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PEACHUM. UN’OPERA DA TRE SOLDI – FAUSTO PARAVIDINO

Prosegue la tournée di Peachum. Un’opera da tre soldi, andato in scena dal 23 novembre al 5 dicembre 2021 presso il teatro Carignano di Torino. L’ultimo degli spettacoli scritti e diretti da Fausto Paravidino, in collaborazione con il Teatro stabile di Bolzano, che vede in scena Rocco Papaleo insieme ad attori provenienti da diverse scuole di recitazione d’Italia. L’obiettivo è rileggere in chiave moderna uno dei capolavori del secolo passato: L’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht, con musiche di Kurt Weill.

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La ballata di Johnny e Gill – Fausto Paravidino

Una linea sottile orizzontale, l’universo appiattito, come in un buco nero. L’assenza di tempo e spazio. Una visione dall’alto che è anche visione senza tempo, al di sopra di tutto, primigenia e pura. La fine e l’inizio del mondo. L’anima che si fa Assoluto. Con questi presupposti, lo spettacolo crea il mondo, mondo in cui la necessità, l’imperativo morale è la migrazione. Mondo in cui si erge incontrastata e solinga la torre di Babele, monito del peccato di ubris dell’uomo. Segno della dispersione dell’uomo, diviso in lingue diverse. Gli uomini  tutti fratelli, ben presto si dispersero, chiusi nella loro incomunicabilità, divennero estranei. Ma al centro di tutto c’è sempre un uomo, un uomo qualunque non un santo: Abramo, a cui Dio, dà il compito terrificante di andare a conoscere gli altri uomini. Abramo lascia tutto e parte, non importa se spinto davvero da Dio, o semplicemente dall’impellenza o necessità di viaggiare e conoscere l’altro. Da qui ha origine la nostra civiltà, una civiltà di migrazione continua. La necessità di cambiare la propria condizione esistenziale e materiale verso una terra promessa.

“Vattene dal tuo paese, dalla tua patria / e dalla casa di tuo padre / verso il paese che io ti indicherò”, il Signore ad Abramo.

Fausto Paravidino, il Dramaturg del Teatro Stabile di Torino, mette in scena in qualità di regista e sceneggiatore, oltre che attore, lo spettacolo La Ballata di Johnny e Gill. Uno spettacolo diverso da quelli in cui siamo soliti imbatterci, se bazzichiamo tra le sue opere. Non più i kitchen sink drama degli esordi, da qualche anno Fausto Paravidino fa del teatro diverso, un teatro sempre contemporaneo, che guarda all’attualità per abbracciare tutto quello che offre, quindi anche il suo passato, la Storia tutta. I Fenomeni che vediamo non sono nuovi, ma repliche di azioni che abbiamo già fatto anni addietro. E allora viene spontaneo partire dalla Bibbia, testo cardine della nostra civiltà, testo che ci culla di nascosto fino al contemporaneo.

Lo spettacolo è una fiaba di qualcosa che non capiamo, con cui non riusciamo a fare i conti. La storia è costruita per quadri, riuniti parzialmente da delle dissolvenze in nero. Johnny e Gill sono italiani, sebbene non lo si dica apertamente. Vendono il pesce, ma non sono soddisfatti della loro condizione. Johnny, dopo uno strano sogno con uomini mascherati, forse emissari del Signore o semplicemente incarnazioni dei suoi turbamenti interiori, prende la moglie Gill e l’amico Lucky e decide di andare via dalla sua terra. Attraversano diversi luoghi, emblema di tutte le migrazioni passate e future, luoghi che portano con sé  i mali dell’uomo che non ha ancora accettato la diversità di Babele. Quindi il deserto con le sue carestie e i suoi predoni/terroristi, sciacalli perversi che spolpano la vittima lasciandola in agonia ad assaporare la sua vacanza spirituale tra la sabbia. I soldati corrotti, che invece si divertono a macerare ulteriormente questa carne sopravvissuta al deserto. E infine il mare, calma piatta di una tempesta in agguato. Sale, arsura, onde. Ma dov’è la terra promessa? Eccola! L’America, luogo della mente. Dove tutti sognano di andare. Paese dei Balocchi, dove i sogni saranno realtà. La massiccia immigrazione italiana in America in anni forse dimenticati di proposito, se si nota con quanto odio accogliamo oggi lo straniero. La xenia, l’ospitalità dell’antica Grecia. Era un dovere sacro per i greci ospitare chi chiedeva l’ospitalità. L’America che ci accoglieva, magari non per dovere, ma accoglieva. Cosa che oggi, pare, si sia persa nei meandri della storia, sia America come in Italia.

