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La Ragazza sul Divano- Jon Fosse

Coinvolgente, appassionante, struggente, queste sono le parole che vestono perfettamente la pièce teatrale La ragazza sul divano, nata dalla penna del premio Nobel Jon Fosse e portata in teatro da Valerio Binasco. La scenografia è stata sapientemente studiata e disposta in modo da trasportarci, con gli stessi personaggi, nella quotidianità di una donna sola, colma di rimpianti e di rimorsi. Uno spettacolo per questo che permette allo spettatore di muoversi con uno sguardo, nella sottile linea del tempo, tra passato e presente. Il dolore, la paura, la solitudine, sentimenti forti e imponenti, i quali governano la scena senza timore alcuno, risuonando in ogni battuta e in ogni gesto. Il gesto teatrale accompagna perfettamente la drammaturgia, le scene che si susseguono mi appaiono dinamiche e connesse: sono rimasta catturata e assorta da un immenso dolore che ho in qualche modo compreso e che avrei, senza dubbio, voluto consolare. Si tocca la sensibilità dello spettatore, si instaura in esso un’importante consapevolezza, quella che ci permette di prendere atto che tutto passi, la gioventù, gli amori, perfino i legami più forti, tutto finisce e tutto ricomincia, in un circolo continuo, quello della vita, che in questo spettacolo ha le sonorità di You don’t own me di Lesley Gore:

You don’t own me

Don’t try to change me in any way

You don’t own me

Don’t tie me down ‘cause I’d never stay

I don’t tell you what to say

I don’t tell you what to do

So just let me be myself

That’s all I ask of you

I’m young and I love to be young

I’m free and I love to be free

To live my life the way I want

To say and do whatever I please

Il grido di una libertà perduta, storie di scelte sbagliate e anime ingombranti, la storia di una ragazza che tutta la vita ha passato “seduta sul divano”, senza essere capace di reagire alle difficoltà, la cui unica consolazione diventa la pittura dei suoi quadri: “se non stai attenta, si prendono tutto lo spazio, non perché siano belli o brutti ma perchè sono quadri”, tele macchiate di colori che colano come sangue dalle ferite, colori che escono dal loro confine incontrollati, senza senso, come la vita di questa donna a cui non è rimasto NIENTE. Niente è una delle parole chiave di questa pièce teatrale, cos’è il “niente”, cosa significa, perchè niente? Forse si riferisce ad un’anima persa che non sa più come ritrovarsi e che non ha più nessuno che possa aiutarla a farlo. “Tu non mi possiedi” dice la canzone “sono giovane e amo essere giovane, sono libera e amo essere libera, lasciami vivere come voglio”, parole che vibrano nel cuore dello spettatore con la stessa intensità che la voce dell’attrice principale, Pamela Villoresi, esprime nel suo urlo di disperazione finale. Una donna abbandonata e che abbandona, una donna a cui è rimasto un padre la quale unica costanza è stata l’assenza nella sua infanzia, una figura paterna ormai anziana e sola a cui lei stessa si appoggia, in quanto figlia, che seppur adulta,  possiede ancora l’ingenua anima di una bambina, la cui innocenza si riflette nel bisogno di cura, nella ricerca di attenzione, nella volontà di riparare la propria anima rotta, ricominciando da capo, dal suo primo e significativo abbandono, quello del papà. La trasgressione che incoraggia la colonna sonora viene incarnata perfettamente dalla sorella della protagonista, la sua libertà si traduce nella nudità scenica, una nudità ricercata, necessaria? Forse no, ma la mancanza di senso, talvolta, regala attimi di normalità. Tanti sono infatti i momenti imbarazzanti interpretati nelle scene, tanto imbarazzanti da essere realistici, attimi che si sono colorati di uno humor sottile e familiare. Le interpretazioni degli attori evidenziano una coerenza tra un personaggio e l’altro, il file rouge della trama è scorrevole e seppur complesso nella costruzione, di facile comprensione, chiaro ed impattante. Un vinile su un vecchio giradischi suona, sopra di esso un piccolo vasetto con un fiore: scena finale, un’immagine delicata che esprime l’essenza di questo dramma musicale. L’armonia della vita è stata perfettamente rappresentata da un’armonica successione degli eventi, spingendo gli spettatori a riflettere sul proprio passato, sul proprio presente, sulle proprie scelte e soprattutto sul significato del “Niente”.

