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AMLETO – INTERVISTA A LEONARDO LIDI

Il Teatro Stabile di Torino compie 70 anni. Per festeggiarlo, ancora in questi giorni in scena al Teatro Carignano, Amleto. La regia è di Leonardo Lidi, con cui abbiamo realizzato un’intervista. Un breve dialogo a tre voci in cui il regista si sofferma sul lavoro di costruzione dell’intero spettacolo.

Emanuela Cerino: Come descriveresti il tuo spettacolo Amleto, che sarà in scena al Teatro Carignano fino al 26 ottobre, a chi non l’ha ancora visto? Perché la scelta è ricaduta proprio su Amleto?

Leonardo Lidi: È la festa dei 70 anni del Teatro Stabile di Torino e mi è stato chiesto di pensare a quale testo potesse festeggiare questa occasione. Io ho pensato ad Amleto perché semplicemente, se il teatro è una religione, diciamo che Amleto ne è il libro sacro. È il libro sacro non solo del teatro ma nello specifico degli attori. La cosa che mi interessa è festeggiare il teatro attraverso la figura dell’attore e quindi mi sembrava giusto farlo attraverso Amleto e con Amleto. Anch’io sono stato Amleto nell’energia di Walter Malosti nel 2013. A livello personale mi faceva piacere tornare sulle tracce del principe di Danimarca.

Silvia Picerni: Abbiamo notato, partecipando allo spettacolo, che la vocalità degli attori gioca un ruolo importante nella riuscita stessa del dell’evento teatrale. Come è stato lavorare con gli attori sulla voce? Anche in relazione all’utilizzo dei pupazzi.

Leonardo Lidi: È stato diverso. Io di solito lavoro con i microfoni, invece in questo caso c’è la voce naturale, a parte tre scene: quella del pupazzo, quella del del duello finale, quella della neve. È stata un’esigenza dettata dalla scena perché sentivo in questo caso il microfono come un un filtro non necessario. Shakespeare richiede sempre di rapportarsi con la voce nello spazio, essendo nati questi testi al Globe con un’architettura che concede, come se fosse un’arena, la condivisione attraverso la voce. Avevo bisogno di condividere questo con le voci degli attori. Io poi non parlo mai di voce con l’attore. Con gli attori parlo di relazioni ma non mi concentro mai solo sull’aspetto vocale, quella è una conseguenza. Sicuramente ognuno di loro ha una voce molto specifica, ad esempio Rosario Lisma, che interpreta Becchino e Polonio.  In quest’ultimo anno rileggendo Polonio mi veniva proprio in mente la voce di Lisma e quindi le voci hanno avuto un ruolo fondamentale all’interno di questa produzione.

Emanuela Cerino: Guardando lo spettacolo è possibile che la fisionomia dei personaggi richiami quella di alcune figure storiche, cinematografiche o teatrali, come ad esempio Joker o La Regina di Cuori?

Leonardo Lidi: Sì, certo… ognuno trova i riferimenti che vuole… anche Carmelo Bene di Un Amleto di meno, che può ricordare anche Non è un paese per vecchi, che può ricordare anche Pappagone… Ci sono tanti riferimenti, ci sono le statue di Botero. Riferimenti spesso popolari, perché Amleto deve essere nel termine più alto possibile uno spettacolo “popolare”, non deve mai essere uno spettacolo chiuso nelle mura di un teatro che non si interfaccia col proprio pubblico.

Silvia Picerni: Sulla scena l’estetica di Claudio sembra riflettere più pazzia di quella di una “pazza vera” che è Ofelia

Leonardo Lidi: Con Nicola Pannelli stiamo facendo un percorso sui sovrani dell’oggi. I rappresentanti del famoso sovranismo che sta spopolandolo in Occidente, quindi la questione è: cos’è un sovrano oggi? Perché il sovrano si rapporta con la comicità, con l’ironia? Pensiamo a Trump che durante il COVID dice di iniettarsi la candeggina… È un elemento folle, che però ti fa dire: “non lo devo prendere sul serio”. Stiamo lavorando con Nicola, non tanto sulla follia, che è una conseguenza, ma proprio sul linguaggio sia del corpo che delle parole. Il sovrano oggi ha bisogno di indossare spesso e volentieri la maschera. Si pensi al ciuffo di Trump… Rispetto alla follia di Ofelia invece, era molto importante non entrare nel cliché della povera pazza che troppo spesso vediamo inscenata. Ofelia sola nella sua follia… invece Ofelia è il non-essere dello spettacolo. È la padrona di un cimitero. Di fatto Ofelia sceglie la morte, è quello che dice il becchino nel suo monologo, l’ha fatto perché ha compiuto un’azione. Questo era importante affrontarlo con dolcezza, con serietà, con severità e non con “faccio le boccacce” o canzoni da stereotipo della follia. 

Emanuela Cerino: Ci sapresti dire come è nata l’idea di sostituire una coppia di personaggi importanti per la drammaturgia del testo di Amleto con quelli che invece hai portato in scena?