Johnny e Gill si scontrano con culture e lingue diverse , si sentono estranei. Gli attori nello spettacolo parlano inglese, francese e grammelot. La lingua può essere un ostacolo ma quando c’è volontà di capire, la si capisce. Dio ha punito gli uomini costringendoli a parlare diversamente, ma in questo spettacolo e sia all’esterno di esso, nel mondo delle migrazioni, c’è la necessità di ricongiungere quello che è stato diviso. Johnny e Gill, in questa nuova terra, fanno quello che sanno fare meglio: vendono il pesce. Incontrano il boss locale, ottengono il suo rispetto. Imbattersi nel boss locale, se si apre un’attività nella zona controllata da questo individuo, è un’usanza, un rito. Zeus proteggeva i viandanti, la xenia, Zeus Xenios. Ora a proteggerli c’è il Padrino. Nonostante gli imprevisti la loro attività avrà successo, ecco l’America che dà possibilità, il sogno americano. La loro vita scorre in parallelo a quella di Abramo: Gill/Sara non potrà avere figli e per questo tentano la strada dell’utero in affitto. Da Agar, la donna che si presta a ciò e che ha lo stesso nome anche della schiava di Abramo, nascerà il loro bambino, Ismaele. La gelosia tra Gill e Agar porterà all’allontanamento di questa e del bambino non riconosciuto. Spetterà ad un tassista vestito da Babbo Natale, annunciare la venuta di un bambino: “ Avrete un bambino, ma ricordatevi, donando la vita si dona la morte, il figlio sarà vostro ma non vi apparterrà: un giorno dovrete restituirlo”. Questo Dio camaleontico infonde speranza in ogni cosa. Ecco il bambino, ecco Isacco. Nella nostra epoca un sacrificio di un figlio come sarebbe possibile e visualizzabile? C’è sempre un sacrificio all’angolo della strada. La guerra, la patria che sacrifica i suoi figli, il figlio che torna allo zio Sam che lo richiede. La guerra in Iraq dopo gli attentati di Al-Qaeda, si presta ad inglobare i figli della terra. Ecco il sacrificio. Ma come Dio salva Isacco, anche il figlio di Johnny e Gill è salvo dalla guerra, così continueranno la loro vita in pace.

La guerra e le migrazioni sono fondamentali per capire il nostro tempo, per individuare il punto da sanare che è lì visibile e aspetta solo la cessazione di queste oscenità. Le persone scappano dalle guerre, dalla povertà, da condizioni esistenziali inaccettabili e ha il diritto di farlo, di migliorare la condizioni. Queste persone lasciano tutto per l’ignoto, per una fede in qualcosa che spesso idealizzano, il paradiso ci sarebbe, ma noi abbiamo deciso di chiuderlo, i porti sono chiusi. Noi abbiamo invece il dovere di accogliere, la xenia dovrebbe essere normale, la regola. Le migrazioni sono anche un fenomeno culturale, un fenomeno per ricongiungere i popoli, per riconoscersi attraverso le diversità. Questo lo spettacolo mette in scena con ironia beffarda e riso ammiccante. La fede, la necessità di poter cambiare di senso la torre di Babele, da monito di peccato a un peccato di ubris ancora maggiore, ma bello: la voglia di accogliere e comprendere il diverso. A noi non ci resta che avere fede nei pesciolini gialli: quando siamo tristi pensiamo a loro.

Emanuele Biganzoli

 

Testo e regia Fausto Paravidino
Ideazione Iris Fusetti e Fausto Paravidino
con Federico Brugnone, Iris Fusetti, Fatou Malsert, Daniele Natali, Tibor Ockenfels, Fausto Paravidino,
Aleph Viola
scene Yves Bernard
luci Pascal Noël
video Opificio Ciclope
costumi Arielle Chanty
maschere Stefano Ciammitti
musiche Enrico Melozzi
coreografia Giovanna Velardi
aiuto regia Maria Teresa Berardelli
Le Liberté, scène nationale de Toulon, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Il Rossetti Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, La Criée – Théâtre National de Marseille, Pôle Arts de la Scène
Les Théâtres de la Ville de Luxembourg

Il senso della vita di Emma

Chi è Emma? Si potrebbe rispondere in molti modi. Emma siamo noi, la nostra vita.  Emma è semplicemente la ragazza scomparsa. Ma è anche una figura astratta, tant’è che la vediamo solo alla fine. Permette la narrazione di una storia, crea dinamiche familiari, e trasforma i personaggi. Emma è un po’ vera e un po’ falsa.   Si potrebbe continuare a trovare altri significati. Ed facile che ci sovvenga  anche una seconda domanda: qual è il senso della vita di Emma? Niente di più sbagliato. Lo spettacolo non vuole essere incentrato sulla ricerca del senso della vita di Emma, o il senso della vita in generale.

