SCIARA GENESI – SALVATORE ROMANIA & LAURA ODIERNA; ROSSO – DANILO SMEDILE
«Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciàra, e la campagna circostante era nera anch’essa, come la lava» Giovanni Verga, Rosso Malpelo, Tutte le novelle, Torino, Einaudi, 2015
Gli spirti umidi e frizzanti di una primavera ancora agli albori hanno avvolto la serata finale della settima edizione del Festival Conformazioni che quest’anno ha ammaliato Palermo dal 21 al 30 aprile 2023. A concludere la Kermesse di danza contemporanea, diretta dal Coreografo e danzatore Giuseppe Muscarello, due lavori imperniati su un rapporto intimo con il territorio di provenienza: la Sicilia. A fare da sfondo è lo Spazio Franco presso i Cantieri Culturali alla Zisa.
Lazarus, nella sua versione italiana tradotta e diretta da Valter Malosti, in scena al Teatro Carignano dal 6 al 18 Giugno, è un’opera scritta da David Bowie e Enda Walsh.
Ispirato al libro The Man who fell to Earth di Walter Tevis e all’omonimo film in cui Bowie interpreta l’alieno Newton, lo spettacolo continua a raccontarci la storia di Newton da dove l’avevamo lasciata. Nonostante non appartenga a questo Mondo, egli rimane prigioniero senza poter tornare al pianeta che lui chiama casa. Incapace di vivere, non riesce nemmeno a morire. Un immortale senza spirito vitale.
“Sono fuori di me e sono in pena, perché non mi vedo tornare”
(Luigi Tenco)
È complicato!
Questo spettacolo è complicato perché nasce come stand-up comica cucito su e per la sua ideatrice Claire Dowie, scrittrice, attrice, poetessa e pioniera dello stand-up theatre, una delle figure più anticonformiste del teatro contemporaneo che viene riadattato a monologo, tradotto e portato in scena da un numero ragguardevole di attrici che si sono cimentate con questo testo ma che non sono Claire Dowie.
Certo questo non vuol dire che chi non sia Claire Dowie non possa portarlo in scena ma… è complicato!
È complicato perché l’attrice, Olivia Manescalchi, è così brava da rendere molto credibile la sua interpretazione, così credibile da creare ancora più forte un cortocircuito con l’allestimento.
È complicato perché il personaggio in questione si rivolge direttamente al pubblico e comincia a raccontare una storia, la sua storia e anche se il personaggio in questione non ha un nome (Benji è il nome del cane della sua vicina e poi diventerà il nome con cui chiamare la sua amica immaginaria) lei rimane un personaggio che non diventa mai un narratore, checché se ne dica.
“Essere un narratore vuol dire un’altra cosa: è la base su cui costruiamo delle stratificazioni di comportamento per arrivare alla condizione di narratori ,che è una condizione stratificata. Non è che uno può improvvisare, prendere un libro e leggere e dice io sto narrando. La narrazione è fatta da una stratificazione dello stato di osservazione artistica. Come dice Benjamin, l’osservazione artistica porta una pulsione interiore in cui c’è l’incontro tra mente, cuore e braccio, che è l’atto del fare che trova uno stato divino in uno stato di consonanza che è stratificato. Non è che nasci così, lo devi accumulare, quando hai accumulato questi livelli di rapporti di consonanza tra il pensiero, il cuore, quindi l’emozione e la mente, allora tu ti muovi dentro una condizione in cui teatralmente è ridicolo parlare di personaggi […] Allora quando io dico narratore dico non interpretare. Prima di tutto, io come narratore ho una voglia, una voglia profonda che è una spinta propulsiva a dire del tutto che incontro…”. (Carla Tatò)
È chiaro che l’intento dello spettacolo di Benji non sia narrare ma interpretare ma ecco allora che ci scontriamo subito con un problema registico non di poco conto. Inoltre non darei così tanto per assodata la doverosa distinzione tra “narrare” e “interpretare”, se proprio legato a questo spettacolo sono stati pubblicati articoli con titoli come (valga uno per tutti): Il teatro di narrazione al teatro Argot Studio. Benji è il dramma della mancanza d’amore e di identità.
Ma perché deve essere, per questo spettacolo, più complicato che per altri?
