile nel 2022 e poi, nel 2023, al Teatro Alfieri. Il 25 novembre di quest’anno, Chiara Francini e Alessandro Federico ci colpiscono e ci stupiscono con la loro interpretazione, in occasione, tra l’altro, della giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Il giorno non è casuale. La trama, sicuramente d’impatto ed attuale, scritta e recitata da Franca Rame, vuole denunciare il forte cambiamento di una società allora profondamente segnata da una violenza verso il genere femminile, ritenuta normale, che inizia passo dopo passo ad essere riconosciuta e trattata in quanto  tale. Franca Rame scrive questo testo in un atto di consapevolezza, come grido di indipendenza e crescita personale. Il 9 marzo 1973  fu infatti protagonista di un orribile episodio di rapimento, diventato violenza carnale e conclusosi con il suo abbandono in mezzo ad un parco da parte dei carnefici. Da donna forte quale si è dimostrata agisce nella politica così come nei teatri. A farne le veci nel 2023 sembra essere proprio Chiara Francini, in una performance che si sviluppa attentamente  in ogni suo gesto. La voce, troppo spesso spenta nella vita reale, diventa protagonista della scena, con decisissimi cambi di tonalità.  Ripetizioni, ansie e angosce si verificano in un loop interminabile, ci sentiamo anche noi in trappola, come lei, nell’amara verità che questa pièce teatrale sta violentemente ponendo dinnanzi ai nostri occhi con lo strumento, spesso crudele, della risata. Alessandro Federico non fa una performance di meno valore, anzi, l’odio e l’amarezza percepita nei suoi confronti dimostrano il suo carisma nell’interpretazione del personaggio,  tuttavia, è condannato, dallo spettacolo stesso, a scomparire dalla principale attenzione del pubblico. Gli attori parlano direttamente a noi, protagonisti più o meno coscienti della nostra stessa vita. La scenografia è costituita da un cubo centrale, le cui pareti, spostate e direzionate, costituiscono una casa, un ambiente familiare, all’interno del quale la violenza, fisica e psicologica, avviene da entrambe le parti, in una possessività sviluppata per disperazione.

 “Tengo con la mano destra la giacca chiusa sui seni scoperti – diceva Franca Rame – È quasi scuro. Dove sono? Al parco. Mi sento male… nel senso che mi sento svenire… non solo per il dolore fisico in tutto il corpo, ma per lo schifo… per l’umiliazione… per le mille sputate che ho ricevuto nel cervello… per lo sperma che mi sento uscire. Appoggio la testa a un albero… mi fanno male anche i capelli… me li tiravano per tenermi ferma la testa. Mi passo la mano sulla faccia… è sporca di sangue. Alzo il collo della giacca. Cammino… cammino non so per quanto tempo. Senza accorgermi, mi trovo davanti alla Questura. Appoggiata al muro del palazzo di fronte, la sto a guardare per un bel pezzo. Penso a quello che dovrei affrontare se entrassi ora… Sento le loro domande. Vedo le loro facce… i loro mezzi sorrisi… Penso e ci ripenso… Poi mi decido… Torno a casa… torno a casa… Li denuncerò domani (Franca Rame per Vanity Fair).

Coppia aperta, quasi spalancata, solo se si tratta di uomo però, questo dice la stessa attrice nel suo personaggio: appena la donna inizia ad avvalersi delle proprie legittime libertà, ecco che l’uomo impazzisce, in preda ad istinti primordiali, in un carattere quasi primitivo. I riflettori non si pongono quindi solo su attori apprezzati e conosciuti o su coloro che prima di questi hanno esercitato questo tipo di teatro. I riflettori, chiedono al pubblico l’attenzione verso un tema che, dopo anni e molte battaglie, risulta essere ancora estremamente caldo e delicato, macchiato di un rosso acceso, lo stesso che sgorga dalle ferite di ogni donna, tagliata profondamente dalla lama della violenza. Le risate non mancano; eppure, vedere una donna, su un palco, in preda ad azioni suicide crea nel pubblico un atto di consapevolezza. Come faccio a saperlo? Davanti a me ci sono donne, che colpite da profondi ricordi si irrigidiscono ed eliminano qualsiasi contatto fisico con l’uomo al proprio fianco, altre invece, pervase da un sentimento positivo, appoggiano la propria testa sulla spalla del compagno, che con delicatezza dona un bacio, sulla fronte. I gesti parlano, così come i silenzi, ed arrivano dritti al cuore, come pugnali, armi bianche, macchiate di sangue. 