Rossella Cutaia

Intervista a Valerio Binasco

Parlare di se stessi

Attore e regista, Valerio Binasco è uno dei maestri del teatro contemporaneo italiano. Spesso porta in scena testi già nel loro significato più profondo attuali, ma riesce a volte a donargli delle tinte ancora più presenti, che fanno sembrare Amleto “quello della porta accanto”. Il suo doppio lavoro lo stimola a parlare molto con gli attori, facendoli diventare registi dei loro personaggi. Alla base di tutto, ed è anche quello che cerca di trasmettere agli attori, sono una forte emozione ed empatia, che gli permettono di studiare il personaggio partendo dalla domanda “come si sente?” per poi andare nelle parti più oscure del proprio essere. Per lui un attore che resiste alle emozioni è un cattivo attore. L’importante è non scadere in quella che definisce la pratica della “pornografia del dolore”. Non crede di avere la passione per il teatro, ma di essere un appassionato di questa “strana arte” che gli permette di fare il teatro.

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TST – Aspettando la nuova stagione riflessioni su quella passata

Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo

(da Anna Karenina di Lev Tolstoj)

Nella scorsa stagione del Teatro Stabile di Torino abbiamo assistito a diversi spettacoli che hanno avuto al centro rapporti familiari, ovviamente quasi sempre conflittuali. Del resto si dice che non sia possibile raccontare una buona storia senza un buon “conflitto” e quale contenitore migliore se non quello della famiglia, per generarne di enormi e sorprendenti. Lo avevano capito molto bene i greci che da “divini” conflitti familiari hanno fatto scaturire l’intera esegesi dell’umanità.

Tra i rapporti familiari più complicati, e probabilmente per questo di maggiore interesse, rimane il più ancestrale tra tutti, quello tra genitori e figli. Ed è proprio questa la relazione al centro dei due spettacoli che vorrei provare a mettere a confronto: Da lontano – chiusa sul ripianto monologo/dialogo scritto e diretto da Lucia Calamaro e interpretato dalla brava Isabella Ragonese; e il ben noto testo di Euripide Ifigenia, uno spettacolo corale diretto e interpretato, tra gli altri, da Valerio Binasco nel ruolo di Agamennone.

Partiamo subito dal riconoscere che entrambi questi spettacoli sono animati da rapporti familiari conflittuali, che sono in realtà il pretesto attraverso il quale si svela una tematica più profonda che è il vero minimo comun denominatore delle due pièce: “la condizione femminile devastata da una società oppressiva e giudicante”, come si legge nella stessa nota dello spettacolo Da lontano. Di particolare interessante è il modo che hanno trovato i due registi di mettere in scena questo tema perché risulta perfettamente identico nella sua specularità. Del resto stiamo parlando di due punti di vista completamente e inevitabilmente diversi, quello maschile di Binasco e quello femminile di Calamaro. In un viaggio che procede dall’interno all’esterno, dal privato al pubblico per quel che riguarda il punto di vista maschile; dall’esterno all’interno, dal pubblico al privato, per quel che riguarda il punto di vista femminile. Dove ragioni pubbliche hanno la meglio sull’animo maschile e ragioni private su quello femminile.

Da lontano – chiusa sul ripianto, nonostante racconti una storia contemporanea, un dramma intimo che riguarda la relazione tra una madre e una figlia, in realtà come abbiamo detto, pone l’accento sulla condizione femminile come qualcosa, come dice lo stesso titolo, che arriva “da lontano”. Un retaggio che troviamo già nei miti greci, in pensatori come Aristotele o in drammaturghi come lo stesso Euripide, ed è proprio in questo che i due spettacoli rivelano un’identica sostanza.  Ma Calamaro parte da un “oggi”, che è ben rappresentato da quel male simbolo della società contemporanea: la depressione, per arrivare a un passato atavico, quel “lontano”, padre di un condizionamento sociale, culturale che è arrivato immutato fino a noi. Un passato che ha avuto come conseguenza estrema l’accettazione, per non dire la pretesa, della sempre totale disponibilità del sacrificio della donna per gli uomini. Nella stessa nota già citata si legge di un “monologo […] sul mondo femminile devastato da una società […] che impone alla donna ruoli limitanti, nei quali ci si sente in trappola fino a non riconoscersi più…”, sottintendendo un andare in pezzi, uno “smembrarsi” o un essere smembrati come atto dovuto (inevitabile non pensare a Ifigenia).