Fausto Paravidino, attore, autore e regista, molto attivo nel panorama  teatrale italiano e internazionale, da gennaio di quest’anno Dramaturg residente del Teatro Stabile di Torino, scrive e mette in scena, interpretando anche uno dei personaggi, lo spettacolo Il senso della vita di Emma. Un romanzo teatrale in due parti, dove diverse storie e dinamiche familiari si intrecciano a piccoli cambiamenti di costume e di arte, sullo sfondo della storia grande; una storia che succede addosso ai personaggi, ma non motore della vicenda, a detta del regista.

Uno spettacolo che fin dall’inizio vuole rivolgersi direttamente al pubblico, dove i personaggi hanno bisogno di narrare la loro storia, per capire come mai Emma sia scappata. Infatti, la quarta parete sarà infranta ripetutamente. Padre, madre, fratello e sorella e gli amici racconteranno a tratti qualche spezzone della vita di Emma. Lo spettatore assiste ad  una storia di due  famiglie, dagli anni sessanta fino ai giorni nostri, da quando i genitori di Emma e i loro amici si sono conosciuti fino al ritrovamento di Emma. Classi sociali differenti, ma che si incontrano. Due coppie di amici che si accorgono che è arrivato anche per loro il momento di crescere e assumersi responsabilità: da una parte Carlo (Fausto Paravidino) e Antonietta (Eva Cambiale) e dall’altra Giorgio (Jacopo Maria Bicocchi) e Clara (Marianna Folli). La prima coppia, un uomo semplice dedito ad impagliare gli animali e una professoressa di lettere un poco svampita; la seconda, una donna pettegola e isterica, che scarica le sue frustrazioni sul compagno, un letterato per bene, che si fa mettere i piedi in testa dalla compagna accettando la situazione.

I problemi giungono quando nascono i primi figli di Carlo e Antonietta: Marco, il maggiore (Gianluca Bazzoli) sempre in crisi con la propria identità, scoprendo in seguito di essere bisessuale, e vittima degli scherzi della sorella Giulia, la stronza (Angelica Leo). Impreparati a gestire i propri figli, i problemi si trasferiranno anche sugli amici: questi, stanchi del fatto che l’altra coppia ha scelto di avere figli, forse anche invidiosi, decidono di non frequentare più Carlo e Antonietta. Il punto di svolta si avrà quando Antonietta rimane incinta per la terza volta. Tutte le frustrazioni della coppia saliranno in superfice: Carlo non riesce a vedere e capire le sofferenze della moglie e così quest’ultima decide di prendersi una pausa di riflessione e si trasferisce dagli amici, con cui si era riconciliata poco prima. Il padre dovrà occuparsi dei figli, o meglio dovrà imparare ad occuparsi di loro.

Emma che per più di metà spettacolo viene solo evocata a parole, finalmente entra in scena (era la bambina che aspettavano Antonietta e Carlo), prima come bambina neonata, poi cresciuta come una marionetta, una  bambola. Forse per accentuare il fatto che sono gli altri, i genitori e i fratelli che la dirigono nella sua infanzia, la manipolano a loro piacimento, oppure solo per mostrare che è un personaggio immaginario, finto, che rappresenta qualcosa in più della semplice Emma. Fatto sta che lei procurerà non pochi problemi alla famiglia. Crescendo parla poco, ha solo un’amica con cui condivide le sue stranezze e le sue avventure di ribellione contro un sistema sporco e radical chic.  A Londra fa irruzione con altre compagne in una galleria d’arte contemporanea, con una maschera di maiale sul viso e completamente nuda, per distruggere con un quadro una pecora, sezionata a metà, esposta come opera d’arte. Qui, come all’inizio dello spettacolo si vede tutto l’intento parodico su cosa ormai possa essere considerato bello e su cosa sia un’opera d’arte. Tutto può essere considerato opera d’arte? I cambiamenti di cultura e costume, vanno di pari passo con la crescita di Emma, come se lei rappresentasse uno spartiacque tra la cultura sessantottina dei genitori e quella successiva  dei figli, di lei, che deve fare i conti con l’eredità che i genitori le hanno lasciato: non a caso è nata il giorno del delitto  Moro.