Palcoscenico a vista completamente spoglio, a vista le quinte fuoriscena con corde e materiali teatrali, al centro del palco vuoto due sedie, una anonima, scura, di quelle pieghevoli e un’altra accanto più piccola rossa, una sedia da bambina. Comincia lo spettacolo e quasi non ce ne accorgiamo, c’è una dissolvenza di luci molto lenta che crea, in concomitanza con il procedere dell’attrice dal fondo buio al centro del palco, un cono di luce molto circoscritto al perimetro delle due sedie che delimiterà tutto lo spazio d’azione dello spettacolo. Uno spazio che dovrebbe essere angusto e claustrofobico, ma che dà anche l’effetto di una lente di ingrandimento, come se il personaggio sin da subito esponesse il suo corpo alla mercè degli spettatori in una sorta di confessione/inquisizione, qui il primo black out.
Quel tipo di confessione sarebbe stata più adatta al divano di uno psicoterapeuta che allo sguardo di un “pubblico”, che sia esso giudice o mero spettatore. Quelle sedie, se da un lato potrebbero persino far pensare a una situazione da gruppo d’ascolto, in realtà al tempo stesso lo contraddicono perché, per quanto anche noi siamo seduti, non ci sentiamo mai parte di un cerchio in intimità con il personaggio. Le sedie in scena del resto sono disposte su una fila retta parallela alla nostra, che crea ancora maggiore separazione tra noi e il mondo del personaggio, come se ci trovassimo su due schiere contrapposte. Quella confessione così intima, così credibile, fatta di micro movimenti nevrotici, dall’uso della sigaretta alla ricerca dei più svariati oggetti nella borsa, avrebbe avuto bisogno di una prossimità diversa. Si sentiva l’esigenza di un rapporto più intimo con quel corpo, che le parole del personaggio, a tratti sussurrate, ricercavano ma che l’impianto spaziale teatrale non consentiva. La stand-up comica di per sé nasce in un contesto di prossimità con il pubblico in un clima di convivialità dove spesso il pubblico beve e chiacchiera amabilmente, fino a quando il comico non cattura la sua attenzione. Qui per catturare la nostra attenzione c’è stato bisogno di una luce occhio di bue a pioggia che mette letteralmente sotto i riflettori l’attrice/personaggio.
Lorenzo Fontana, il regista dello spettacolo, utilizza la luce oltre che per delimitare lo spazio anche per scandire il tempo. Non ci sono particolari annotazioni musicali o effetti sonori, tutto si svolge su quella sedia su quell’unico corpo che viene esposto (al cono di luce) o nascosto (nel buio). Le scene hanno come unico raccordo il fuoco delle sigarette che l’attrice continua ad accendere una dietro l’altra.
C’è un solo momento in cui, e mi piacerebbe romanticamente credere che sia stata l’attrice più che il personaggio a prendere l’iniziativa di fuggire da quell’esposizione del cono di luce, in un moto di rivolta contro il regista che ha così “abusato” del suo corpo. In quella penombra limitrofa vediamo il riappropriarsi di una libertà nella gestione dello spazio, nel decidere cosa mostrare e cosa no, è il momento in cui il personaggio mima la distanza che separa la sua casa di infanzia dalla casa della vicina che aveva un cane che si chiamava Benji. In quel momento di “ribellione” il mio cuore ha avuto un sussulto, ho creduto che qualcosa accadesse, ma non appena l’attrice si è riavvicina a quel maledetto cono di luce, come risucchiata da una maledizione, il suo corpo viene nuovamente incatenato a quella sedia. Non saranno concessi altri momenti di libertà, anzi la scena divine sempre più piccola e il corpo si accartoccia fino a utilizzare come unico spazio esistenziale la seduta della sedia prendendo le distanze persino dal pavimento.
C’è un buon ritmo interno alla recitazione che non trova però una consonanza con il ritmo della regia che pretende di spiegare invece che mostrare, che riesce a essere ridondante nonostante il suo estremo minimalismo. Si può essere soli anche senza essere messi sotto un riflettore, si può avere un’amica immaginaria anche senza una sedia vuota a ricordarmelo.
