28° Edizione Festival delle Colline Torinesi – Intervista a Sergio Ariotti

Il 10 Ottobre 2023, con l’anteprima dello spettacolo Come gli Uccelli, che sarà presente nella stagione TPE, ha avuto inizio la 28° edizione del Festival delle Colline Torinesi.
Dal 10 Ottobre al 4 Novembre sarà quindi possibile seguire il Festival.
Il tema, anche quest’anno, sarà Confini e Sconfinamenti.
Èancora molto necessario parlare di questa tematica, così attuale, dolorosa. E politica, nel senso più profondo del termine.

Per l’occasione abbiamo intervistato Sergio Ariotti, direttore del Festival delle Colline Torinesi insieme ad Isabella Lagattolla, che riportiamo qui di seguito in modo da poter indagare al meglio ciò che questa nuova edizione del Festival ha da dire al pubblico.


Perché si sente l’urgenza di esplorare nuovamente il tema Confini e Sconfinamenti?
Qual è il messaggio che il Festival si propone di lanciare? Quali sono le aspettative?

Il tema Confini-Sconfinamenti è, per molti versi, obbligatorio.
Una cosa preliminare che posso dire è che quest’anno ci sono molti abbonamenti e biglietti acquistati da giovani. Per lo spettacolo Hartaqat abbiamo notato che metà della platea è composta da pubblico decisamente molto giovane. E quindi forse questo tema incuriosisce le nuove generazioni, ancora più di quanto era successo l’anno scorso.
Confini e sconfinamenti per quel che riguarda in particolare i profughi, costretti a varcare dei confini. Ma anche i confini tra le arti e quindi gli sconfinamenti tra Teatro e Arte Contemporanea.
Ci sono quindi più livelli di lettura, ma il principale messaggio che volevamo lanciare è proprio quello dei profughi. Profughi del 1933, come Hannah Arendt e Walter Benjamin, e profughi di oggi…
Quest’anno il festival comincia e si sviluppa in un momento drammatico, quello di questa guerra in Palestina, tra una falange araba terroristica e quelli che abitano nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Quello che speriamo è che il pubblico possa portarsi via degli elementi per una propria riflessione. Non abbiamo la presunzione di risolvere questo tipo di problematiche, il teatro non sempre può risolvere i problemi della politica, o della drammatica cronaca, ma pensiamo che avere qualche elemento in più per decifrare il tempo in cui viviamo sia molto importante.


 In precedenti interventi ed interviste si è fatto riferimento alle figure di Hannah Arendt e Walter Benjamin, che cosa ci dicono le personalità del passato su quello che è il nostro Presente?

Walter Benjamin fugge dalla Germania nel 1933, quando Hitler vince le elezioni. E poi, dal ’33 fino al ’40, vive davvero la condizione del fuggiasco. Va prima a Parigi sapendo perfettamente il francese, eppure trovandosi spesso “in imbarazzo”, poi ad Ibiza, a Sanremo… Ed è sempre inseguito dall’ossessione di essere preso e portato in un lager. Benjamin ci comunica questa idea del fuggiasco come persona triste, che viene sradicata e perde il contatto con la sua Realtà.
Hannah Arendt è una biografa straordinaria di Benjamin, quindi i due personaggi si incrociano.
Scrive anche un libro, che io trovo meraviglioso, il cui titolo è Noi Rifugiati. Un libro breve, di poche pagine, ma in cui spiega perfettamente perché i rifugiati si trovano in difficoltà: per la lingua, perché perdono occasioni di lavoro nel loro paese, perché devono adattarsi a delle realtà culturali che sono diverse dalle loro. Insomma, analizza punto per punto il momento difficile che vive il rifugiato e lo scrive con una lucidità intellettuale, che le è propria, incredibile. Vale la pena di leggerlo anche in relazione al nostro atteggiamento nei confronti dei barconi e dei migranti, di quelli che arrivano. Noi siamo un po’ abituati, per errore, a considerarli dei “reietti”. Ma invece sui barconi ci sono anche dei laureati, persone che hanno un mestiere importante alle spalle, persone che potrebbero integrarsi più facilmente. Certo, tutti dovrebbero avere la possibilità di integrarsi, ma ciò che intendo dire è che queste persone dovrebbero riuscire a farlo ancora più facilmente. Invece noi abbiamo un pregiudizio nei loro confronti. Ed è per combattere contro questo pregiudizio che noi facciamo Teatro.