Emma è compresa solo da Leone  (Giuliano Comin), figlio dell’altra coppia, di Giorgio e Clara. Lui, innamorato,  va a cercarla, ma sarà poi rifiutato da lei. Emma torna a casa, e si allinea al sistema : va a lavorare per un’industria che di ecologico non ha nulla e sposa Nello lo Splendido (Giacomo Dossi), un discotecaro bisessuale che la tradisce con la sua logopedista. Emma a seguito in un furto nell’azienda in cui lavora, scappa in Kosovo, per riapparire in un museo inglese dove è esposto il suo ritratto. Finalmente ha lasciato il suo corpo di marionetta e la vediamo come una persona viva (Iris Fusetti). Si è tolta la maschera, una maschera imposta dagli altri, da sé con le sue fughe i suoi atti sovversivi, una maschera per stare al mondo, in un mondo che fa marionetta e ti dirige? La maschera si è trasformata nel ritratto appeso al museo ed è per questo che lo vuole distruggere?  Sarà bloccata da Leone che si trovava lì per caso ad ammirare il quadro, o meglio ad ammirare Emma. Leone le fa capire cosa ha sbagliato in tutti quegli anni di fughe di comportamenti ingrati, ma lei continuerà a sentirsi disadattata, vuole ma non riesce a trovare una sua identità, a piacersi. Colpa degli insegnamenti sbagliati, o meglio delle mancanze dei genitori? Forse. Leone e l’artista del quadro le fanno capire che la persona raffigurata nel quadro è si lei, ma rappresentata dal punto di vista dell’artista, e così il quadro rimane lì. Non dobbiamo aver paura di come ci raffigura la società ed essere noi stessi?

La chiusa finale è un piccolo gioco sul teatro, dove la storia di Emma è un po’ vera e un po’ no come il teatro, per usare le parole del regista. E qui sta il senso di chi sia Emma, una figura che esiste, che si porta dietro problemi, fa evolvere le vite degli altri personaggi e si immerge nei cambiamenti culturali, ma che allo stesso tempo è una marionetta, è finta. Emma siamo noi, è la nostra vita, così si chiudeva la prima parte.

Fausto Paravidino non vuole dare un senso ultimo allo spettacolo, ma lascia libera interpretazione allo spettatore. Non vuole neanche fare una critica alla società post-sessantottina che si trasforma, a costumi che cambiano velocemente, pur inserendo commenti parodici verso l’arte e una storia che c’è come sottofondo.

Ma se si vuole appagare la nostra ricerca a dare senso ad ogni cosa, si può trovare un possibile significato dello spettacolo parafrasando le battute di Giorgio. La vita magari non è quella che ci siamo sognati, va così. Ci sono momenti belli e altri invece di meno, ma l’importante è esserci, vivere.

Uno spettacolo da tutto esaurito pure alla penultima rappresentazione. Un pubblico però che abbocca più facilmente alle battute volgari. Altre scene potevano meritare di più la risata, ma hanno avuto meno applausi. Uno spettacolo quindi comico, ma con venature drammatiche che si diramano attraverso le crisi di queste persone, il tutto per dare uno spaccato particolare, ma abbastanza probabile di due possibili famiglie.

Uno spettacolo forse troppo didascalico. Dove a volte le azioni compiute, che si sovrappongono alle parole, suscitano la risata, o sono costruite molto bene per aumentare il senso di quello che si ascolta, altre volte questo risulta troppo pesante e scontato.
E un finale in cui tutto si fa troppo dilatato e prolisso. Ci riferiamo soprattutto all’incontro tra i due giovani al museo.
Invece, punto di forza sono le scene corali, costruite molto bene dal regista e dagli attori. Un gruppo di ben 12 attori, con a “capo” Fausto Paravidino che fa da punto focale di queste piccole coreografie, anche nei momenti in cui in scena gli attori sono solo una parte. Sul palcoscenico lo si sente e lo sentono anche gli altri attori, come se si nascondesse dietro ai suoi personaggi per far da base, da spinta per far risaltare di più i suoi compagni/personaggi.
Uno spettacolo che seppur con qualche caduta è divertente e abbastanza riuscito. In un microcosmo dove esistono problemi, si deve vivere un po’ giocosamente, prendere coscienza di sè e cercare di non morire democristiani.

Emanuele Biganzoli

Produzione: Teatro Stabile di Bolzano e Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale

Di Fausto Paravidino

Regia: Fausto Paravidino

Con: Eva Cambiale (Antonietta), Fausto Paravidino (Carlo), Marianna Folli (Clara), Jacopo Maria Bicchiere (Giorgio), Gianluca Bazzoli (Marco), Angelica Leo (Giulia), Sarà Rosa Postilla (zia Berta), Giuliano Comin (Leone), Veronika Lochmann (Ingrid), Emilia Pizza (Genziana), Maria Giulia Scarcella (dottoressa Forlì), Iris Fusetti (Emma), Giacomo Dossi (Nello, lo splendiso / don Mario).

Scene: Laura Benzi

Costumi: Sandra Cardini

Luci: Lorenzo Carlucci

Musiche originali di Enrico Melozza, eseguite da Orchestra Notturna Clandestina, diretta dall’autore

Maschere: Stefano Ciammitti