Alla fine mi sono persa, non ho capito dove mi volessero condurre, ho trovato dissonanti il realismo dell’attrice con il linguaggio simbolico del regista, perché credo che, soprattutto per questo spettacolo, valga molto quanto afferma Carla Tatò:
“Perché spiegano… Se tu spieghi si perde la magia…. il problema è di andare veramente nell’evocazione dove ti perdi, ma sai quante volte io mi perdo e poi devo ritrovarmi […] Quando un attore è narratore invece che interprete per molti non è bravo, perché non ha quelle pause psicologiche, non ci sono, rompi tutto il tempo della descrizione psicologica del personaggio di cui tutti pensano che il pubblico abbia bisogno. Non è vero! Il pubblico non vuole descrizioni psicologiche, il pubblico vuole viaggiare, il pubblico è sensibile, vuole essere portato altrove e c’è una dinamica, c’è una dinamica che devi saper immettere per farlo viaggiare non è importante come finisce la storia, non gliene frega niente”.
Alla fine chi rimane incatenato alla sedia è lo spettatore che come il personaggio vede ridursi il suo spazio vitale sempre di più, sperando in viaggio che non ha mai inizio, che occasione perduta!
È la sera del 28 aprile 2023. Sotto le fronde degli alberi, che adornano a tratti le strade che si stagliano tra gli spazi dei Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo, capannelli di spettatori attendono di poter accedere allo Spazio Tre Navate. In programma la prima siciliana di Lazarus Serial Version Indoor edition, il lavoro firmato dal coreografo Giulio De Leo e facente parte del ricco calendario del Festival Conformazioni 2023. I convenevoli tra gli astanti in attesa si susseguono, fin quando le porte del teatro non si aprono.
Durante il terzo giorno di programmazione del Festival Conformazioni è andato in scena Sinopia, spettacolo che vede come suoi ideatori e performers MarcoPergallini e MariaStellaPitarresi. A fare da cornice la SalaStrehler del TeatroBiondo di Palermo.
Il titolo, Sinopia, racchiude il significato da cui i due danzatori sono partiti per la realizzazione del lavoro. Sinopia infatti è il nome di una delle tanti fasi necessarie per la messa in atto della tecnica pittorica dell’affresco.
Dal 23 maggio al 10 giugno 2023 Interplay Festival di Mosaico Danza animerà il capoluogo piemontese, con venticinque spettacoli (di cui sette prime nazionali) in programma, presso teatri e spazi multidisciplinari. Si susseguiranno compagnie italiane, realtà ampiamente affermate e giovani proposte, insieme a compagnie di stampo internazionale. A fianco della programmazione, Interplay anche quest’anno proporrà una significativa sezione di eventi performativi outdoor e/o site specific al fine di intercettare nuovo pubblico e incrementare l’offerta culturale rivolta ai cittadini, pure nei luoghi periferici della città.
“Io voglio mostrare a cosa può assomigliare un albero quando lo si vede per la prima volta nella vita”. – (Werner Herzog)
“Se siete finiti in un vicolo cieco tornate al punto di origine…” e quale origine può essere migliore del mito?
Gli eroi e i personaggi della mitologia greca, proprio perché eccezionali, sono i più indicati per mostrare sentimenti e valori in forme accentuate e, quindi, più evidenti. Per questo il mito è quasi sempre, sia nell’antichità che nella modernità, materiale per la tragedia.
Ma il mito, nella tragedia, è sempre reinterpretato alla luce dell’attualità, cioè dei problemi culturali, sociali ed esistenziali che chi scrive vuole mettere in luce. Lo spettatore si trova così di fronte a uno specchio deformante di quello che lui stesso potrebbe essere e che a tratti è già.
La tragedia infatti diviene il luogo – letterario e teatrale – in cui si dibattono idee e questioni di carattere universale, affronta le contraddizioni della vita e della civiltà, e spesso è costruita in base a conflitti insanabili, che sono propri di ogni era. Come nel caso dell’Orestea che vede contrapporsi giustizia e vendetta, polis e sfaldamento della società, legge del taglione e giustizia amministrata da un primo tribunale.
Ph. Federico Pitto
L’Orestea di Eschilo, l’unica trilogia integrale arrivata sino a noi da un lontano passato che ci risalda alle nostre origini, è andata in scena al teatro Carignano per la regia di Davide Livermore, in due serate ravvicinate (Agamennone e Coefore/Eumenidi) o proposta anche in un’unica maratona, dando la possibilità agli spettatori più temerari di testare il loro grado di resistenza fisica e mentale.