Leonardo Lidi: Il travestimento in Shakespeare era un elemento fondamentale, pensiamo che erano tutti attori uomini che si travestivano per i ruoli femminili. È un elemento secondo me importante, non dimenticarsi il gioco del travestimento. Ricreare una sorta di Globe oggi nel 2025.

Silvia Picerni: In scena abbiamo visto gli attori a piedi nudi,  fatta eccezione per Amleto, Claudio e Geltrude…

Leonardo Lidi: Non è stata una scelta drammaturgica. Non volevo che entrasse la realtà delle scarpe in Amleto. L’abbiamo provato all’inizio con degli anfibi, ma queste scarpe erano troppo presenti, soprattutto quando lui sta sul trampolino. In qualche modo riportavano troppa realtà. Sai, a prescindere dalle scarpe, l’equilibrio che c’è è molto preciso, il confine tra fantasia e in realtà è molto preciso, ma anche molto sottile, quindi abbiamo pensato al millimetro. Abbiamo fatto tante prove proprio per capire…

Silvia Picerni: C’è qualcosa che pensi sia opportuno far sapere ai lettori?

Leonardo Lidi: Abbiamo parlato della parte formale… una questione importante è stato scegliere a chi assegnare Amleto. Devi decidere, so che può sembrare una cosa banale, ma mai come in Amleto c’è questa decisione. La regia la racconti con la scelta degli attori e con la scelta di chi fa Amleto e quindi questa regia la firmo io, ma in realtà dovrebbe essere quasi raccontata a quattro mani. Mario Pirrello ha dipinto Amleto, l’abbiamo creato proprio insieme. C’è una frase che torna in questo spettacolo: “trattali bene gli attori, perché sono l’essenza di un’epoca”… e io penso che, mai come per questo spettacolo, dobbiamo ringraziare gli attori ancor prima del regista.

Emanuela Cerino, Silvia Picerni

SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE – VALERIO BINASCO

E’ tornato sulle scene del Teatro Carignano i Sei personaggi in cerca d’autore nella versione di Valerio Binasco . Una scrittura scenica che ammalia. Un classico intramontabile ancora in grado di confrontarsi con l’attualità. Il teatro nel teatro come effetto scenico e come mezzo per andare oltre la rappresentazione del copione e mostrare diverse sfaccettature della realtà. Questi i tre elementi che fanno dei Sei Personaggi di Valerio Binasco uno spettacolo molto interessante, appagante e spiazzante.

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TRE MODI PER NON MORIRE – TONI SERVILLO

Teatro Carignano, giovedì 7 novembre 2024.

Tre modi per non morire di Toni Servillo, testo di Giuseppe Montesano.
Quasi tutte le date sono esaurite da giorni e c’è ancora pubblico in fila al botteghino speranzoso di trovare un biglietto.

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USODIMARE – VALERIO BINASCO

Anche quando sveste i panni del personaggio, Valerio Binasco sale in scena con quella naturalezza, nel senso di autenticità e profondità in cui la intende Carlo Cecchi, che dice la realtà (sempre secondo la sua accezione di gioco reale) del suo teatro. 
Il corpo scenico – concreto e nervoso – è, in un modo quasi sensuale (il teatro è un fatto anche “erotico”), attratto dal palcoscenico, dal luogo fisico in cui sta agendo. La sua presenza concitata, vibrante e dinamica, incarna quel tipo di teatro – che non incontro di frequente – molto poco concettuale (nel senso di priorità data all’elaborazione intellettuale) e capace, invece, di verità: ciò che Binasco fa sulla scena viene fuori come liberazione di quella «bestia teatrale» che abita la sua anima. Come qualcosa di visceralmente sentito.

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La Ragazza sul Divano- Jon Fosse

Coinvolgente, appassionante, struggente, queste sono le parole che vestono perfettamente la pièce teatrale La ragazza sul divano, nata dalla penna del premio Nobel Jon Fosse e portata in teatro da Valerio Binasco. La scenografia è stata sapientemente studiata e disposta in modo da trasportarci, con gli stessi personaggi, nella quotidianità di una donna sola, colma di rimpianti e di rimorsi. Uno spettacolo per questo che permette allo spettatore di muoversi con uno sguardo, nella sottile linea del tempo, tra passato e presente. Il dolore, la paura, la solitudine, sentimenti forti e imponenti, i quali governano la scena senza timore alcuno, risuonando in ogni battuta e in ogni gesto. Il gesto teatrale accompagna perfettamente la drammaturgia, le scene che si susseguono mi appaiono dinamiche e connesse: sono rimasta catturata e assorta da un immenso dolore che ho in qualche modo compreso e che avrei, senza dubbio, voluto consolare. Si tocca la sensibilità dello spettatore, si instaura in esso un’importante consapevolezza, quella che ci permette di prendere atto che tutto passi, la gioventù, gli amori, perfino i legami più forti, tutto finisce e tutto ricomincia, in un circolo continuo, quello della vita, che in questo spettacolo ha le sonorità di You don’t own me di Lesley Gore:

