CHI HA PAURA DI VIRGINIA WOOLF? – ANTONIO LATELLA

Chi ha paura di Virginia Woolf? Who’s afraid of the Big Bad Wolf? Chi ha paura del lupo cattivo? Di che cosa abbiamo paura in questo spettacolo? Forse di non riconoscerci più in noi stessi, di perdere ogni riferimento. Paura di non capire, come succede ai quattro personaggi di questo dramma, di cadere in un vuoto pieno di parole che rimbombano tra loro perdendo ogni significato. Davanti a questa evenienza, i quattro personaggi che vediamo in scena, autori della loro stessa distruzione, cercano di proteggersi come possono, George con l’arroganza, Nick chiudendosi a riccio, Martha cantando e Honey ubriacandosi.

Questo spettacolo parla del potere disarmante della parola, meravigliosa quanto distruttiva, manipolatrice, violenta. Nel cammino di Antonio Latella spesso ci si imbatte nel tema della parola, come accadde ne La valle dell’Eden, dove doveva essere la parola a far vedere, prima ancora del regista, lasciando al pubblico la possibilità di farsi guidare nelle scelte. Anche nel capolavoro tratto da Steinbeck la parola generava una catastrofe, come in Virginia Woolf genera una ruota infernale guidata da George che risucchia chiunque le passi a fianco, anche involontariamente, come accade per Nick e Honey.  Si genera quasi un gioco con delle regole inquietanti e oscure, che coinvolge anche chi non vuole giocare: Nick e Honey ai giochi di George, come Sgama gli ospiti, finalizzato a distruggere la coppia dei coniugi ospiti. Effettivamente, fanno riflettere i titoli dei tre atti del dramma di Edward Albee: Gioco, La Notte di Valpurga, Esorcismo: un climax infernale che porta alla liberazione dai propri fantasmi e delle proprie paure.

In sostanza, lo spettacolo appare come una magnifica e ben costruita ragnatela di parole, appunto, di battute, frasi contraddittorie e dialoghi a trabocchetto. I quattro attori, come delle mosche intrappolate nella tela del ragno George, si muovono abilmente per districare gli intrecci, ma finiscono per rimanere intrappolati sempre di più, facendo restare imprigionato anche il pubblico.

In certi punti, ci si chiede quasi dove sia il confine tra ciò che vediamo e ciò che stiamo credendo di vedere, mettendo in dubbio ogni regola di questo gioco di parole. “Verità o illusione? Chi conosce la differenza?” Chiede George nel terzo atto. Siamo padroni della ragnatela, e stiamo tessendo anche noi i nostri fili? Oppure siamo tutti prigionieri di un labirinto di illusioni?

Questo labirinto, alla fine, si rivela un cerchio che si chiude. Come spesso accade nei lavori di Latella, il tempo non è lineare, ma circolare. In Chi ha paura di Virginia Woolf il tempo quasi si dilata, vediamo accadere in tre ore ciò che nella realtà accade in un frammento di una notte. Alla fine, i coniugi Martha e George sono tornati, probabilmente, al bisogno di stare insieme, pur facendosi del male, pur facendosi violenza. Come urla George a Martha nel secondo atto: “Devo trovare un modo per farti veramente male” “Lo hai già fatto George”, risponde la moglie. Questa violenza, quest’aggressività sono probabilmente necessarie affinché la ragnatela possa esistere. È un gioco di ruolo, che, per come lo vediamo noi in sala, forse si ripete da chissà quanto, allo stesso modo. È ciclico, appunto. I personaggi che vediamo sono dei ruoli che recitano una parte, quasi delle maschere. Sottolinea la dramaturg Linda Dalisi la vicinanza di Albee a Pirandello: “Ho capito che Virginia Woolf è un testo di maschere. Ogni personaggio ha una maschera costituita dal suo personale linguaggio, scudo e arma contundente al tempo stesso.”