La tragedia, come abbiamo visto, è per sua stessa natura il genere delle grandi passioni, dei grandi amori e delle grandi atrocità.
Sarà a causa di tutta questa grandiosità che Livermore ci propone una trilogia, organizzata in due “atti”, dalla sfarzosa realizzazione: 40 attori, 2 pianoforti, 50mq di ledwall e una lancia Aprilia 1500 presente per la messa in scena al teatro greco di Siracusa, ma che al chiuso del teatro Carignano ci viene risparmiata.
Ph. Tommaso La Pera
Come da tradizione del mito, Livermore prende la storia degli Atridi e l’attualizza, così l’eco della guerra di Troia diviene, grazie agli splendidi costumi di Gianluca Falaschi e alle accurate acconciature, l’eco della Seconda guerra mondiale, in un’ambientazione che si attesta tra gli anni ’30 e ’40. Il cotesto evocato si rifà però più a un certo immaginario cinematografico, sarà perché non riproduce “l’orrida realtà” ma una realtà edulcorata, “imbellettata come fa il 99% dei film hollywoodiani” per citare Tarantino. E il cinema aleggia su entrambi gli spettacoli, frequenti sono le citazioni, pensiamo fra tutte al fantasma della piccola Ifigenia che apre l’Agamennone e che nel finale si sdoppia, restituendoci l’iconica immagine delle gemelle di Shining.
Ph. Michele Pantano
Se “Il cinema è la scrittura moderna il cui inchiostro è la luce” per dirla con Cocteau allora, come abbiamo anticipato, nella messa in scena di Livermore l’elemento che visivamente connota entrambi gli spettacoli è uno schermo di forma circolare, fatto di luce, un ledwall di 50 mq, sul quale appare una sfera che ruota sul proprio asse (come un globo terrestre) e dentro alla quale prendono forma i video progettati da D-Wok; l’elemento illusionistico è tutto tecnologico e lo riscontriamo soprattutto nella forte tridimensionalità delle immagini.
Il risultato è di impatto “grandioso”, uno strumento dall’enorme potenziale vanificato però da un utilizzo eccessivamente didascalico o che veicola una spicciola morale che disattende l’intento registico che troviamo nel pamphlet di sala:
“Ogni volta che realizziamo l’atto umano di ritrovarci a teatro, un atto intimamente più complesso della condivisione, ci troviamo a formulare una riflessione profonda nei confronti della società, una riflessione che, in questo caso diviene concreta in quanto, nell’abbraccio della parete di specchi che delimita il mondo dell’Agamennone, il destino dei personaggi sulla scena si unisce indissolubilmente a quello degli spettatori che, nel riflesso, divengono agenti”
Ph. Tommaso Le Pera
Ph. Federico Pitto
Ph. Federico Pitto
Così siamo investiti da occhi giganti, maremoti, incendi, esplosioni, immagini di tragedie umane degli ultimi anni, tra cui persino la Costa Concordia… d’accordo con Andrea Pocosgnich si tratta di un “un campionario di effetti visivi tutt’altro che imprescindibili se non come compendio simbolico e didascalico di certe situazioni: il fuoco e il sangue nominato si riverberano nella sfera amplificando l’immagine già impressa nella parola”.
Quel desiderio di Herzog con cui abbiamo cominciato, mostrare un albero come se lo si vedesse per la prima volta, mi sembra che appartenga in qualche modo anche a Livermore ma la natura delle parole di Eschilo contengono un potere evocativo possente, per stessa ammissione del traduttore Walter Lapini, Eschilo è l’unico dei tre tragediografi greci “a parlare davvero una lingua ancestrale e oscura”. Il suo stile grandioso, solenne, magniloquente, seppur sbiadito nella traduzione, rimane comunque poderoso. Una lingua che come dice Pasolini “si fa strada verso la meta pressando e sfondando” e che proprio per questo non ha bisogno di rafforzi visivi che distraggono e in qualche modo de-potenziano. Soprattutto se si ha a che fare con degli interpreti di indubbio valore come la brava Linda Gennari, Giuseppe Sartori nei credibili panni di un Oreste partigiano o Laura Marinoni con la sua imponente presenza scenica, orchestrati da Livermore all’interno di una precisa partitura ritmica di gesti declamatori e ostentatori che richiamano alcune plasticità tipiche dell’opera lirica. Griglia che risultava a tratti, per alcuni interpreti, persino un po’ stretta, ma che rivela una certa fedeltà alla tragedia antica.