You don’t own me

Don’t try to change me in any way

You don’t own me

Don’t tie me down ‘cause I’d never stay

I don’t tell you what to say

I don’t tell you what to do

So just let me be myself

That’s all I ask of you

I’m young and I love to be young

I’m free and I love to be free

To live my life the way I want

To say and do whatever I please

Il grido di una libertà perduta, storie di scelte sbagliate e anime ingombranti, la storia di una ragazza che tutta la vita ha passato “seduta sul divano”, senza essere capace di reagire alle difficoltà, la cui unica consolazione diventa la pittura dei suoi quadri: “se non stai attenta, si prendono tutto lo spazio, non perché siano belli o brutti ma perchè sono quadri”, tele macchiate di colori che colano come sangue dalle ferite, colori che escono dal loro confine incontrollati, senza senso, come la vita di questa donna a cui non è rimasto NIENTE. Niente è una delle parole chiave di questa pièce teatrale, cos’è il “niente”, cosa significa, perchè niente? Forse si riferisce ad un’anima persa che non sa più come ritrovarsi e che non ha più nessuno che possa aiutarla a farlo. “Tu non mi possiedi” dice la canzone “sono giovane e amo essere giovane, sono libera e amo essere libera, lasciami vivere come voglio”, parole che vibrano nel cuore dello spettatore con la stessa intensità che la voce dell’attrice principale, Pamela Villoresi, esprime nel suo urlo di disperazione finale. Una donna abbandonata e che abbandona, una donna a cui è rimasto un padre la quale unica costanza è stata l’assenza nella sua infanzia, una figura paterna ormai anziana e sola a cui lei stessa si appoggia, in quanto figlia, che seppur adulta,  possiede ancora l’ingenua anima di una bambina, la cui innocenza si riflette nel bisogno di cura, nella ricerca di attenzione, nella volontà di riparare la propria anima rotta, ricominciando da capo, dal suo primo e significativo abbandono, quello del papà. La trasgressione che incoraggia la colonna sonora viene incarnata perfettamente dalla sorella della protagonista, la sua libertà si traduce nella nudità scenica, una nudità ricercata, necessaria? Forse no, ma la mancanza di senso, talvolta, regala attimi di normalità. Tanti sono infatti i momenti imbarazzanti interpretati nelle scene, tanto imbarazzanti da essere realistici, attimi che si sono colorati di uno humor sottile e familiare. Le interpretazioni degli attori evidenziano una coerenza tra un personaggio e l’altro, il file rouge della trama è scorrevole e seppur complesso nella costruzione, di facile comprensione, chiaro ed impattante. Un vinile su un vecchio giradischi suona, sopra di esso un piccolo vasetto con un fiore: scena finale, un’immagine delicata che esprime l’essenza di questo dramma musicale. L’armonia della vita è stata perfettamente rappresentata da un’armonica successione degli eventi, spingendo gli spettatori a riflettere sul proprio passato, sul proprio presente, sulle proprie scelte e soprattutto sul significato del “Niente”.

Rossella Cutaia

MOBY DICK ALLA PROVA – ELIO DE CAPITANI

Portato in scena per la prima volta a Londra nel 1955, il Moby Dick di Orson Welles si rivelò essere molto più di una semplice riduzione per le scene del celebre romanzo di Melville. Il sottotitolo “Rehearsed” lasciava intendere fin da subito la sua natura espressamente teatrale: quello che il pubblico si trovava davanti all’aprirsi del sipario non era esattamente Moby Dick, ma una compagnia di attori che discute su come sia possibile mettere in scena un romanzo di tale portata nello spazio ristretto di un palcoscenico, e seguita a tentare nell’impresa.  “È l’ultima pura gioia che il teatro mi abbia dato” ebbe a dire Welles dello spettacolo più avanti.

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CHI HA PAURA DI VIRGINIA WOOLF? – ANTONIO LATELLA

Chi ha paura di Virginia Woolf? Who’s afraid of the Big Bad Wolf? Chi ha paura del lupo cattivo? Di che cosa abbiamo paura in questo spettacolo? Forse di non riconoscerci più in noi stessi, di perdere ogni riferimento. Paura di non capire, come succede ai quattro personaggi di questo dramma, di cadere in un vuoto pieno di parole che rimbombano tra loro perdendo ogni significato. Davanti a questa evenienza, i quattro personaggi che vediamo in scena, autori della loro stessa distruzione, cercano di proteggersi come possono, George con l’arroganza, Nick chiudendosi a riccio, Martha cantando e Honey ubriacandosi.

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SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE – VALERIO BINASCO

Con un grande rito preparato con dedizione, all’insegna dell’imponenza del teatro, Valerio Binasco torna a bussare, dopo due anni, quasi inevitabilmente, alla porta di Shakespeare. Come sempre, le produzioni di Binasco si presentano al pubblico con grande maestosità, come una gigantesca macchina che gira da sola, spinta da un demone che si diverte a giocare con attori e storie.

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