Vorrei agganciarmi ad un altro libello estremamente lucido di Hannah Arendt, Disobbedienza Civile, e porre una domanda inerente al teatro: quando e quanto il teatro si pone l’obiettivo di essere un atto di disobbedienza civile?

 È una domanda molto difficile, perché il teatro diventa uno strumento di disobbedienza civile raramente. Il più delle volte si pone semplicemente come strumento di approfondimento, di riflessione.
Certo, se pensiamo agli anni in cui Hannah Arendt e Walter Benjamin sono vissuti sicuramente troviamo delle figure straordinarie come quella Erwin Piscator che utilizza davvero il teatro per andare contro le regole del potere. Con l’avvento di Hitler, però, questo tipo di teatro Agit-Prop scompare dalla Germania, perché è un teatro che ha bisogno di condizioni specifiche per potersi riprodurre e riproporre.
Per quanto riguarda l’Italia di oggi io non credo che sia molto presente un teatro che faccia disobbedienza civile.


Il paese ospite di questa 28° edizione del Festival delle Colline Torinesi è il Libano. A cosa è dovuta questa scelta? Quali sono le peculiarità e le urgenze che questo paese porta all’interno della rassegna?

Quando abbiamo scelto il Libano come paese ospite non immaginavamo assolutamente tutto quello che poi è successo e sta succedendo [a livello geopolitico]. Noi, semplicemente, siamo partiti dalla monografia d’artista che volevamo dedicare a due artisti libanesi che sono venuti tante volte al Festival delle Colline Torinesi.
Le monografie, se possibile, vogliamo dedicarle a quegli artisti che conosciamo e che abbiamo visto e apprezzato. Abbiamo scoperto, strada facendo, che ci sono tantissimi artisti libanesi che stanno proponendo degli spettacoli molto interessanti. E dunque abbiamo pensato che potesse essere una buona scelta.
Poi il Libano ha questa incredibile peculiarità: ci sono milioni di immigrati. Molti vanno in Occidente, ma molti altri arrivano in Libano, dalla Siria, dalla Palestina. Questo rende il paese veramente un crocevia di popoli diversi tra loro, con tutte le problematiche che questo ovviamente comporta.
Anche il prossimo anno il Libano sarà il paese ospite, per poter approfondire ulteriormente molte tematiche legate a questo luogo. Mentre quest’anno il tema di confini-sconfinamenti ci permette uno sguardo più generico, l’anno prossimo vorremmo soffermarci maggiormente sul tema del Profugo. È ancora presto per dirlo, ma sempre di più matura l’idea di far diventare il tema principale del Festival quello dei profughi.

A proposito dello spettacolo Hartaqat, realizzato da una compagnia che ha vissuto in Libano e che è fortemente impregnata di una cultura libanese: il loro trascorso si lega con questa idea di teatro di disobbedienza civile?

Profondamente. In questo spettacolo vengono portati in scena tre testi di tre autori libanesi che parlano della fuga dal Libano, di cosa li ha sconcertati e costretti ad andarsene. Faccio un esempio solo: in Libano è proibita la cremazione, perché ci sono dei vincoli legati alla religione. L’autrice Lina Majdalanie ha scritto uno spettacolo in cui ironizza su questa situazione, dicendo Magari mi faccio bruciare prima una mano, poi un piede, poi un orecchio… E alla fine potrò riuscire a farmi cremare. È ovvio che questo sia un paradosso, però è molto forte ed evocativo dal punto di vista politico.
In Hartaqat ci sono altri elementi di ribellione, ad esempio quelli riferiti all’identità sessuale. Una persona omosessuale, in Libano, va incontro a molte difficoltà. Uno degli autori, che è anche interprete, dice in modo esplicito che non può vivere in Libano a causa della sua omosessualità e per questa ragione decide di andare a vivere in Francia.
Ecco, nello spettacolo ci sono degli elementi di protesta molto importanti.