Ph. Federico Pitto
Il teatro di Livermore è un teatro di regia nel senso molto classico del termine. Abbiamo un assoluto rispetto del testo, si esige una fusione degli interpreti che vuol dire star lontano da un teatro che poggia sull’ “esibizionismo” degli attori, sul lusso delle attrici, sulla distinzione dei ruoli, nel senso che anche il più piccolo ruolo ha il suo momento di centralità e declamazione, in maniera molto “democratica”. Le sfarzose scene che hanno il compito di trasformare poeticamente il dramma di Eschilo, non sempre riescono nell’impresa. Scene e i costumi dovrebbero infatti essere considerati come parti integranti dell’opera poetica, cui è imposto l’obbligo non di fotografare la realtà ma di trasformarla poeticamente secondo lo stile e il carattere del dramma rappresentato a prescindere dalla scelta dell’adattamento. Ma per quanto riguarda la scenografia risulta decisamente poco organica, si ha l’impressione che gli apparati e i materiali scenici predomino e ingombrino. L’attore si trova così costretto nel movimento, a causa di uno spazio sacrificato, lo scenario spesso attrae tutta l’attenzione dello spettatore.
Va detto però che lo spettacolo, come abbiamo già accennato, e come si può vedere dall’immagine di copertina, nasce per essere rappresentato al teatro greco di Siracusa, che è uno spazio fuori misura, rivelando un progetto che forse manca di lungimiranza rispetto alla possibilità di un riadattamento in uno spazio diverso e al chiuso.
Ph. Tommaso Le Pera
Il pubblico è chiamato in causa come parte integrante del dramma ma se in Agamennone non è così chiaro nonostante il monologo di Cassandra che si rivolge direttamente alla platea, del resto quasi tutta l’azione scenica si svolge in proscenio con una prossimità al pubblico che tenta di inglobarlo, ma rimane il dubbio se ci riesca, nel secondo spettacolo, che racchiude Coefore/Eumenidi, il coinvolgimento del pubblico è esplicitato nominandolo come popolo di Atene durante il processo. Il pubblico è infatti invitato a votare sulla colpevolezza o innocenza di Oreste, pura formalità visto che alla fine sarà Atene con il suo voto che vale doppio ad assolvere il matricida.
Gli spettacoli nel loro complesso sono estremamente godibili, ma non assomigliano a “un albero visto per la prima volta”. Quello stupore, quella meraviglia, quello shining che entrambi gli spettacoli hanno, abbaglia, confonde, disorienta, ammicca eccessivamente.
Così alla fine il verso greco non tradotto risveglia ricordi ancestrali e anela rimpiante passeggiate nei boschi, di alberi magari non visti per la prima volta ma che non hanno la pretesa di essere altro da sé.