Rossella Cutaia

regia Alessandro Tedeschi
scenografia Katia Titolo
costumi Francesca di Giuliano
musiche Setti Pasino
luci Alessandro Barbieri
aiuto-regia Rachele Minelli
fonico Gianluca Meda
macchinista Raffaele Basile
foto di scena e grafica Manuela Giusto
organizzazione Marcella Santomassimo, Luisa Di Napoli
amministrazione Morena Lenti, Riccardo Rossi
produzione Infinito Teatro, Argot Produzioni

DENTRO. UNA STORIA VERA, SE VOLETE – GIULIANA MUSSO

UNA NITIDA SPORCA VERITÀ

Squilla un telefono per qualche secondo, poi una voce registrata: «Vi siete spaventati? Pensavate fosse il vostro telefono, vero? Ecco, ricordatevi di spegnerlo» e un sorriso divertito da parte di tutto il pubblico del Teatro Astra. Inizia così lo spettacolo Dentro di cui Giuliana Musso è attrice, drammaturga e regista. Un’introduzione simpatica a un esercizio teatrale che invece vedrà uscire gli spettatori tutto fuorché alleggeriti. 
Un pugno nello stomaco. Una verità che scuote.

Il palco si tinge di rosso: le sedie, l’illuminazione, il pavimento, tutto è rosso. Rosso è il simbolo della lotta alla violenza di genere, rosso il volto della rabbia provocata dall’ingiustizia, rosso è un urlo che non si censura più, che vuole farsi sentire.

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SPETTATORE CONDANNATO A MORTE

La rappresentazione teatrale Spettatore condannato a morte avviene in un luogo suggestivo.  Ci troviamo a San Pietro in Vincoli, un ex cimitero, nello specifico in una chiesa sconsacrata. Ci accoglie un giardino esteso che guida i nostri passi verso la biglietteria: una donna, attenta e gentile, dopo averci dato i nostri biglietti, ci indica un tavolo dove farci servire delle bibite calde e dei dolcetti. L’atmosfera inizialmente fredda, comincia a riscaldarsi, ci sono dei portici, arredati con poltrone, tavolini ed altri arredi domestici; in fondo, il cimitero è una casa per tutti. Un’altra ragazza ci accoglie in un graditissimo tepore, un grembiulino blu le fascia la vita e i suoi capelli ricci, scendono delicatamente sulle spalle. Un biglietto della lotteria finisce nelle nostre mani “non perdetelo, vi servirà dopo per un’estrazione”. I nostri biglietti non hanno segnato il numero del posto, la coda per entrare nella chiesa è lunga e trepidante. Attendiamo. Scattano le 19 in punto. Un ragazzo, alto e dal viso valorizzato da un baffo, ci strappa i biglietti e ci fa entrare. I posti sembrano distribuiti casualmente, eppure, una signorina ci guida attentamente: siamo disposti in semicerchio, ricorda un anfiteatro, come fosse un rimando al teatro antico.

“Che entri il giudice”, siamo in una corte di giustizia e davanti a noi, con toghe nere, passo deciso e voce altisonante si dispongono un procuratore, un cancelliere ed un giudice appunto. Dalla regia di Beppe Rosso nasce il riadattamento del testo di Matei Visniec, un lavoro dagli intrecci notevoli e complessi, interpretato da attori professionisti e da alcuni  partecipanti ad un precedente laboratorio dedicato allo spettacolo, quelli che saranno i testimoni, la donna gentile della biglietteria, la ragazza dal grembiulino blu e dai capelli ricci e lo strappatore di biglietti dal baffo prominente. La performance attoriale è intrisa di improvvisazioni, equivoci e incomprensioni, la risata del pubblico si scatena incontrollata e talvolta quella degli stessi attori. Un dettaglio peró che rompe un po’ la magia della pièce teatrale, distogliendo l’attenzione dal testo e dall’importante messaggio che vuole trasmettere. La scenografia è mobile e dinamica come lo stesso spettacolo, il legno la fa da padrona. Il protagonista è il pubblico ed in particolare uno spettatore che entra nell’occhio del ciclone della performance teatrale. A tutti i costi questo spettatore deve essere condannato a morte, le figure giudiziarie chiedono aiuto al pubblico per poterlo condannare, un pubblico che si manifesterà curioso e silenzioso seppur divertito. Il testo di Visniec vuole raccontare di come la giustizia, spesso, si perda nella delirante ricerca di un colpevole senza restituire la reale importanza della verità.

Quanto è infatti necessario trovare un capro espiatorio nella società odierna? E’ altrettanto importante la scoperta della verità, del movente, di un perché? No, non lo è, l’esigenza umana di attribuire un volto alla rabbia e all’odio è naturale, la verità  è invece una ricerca razionale, tipica di una civiltà intelligente, senza pregiudizi. Noi però siamo chiamati a giudicare e in uno scambio tra testimoni, pulito, veloce e dinamico, osserviamo, senza agire, il compimento di quella che sembrerebbe un’ingiustizia. “Forza uccidetelo, dai, uno di voi, si alzi e prenda questo fucile, uccidetelo”, il pubblico è talvolta confuso, quasi nessuno risponde alle sollecitazioni degli attori: chissà, forse perché sappiamo di essere ad uno spettacolo. L’uomo imputato resta in scena, in un angolo, seduto su una sedia, protagonista consapevole seppur non preparato, complice di un equivoco che spinge il pubblico a chiedersi continuamente se sia attore o spettatore, ebbene, ecco la risposta.