Tuttavia, la non breve durata dello spettacolo e la presenza di un intervallo tra il primo e il secondo atto sembrano allentare i fili della ragnatela. Viene lasciato al pubblico del tempo per riflettere, e l’affilatezza delle parole dei personaggi sembra affievolirsi. La catastrofe viene fermata, come cercando di arrestare una valanga che sta ormai per distruggere qualunque cosa: è un tentativo vano, inutile.

Alcuni elementi ricorrenti nel teatro di Latella si possono ritrovare in questo spettacolo. Molto spesso il regista ama considerare il tavolo come luogo di ritrovo: lo si è visto ne La Valle dell’Eden, ma anche nel Pilade che aprì la trilogia su Pasolini nel 2002. Qui non c’è un tavolo, ma c’è un pianoforte, con cui ogni personaggio interagisce, che viene smontato. Sempre in Pilade, il coro, interpretato da Annibale Pavone, recitava per tutto lo spettacolo con un coniglio in tasca, un coniglio vero, forse a rappresentare l’imparzialità nelle scelte e la purezza. Qui anche compare un coniglio: la maschera che ha in testa nel terzo atto Honey, appunto, il personaggio forse più puro dei quattro. Peculiare che Lappin e Lapinova, un racconto di Virginia Woolf in cui una coppia sposata dà vita a una sorta di finzione, indossando delle maschere da coniglio e lepre, e il matrimonio sopravvive solo grazie a questa cornice di fantasia. Dialettica tra verità e finzione, ancora.

Come in tutti gli spettacoli del regista, è sempre forte la presenza di un attento processo creativo per la costruzione dello spettacolo e il lavoro con gli attori. Il dramaturg lavora in sintonia con il regista quasi come un detective in un’indagine poliziesca per cercare indizi e materiali utili. È mettersi in gioco, costruire e poi distruggere e ricostruire di nuovo sopra le macerie, valutare una strada per costruire l’azione scenica e ogni sua possibile alternativa. Parlando, discutendo, scrivendo, cercando musica o guardando video, riempiendo un muro di post-it. Nei lavori di Antonio Latella, spesso si seguono delle piste senza arrivare a delle risposte: l’elemento davvero importante è proprio la pista, il processo creativo, appunto. Lo si capisce in un regista che quasi mai va in teatro a vedere le repliche di uno spettacolo firmato da lui: il suo lavoro è durante il processo creativo – afferma lo stesso Latella – una volta che lo spettacolo va in scena, la parte del regista ha finito di esistere.

Il ruolo del dramaturg è fondamentale. È difficile in quanto, per Virginia Woolf, non si parla di scrivere un testo o di lavorare ad un adattamento, ma di indagare scrupolosamente, proporre spunti. Ho avuto la fortuna di seguire un seminario di regia teatrale diretto da Antonio Latella, dove ho capito davvero l’importanza del dramaturg, nei suoi lavori, durante un processo creativo. Mi piace fare questo paragone: se l’allestimento di uno spettacolo è un viaggio che incontra un bivio, il regista è il guidatore dell’auto, gli attori sono il motore, lo spettacolo è la destinazione, il processo creativo è il bivio, allora il dramaturg è Google Maps. Ovvero un navigatore, un aiutante durante il viaggio. È possibile guidare un’auto senza Google Maps, ma dipende dal percorso: se la strada è tortuosa, difficile e piena di bivi, senza ci si perde.

Matteo Chenna

di Edward Albee traduzione Monica Capuani drammaturga Linda Dalisi con Sonia Bergamasco, Vinicio Marchioni, Ludovico Fededegni, Paola Giannini regia Antonio Latella scene Annelisa Zaccheria costumi Graziella Pepe musiche e suono Franco Visioli luci Simone De Angelis assistente al progetto artistico Brunella Giolivo assistente volontaria alla regia Giulia Odetto Teatro Stabile dell’Umbria con il contributo speciale della Fondazione Brunello e Federica Cucinelli

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