Less is more
Nina Margeri
CAST E CREDITI COMPLETI
AGAMENNONE
Produzione Teatro Nazionale di Genova, INDA Istituto Nazionale del Dramma Antico
Traduzione Walter Lapini
Regia Davide Livermore
Personaggi e interpreti
Musici | Diego Mingolla, Stefania Visalli Sentinella | Maria Grazia Solano Corifea | Gaia Aprea Coro | Maria Laila Fernandez, Alice Giroldini, Marcello Gravina, Turi Moricca, Valentina Virando Clitennestra | Laura Marinoni Messaggero | Olivia Manescalchi Agamennone | Sax Nicosia Cassandra | Linda Gennari Egisto | Stefano Santospago Spettro di Ifigenia | Aurora Trovatello, Ludovica Iannetti Vecchi argivi | Davide Pennavaria, Marco Travagli, Alessandro Trequattrini Oreste bambino |Riccardo Bertoni Elettra bambina| Anita Torazza
Scene Davide Livermore, Lorenzo Russo Rainaldi
Costumi Gianluca Falaschi
Musiche originali Mario Conte
Luci Marco De Nardi
Video Design D-Wok
Regista assistente Giancarlo Judica Cordiglia
Assistente alla regia Aurora Trovatello
Costumista assistente Anna Missaglia
Cast tecnico
direttore di scena Alberto Giolitti direttore di palco Michele Borghini capo macchinista Marco Fieni macchinista Nathan Copello macchinista / attrezzista Giulia Chittaro capo elettricista Toni Martignetti fonici Edoardo Ambrosio, Umberto Ferro, Stefano Gualtieri video Luca Nasciuti trucco e parrucco Barbara Petrolati, Giuseppe Tafuri, Giovanna Molinaro sartoria Cristina Bandini, Viviana Bartolini
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COEFORE/EUMENIDI
ProduzioneTeatro Nazionale di Genova, INDA Istituto Nazionale del Dramma Antico
Traduzione Walter Lapini
Regia Davide Livermore
Personaggi e interpreti “Coefore”
Musici | Diego Mingolla, Stefania Visalli Oreste | Giuseppe Sartori Pilade | Gabriele Crisafulli Elettra | Anna Della Rosa Le Coefore | Gaia Aprea, Alice Giroldini, Valentina Virando, Cecilia Bernini (cantante), Graziana Palazzo (cantante), Silvia Piccollo (cantante) Voce e immagine di Agamennone | Sax Nicosia Clitennestra | Laura Marinoni Cilissa | Maria Grazia Solano Egisto | Stefano Santospago Una donna | Nicoletta Cifariello Le Erinni | Maria Laila Fernandez, Marcello Gravina, Turi Moricca Guardie | Lorenzo Crovo, Lorenzo Scarpino, Davide Niccolini
Personaggi e interpreti “Eumenidi”
La Pizia (Profetessa) | Maria Grazia Solano Apollo | Giancarlo Judica Cordiglia Le Eumenidi | Maria Laila Fernandez, Marcello Gravina, Turi Moricca Fantasma di Clitennestra | Laura Marinoni Statua di Atena | Bianca Mei Atena | Olivia Manescalchi
Scene Davide Livermore, Lorenzo Russo Rainaldi
Costumi Gianluca Falaschi
Musiche originali Andrea Chenna
Luci Marco De Nardi
Video Design D-Wok
Regista assistente Sax Nicosia
Assistente alla regia Aurora Trovatello
Cast tecnico
direttore di scena Alberto Giolitti direttore di palco Michele Borghini capo macchinista Marco Fieni macchinista Nathan Copello macchinista / attrezzista Giulia Chittaro capo elettricista Toni Martignetti fonici Edoardo Ambrosio, Umberto Ferro, Stefano Gualtieri video Luca Nasciuti trucco e parrucco Barbara Petrolati, Giuseppe Tafuri, Giovanna Molinaro sartoria Cristina Bandini, Viviana Bartolini
“ConFormazioni” ovvero la primavera performativa palermitana
Martedì 28 marzo 2023 si è svolta a Palermo, nella cornice dello Spazio Franco presso i Cantieri Culturali alla Zisa, la conferenza stampa del Festival ConFormazioni, arrivato alla sua settima edizione.
Il Festival di danza e linguaggi contemporanei tornerà a Palermo dal 21 al 30 aprile 2023. Una versione allargata dell’ormai conosciuta azione che vede alla direzione artistica Giuseppe Muscarello e a quella organizzativa Danila Blasi: a precedere il festival ci sarà un’anticipazione in collaborazione con Scena Nostra, rassegna dello Spazio Franco dedicata alle creazioni contemporanee.
L’idea per lo spettacolo Come tutte le ragazze libere, andato in scena al Teatro Gobetti dal 21 al 26 febbraio all’interno della stagione teatrale 2022/2023 Out of the blue, nasce da un singolare fatto di cronaca: sette tredicenni, originarie della Bosnia Erzegovina, al ritorno da una gita scolastica scoprono di essere rimaste incinte. La notizia ha un impatto globale, attorno ad esso si crea un dibattito accesso per capire di chi siano le responsabilità di un’educazione sessuale non adeguata, se non addirittura mancante. La scuola e le famiglie scaricano queste responsabilità l’una sulle altre.
Da tutto questo la drammaturga Bosniaca Tanja Sljivar prende l’ispirazione per scrivere, nel 2017, questa pièce teatrale, nella sua versione italiana tradotta da Manuela Orazi e diretta da Paola Rota.