Come si è sentito?

Beh, sicuramente è stato per me, spiazzante

Sentiva l’impulso di reagire? Se si, perché non lo ha fatto?

Si, sentivo l’impulso di reagire, se non mi avessero detto di non fare nulla, probabilmente mi sarei inventato qualcosa.

E cosa avrebbe fatto?

 Avrei avuto voglia di sparargli.

Il pubblico siede sul liminale tra finzione e realtà, un confine difficile da stabilire, nella vita come in teatro. Quello che mi ha sollecitata mentre le battute scorrevano una dietro l’altra è stata la volontà di scoprire il pensiero degli attori, in particolare quello del giudice, presente in tutte le scene. 

Ti sei divertito?

Si, molto, sarebbe stato un problema fosse stato il contrario.

Come è stato il rapporto con il regista nella costruzione di uno spettacolo dalla sceneggiatura così articolata?

Devo dire difficile, abbiamo però trovato un ottimo compromesso.

Quanto è importante il silenzio del pubblico ?

 In questo spettacolo, come in tanti altri, è fondamentale, scandisce il ritmo, come fosse un’armonia musicale.

Quanto è stata importante l’improvvisazione? 

Fondamentale, direi.

Quando chiedevate reazioni dal pubblico, sapevate già non sarebbero arrivate? Oppure non avete avuto le giuste risposte alle vostre sollecitazioni? 

Si, sapevamo già non sarebbero arrivate, fossero arrivate le avremmo sicuramente gestite con l’improvvisazione ma ritornando sempre alla sceneggiatura originale.

Porre queste domande e avere delle risposte ha chiarito tante mie perplessità nate durante lo svolgimento della pièce teatrale. Uno spettacolo che, a mio avviso, ha un potenziale incredibile, seppur per certi versi ancora latente. C’è però da specificare che questo è uno “spettacolo partecipato”, in cui solo 4 attori sono professionisti, le altre 25 persone intervenute in scena sono invece cittadini, reclutati per il laboratorio condotto da Beppe Rosso e Yuri D’agostino. Mi sento dunque di fare luce su questo “dettaglio” per evidenziare il grande lavoro fatto dalla regia e dall’aiuto regia . La tematica trattata, è infatti, estremamente attuale e ci chiede di osservare noi stessi dall’interno, una piccola società racchiusa in un ex spazio sacro, che ci porta ad una profonda analisi di coscienza, in fondo, come diceva Friedrich Nietzsche “dovremmo chiamare ogni verità falsa, se non la abbiamo accompagnata da almeno una risata”.

Rossella Cutaia


CREDITI

di Matei Visniec
traduzione Debora Milone e Beppe Rosso
Adattamento Beppe Rosso e Lorenzo De Iacovo
aiuto regia Yuri D’Agostino
regia Beppe Rosso
con Lorenzo Bartoli, Francesco Gargiulo, Andrea Triaca, Angelo Tronca e con venticinque cittadini nel ruolo dei testimoni
scene e luci Lucio Diana
riprese video Eleonora Diana
tecnico di compagnia Adriano Antonucci
sound Massimiliano Bressan
costruzione scene Marco Ferrero
produzione A.M.A. Factory

PRIMA NAZIONALE

Spettacolo programmato in collaborazione con Piemonte dal Vivo nell’ambito del progetto Corto Circuito

LA TRILOGIA DELLA GUERRA PT. 2 – di GABRIELE VACIS con PEM IMPRESA SOCIALE

Antigone e i suoi fratelli

Quel grande sentimento di “crisi della presenza”, per definirla alla Sartre, con cui si chiude Sette a Tebe, viene rievocato e messo in discussione anche in Antigone e i suoi fratelli, in particolare nel monologo scritto e interpretato da Lorenzo Tombesi di cui riportiamo un estratto:

Sono davvero invidioso dei giovani ucraini… gli è capitata la guerra e non hanno altra scelta che prendere in mano il fucile – ho voglia di guardare mia madre dall’alto disperarsi a causa mia, ma non per una multa per eccesso di velocità! Ho invidia di quelli che dall’Africa partono e non sanno dove vanno! Dico queste cose e allo stesso tempo mi accuso – mea culpa mea culpa mea culpa ma come faccio a non subire il fascino di chi sceglie di morire? Non voglio più avere tutte queste reti, tutte queste possibilità, tutte queste alternative! Come faccio a scegliere se c’è tutta questa scelta?

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