Quali sono gli eventi del passato a cui si vuole guardare per continuare ad imparare dalla Storia?

Sicuramente l’avvento dei totalitarismi in Europa. Il Fascismo in Italia, il Nazismo in Germania, il Franchismo in Spagna, la Repubblica di Vichy, lo Stalinismo in Russia.
C’è stato un momento, a livello storico, in cui sembrava che il Totalitarismo avesse preso il sopravvento su tutto. E quindi da quello bisogna imparare, perché la degenerazione di quei totalitarismi è stata drammatica.
Al Festival verrà presentato uno spettacolo spagnolo dal titolo El Pacto del Olvido che parla del Franchismo e in particolare di una legge che vietava di parlare della guerra civile spagnola e della dittatura franchista. Non si voleva parlare più di questi misfatti, c’era la volontà di farli cadere nell’oblio. Ma nello spettacolo di Sergi Casero Nieto viene evocata la figura di una nonna che si oppone a tutto questo, perché non possiamo e non dobbiamo dimenticarci di ciò che è accaduto. Dobbiamo ancora guardare a quel passato per evitare di ripeterlo.

C’è stato uno spettacolo più difficile da portare in questa edizione del Festival delle Colline (dal punto di vista emotivo e/o organizzativo)? E, se c’è stato, quale e perché?

Sicuramente l’anteprima dello spettacolo Come gli uccelli di Wajdi Mouawad, che è coincisa con l’inizio della guerra. In quel momento ci siamo domandati se fosse giusto o meno farlo. Lo spettacolo ci parla della storia d’amore tra un ragazzo ebreo e una ragazza araba, palestinese. Questa storia si dipana attraverso complicazioni e risoluzioni, in maniera molto dura.
E continuavamo a chiederci Ma dobbiamo farlo?
Poi, parlando tra tutti noi, abbiamo pensato che fosse importante portarlo in scena, per dare proprio quegli elementi di riflessione in più al pubblico, per poterli in qualche modo aiutare nell’individuazione di alcune problematiche che ci sembravano importanti da attenzionare.
Certo, come dicevo, non si possono risolvere i problemi solo attraverso la finzione letteraria e teatrale, però accostarsi un po’ di più a queste tematiche ci sembra utile e doveroso.
Per esempio in Italia è come se ci fossero due fazioni: quelli che stanno con i Palestinesi e quelli che stanno con gli Ebrei. Invece, conversando con Lina Majdalanie e Rabih Mroué [entrambi creatori e registi dello spettacolo Hartaqat] questa sensazione non l’avevamo.
I morti sono morti. Per tutti.
Non bisogna prendere posizione in modo fazioso come in una partita di calcio, come se fossimo tifosi di uno o dell’altro lato. No, bisogna ragionare.
C’è sempre il fatto che i partiti politici italiani prendono posizioni a favore o contro i contendenti. Ma sarebbe necessario avere uno sguardo un po’ più lucido, dall’alto, meno fazioso. Io trovo che questo sia molto importante ma, purtroppo, è un problema che riguarda abbastanza l’Italia. In Germania, ad esempio, e ce lo dicevano sempre Lina Majdalanie e Rabih Mroué, questa dualità e queste prese di posizione preliminari sono meno accentuate.
Certo, si condanna Hamas per il grande numero di morti che ha prodotto, ma ricordiamoci anche che la reazione di Israele sarà spropositata, fin troppo violenta.


Beatrice Taranto
Michele Pecorino

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