Wonderland


Cosa hanno in comune un corvo e una scrivania?

E’ con questo indovinello uscito direttamente dalla penna di Lewis Carroll, che si apre Wonderland al Teatro Gobetti.
Con le luci di sala ancora accese e con la divisione tra pubblico e performer non ancora netta, entriamo gradualmente all’interno della narrazione, attraverso giochi di parole che iniziano ad ingarbugliarsi.

Ph. Andrea Macchia

Sul palco non c’è nessuna Alice, siamo noi che cadiamo direttamente nella tana del Bianconiglio e ci ritroviamo in un mondo senza senso, in uno spettacolo che non ha una trama, ma dei semplici episodi che dobbiamo “riconoscere, piuttosto che comprendere”, come lo stesso Collettivo Effe tiene a precisare.

Ph. Andrea Macchia

Su un lato del palco è posizionato l’iconico tavolo attorno al quale si svolge, sempre alla stessa ora, il rituale del tè. Qui troviamo alcune delle strane creature che abitano Wonderland, intente a godersi il non-sense e a giocare ad un gioco di carte in cui, non importa come si giochi, tutte le carte sono belle, tutte le carte assegnano punti, tutto fa vincere. Tutto, purché si abbia la fantasia di inventare delle storie per ognuna di quelle carte.
I movimenti scenici sono perfettamente studiati, soprattutto nei momenti in cui il l’ora del tè diventa pura coreografia e le azioni si ripetono uguali ancora e ancora e ancora… Potenzialmente all’infinito, tanto da risultare come un perfetto loop in cui quasi non si capisce più quante tazze ci siano in scena che girano da un personaggio all’altro.

Per ricreare sul palco questa versione del Paese delle Meraviglie vengono utilizzati degli espedienti tecnici ben riusciti, come ad esempio videocamere e cellulari che riprendono e proiettano ciò che accade moltiplicando a dismisura gli spazi, rendendo tutto un gioco di specchi o un labirinto, entrambe cose che rievocano l’atmosfera di Alice in Wonderland.
Particolarmente riuscita la scena del naufragio, creata riprendendo una piccola teca trasparente riempita d’acqua la cui immagine viene proiettata e amplificata in modo esponenziale. In questo modo un piccolo contenitore si trasforma in un’inondazione che riempie il palco.

Ph. Andrea Macchia

Allo stesso modo, la frenetica corsa del Bianconiglio (che fugge dopo aver drogato gli altri personaggi, rendendo le loro visioni sempre più deliranti e colorate) viene creata seguendo i suoi spostamenti con una telecamera. Con questo espediente riusciamo a seguirlo da quando abbandona il palco attraverso una botola e poi giù, sempre più giù, dietro le quinte, nei corridoi del teatro, mentre corre a perdifiato sulle scalinate, all’interno di un parcheggio sotterraneo, quando esce dal teatro chiedendo una sigaretta a qualche passante, e poi nuovamente all’interno del teatro, dove lo vediamo soffermarsi alla macchinetta del caffè e sorseggiare una bevanda calda.
L’effetto della dilatazione dello spazio risulta straordinaria.

Lo spettacolo sembra quasi diviso in due metà, da una scena esteticamente molto forte e potente in cui il pubblico viene letteralmente aggredito agli occhi da una forte luce e da una voce fuori campo che lo invita ad interrogarsi sulla sua identità.
“Chi sei? Sei la stessa persona di stamattina?”
Un quesito, quello sull’identità, che è molto presente anche nel libro di Carroll e che è altrettanto pressante ed inquietante. La voce fuori campo chiede ad ogni persona di interrogarsi sulla propria identità, di alzare la mano, chiuderla a pugno, di prendere consapevolezza di se stessi, del proprio corpo. Ed invita anche a guardare chi ci sta seduto accanto, di accorgersene, quasi fosse un rito religioso.
Sebbene la scena sia esteticamente ben costruita (luci e suoni accompagnano il lavoro in modo estremamente sensoriale) il pubblico purtroppo, a parte qualche raro caso, non sembra essere abbastanza sciolto da mettersi realmente in gioco e fare ciò che la voce suggerisce.
Il rapporto con il pubblico, almeno nella replica specifica presa in considerazione, risulta essere la parte meno riuscita dell’intero spettacolo. Vengono poste delle domande ma non è molto chiaro se ci si aspetta davvero che il pubblico risponda o no, creando alcuni momenti confusi di vuoto.

Le luci sono invece la parte più suggestiva dello spettacolo.
Viene evocato un mondo di night club illuminati da luci strobo, promiscuo (nel senso letterale di mescolanza di cose diverse) e a tratti viene rievocata l’atmosfera dei Pride.
Wonderland è una realtà queer, termine che veniva utilizzato già nell’Ottocento per indicare, spesso con una valenza dispregiativa, ciò che era “strambo” e “bizzarro”. E le creature che incontriamo in questa storia non sono forse strambe e bizzarre?
Come spesso capita nella storia delle battaglie sociali ci si riappropria con forza di quei termini che, una volta, erano utilizzati con accezioni negative. E allora Wonderland diventa un luogo per riappropriarsi della propria stravaganza con orgoglio e anche con una sana dose di ironia.
Tutto è molto moderno ed attuale, i riferimenti alla nostra epoca sono precisi, eppure risulta anche essere perfettamente in linea con la “stranezza” del Paese delle Meraviglie originario. Un adattamento innovativo, moderno ma anche coerente che dimostra uno studio attento del testo di partenza.

Un’altra cosa che questo spettacolo mette al centro è l’importanza dei giochi di parole e come le parole nuove possano creare interi mondi e nuove, strane, creature (nel libro, ad esempio, abbiamo le butter-fly).
E allora perché non provare anche oggi, in questo nostro Mondo, Tempo e Spazio, a rivoluzionare il modo di parlare per immaginare altre possibilità, altre libertà e, perché no, un Mondo non-binario?
Ed ecco che allora declinare mestieri importanti al femminile, utilizzare gli asterischi alla fine delle parole per includere tutt*, e confrontarsi con la schwa (Ə) non è solo “giocare con le parole”, “offendere i puristi della lingua italiana” ma creare nuove possibilità, un nuovo orizzonte possibile da immaginare. Perché le parole sono importanti e creano la nostra Realtà.
Ecco allora il nostro bisogno di sparparlare e la nostra voglia di riconoscere la potenversità!



*Se avete letto fin qui adesso potrete sapere ciò che hanno in comune un corvo e una scrivania.
Carroll scrisse che gli furono poste spesso delle domande a riguardo ma, almeno inizialmente, l’indovinello posto dal Cappellaio Matto non aveva soluzione. Dovendo però pensare ad una risposta appropriata disse: “Entrambi producono alcune Note”
Ma sono tante altre le soluzioni che sono state create con il passare del tempo, come ad esempio che sia un corvo che una scrivania hanno le penne.

Beatrice Taranto


Ispirato a Alice in Wonderland di Lewis Carroll
Adattamento Antonio Careddu, Giulia Odetto
Con (in ordine alfabetico) Lav Gilardoni, Marta Pizzigallo, Camilla Soave, Alice Spisa, Francesca Turrini
Regia Giulia Odetto
Dramaturg Antonio Careddu
Scene e costumi Gregorio Zurla
Luci Giulia Pastore
Suono Lorenzo Abattoir
Video Camilla Soave

Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
In collaborazione con Collettivo Effe
Realizzato con il sostegno del Progetto Crossing the Sea
E in collaborazione con Seoul Institute of the Art

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