Dal canto suo Binasco proprio nell’Ifigenia procede in maniera inversa, ovvero parte da una storia “lontana”, con il fardello di aspettative formali che una scelta del genere comporta, come scrive lui stesso nella nota di regia, ma “prendendosi la responsabilità” di raccontare, da uomo contemporaneo, con una sensibilità contemporanea, una storia che vuole essere contemporanea. Sempre nella nota di regia si legge infatti:

“Grazie al fatto che sono un uomo del mio tempo che del suo tempo vuole parlare, ho invece ben presente soprattutto la concretezza psicologica contenuta in questa antica favola tragica, e voglio assumermi tutte le responsabilità nel tutelare questa sensibilità contemporanea, essendo in qualche modo certo che la nostra condizione umana è sempre e comunque illuminata dalla rappresentazione mitica…”

Quindi da un lato abbiamo Binasco che mette in atto un processo attraverso il quale tende a smitizzare la “favola tragica”, proponendo, attraverso quella “concretezza psicologica”, non archetipi, modelli, con cui siamo abituati a confrontarci quando ci accostiamo al mito ma complessi esseri umani con tutte e in tutte le loro sfaccettature. Dall’altro in Da lontano avviene il processo inverso grazie al quale, più che ricorrere a una “concretezza psicologica” si ricorre a una “concreta analisi psicologica” che tenta di sciogliere quella complessità dell’essere umano per trarne modelli, archetipi, più facilmente riconoscibili, che possono essere più facilmente compresi, ascoltati e per questo perdonati. Viaggi diametralmente opposti che da un lato portano verso la malattia, la schiavitù, l’impossibilità di liberarsi dalle proprie uniche e specifiche passioni, senza la pretesa di essere un modello, un viaggio anti-catartico da un lato (in questo consiste la demistificazione di Binasco) e dall’altro un viaggio che porta, all’opposto, ad una salvezza, una guarigione che scaturisce proprio dall’analisi di una mente lucida e razionale che guarisce nel momento in cui riesce a liberarsi da quel groviglio di passioni che gravano come ipoteca del passato sul cuore di una donna (intesa come archetipo).

Dal punto di vista della messa in scena anche qui scelte simili, all’insegna della semplicità e del togliere. In entrambi i casi, scene e costumi dalle linee pulite, pochi gli oggetti di scena, pochi i colori e tutti molto tenui e neutri con alcune eccezioni studiate ad hoc, anche se in Binasco assistiamo a un rigore maggiore nella scelta di far persino a meno del palco che se da un lato risulta coerente con quest’ottica della sottrazione, dall’altro è decisamente in linea con secoli di tradizione tragica. L’azione infatti è collocata al centro di un grande spazio rettangolare, il pubblico è distribuito su spalti laterali che costeggiano i lati più lunghi di quello che è a tutti gli effetti un teatro di posa ridotto all’essenza, “spoglio di richiami visivi fini a sé stessi” come dichiarato nella stessa nota di regia. Questo spazio vuoto viene attraversato dai molti personaggi che lo riempiono con i loro stati d’animo che contengono già dall’inizio quel pathos, quel “dolore estremo” in un viaggio che come abbiamo visto procede da uno spazio interno-privato, l’intimo dell’animo di Agamennone, a uno spazio esterno-pubblico che trova la sua massima platealità in quell’urlo silente di madre.

Anche in Da lontano abbiamo la voce silente di una madre, una madre che non vediamo mai ma che incombe più di un personaggio in carne e ossa e che vive in quell’unica figura presente in scena, quella della figlia, che sembra in grado, proprio perché modello/archetipo, di riflettersi e moltiplicarsi. Perché in questo processo di analisi, quell’unico personaggio in scena, per potere essere compreso, e nello stesso tempo per comprendersi, deve essere scomposto. Su questa figlia grava una sorte analoga a quella di Agamennone: vivere “quel dolore estremo” all’infinito, perpetuato dal senso di colpa di non essere riuscita, per motivi del tutto diversi da quelli di Agamennone, a salvare la persona amata. Ma mentre la figlia di Da lontano, in quanto bambina, non aveva né il potere né i mezzi per salvare la madre e una volta che comprende questo si perdona e guarisce, Agamennone al contrario ha sia il potere che i mezzi per salvare Ifigenia ma sceglie di non farlo condannando sé e la sua famiglia alla dannazione eterna.

In entrambe le storie viene sovvertito l’ordine naturale delle cose in cui, almeno fino a un certo punto della vita, dovrebbero essere i genitori ad aiutare e a prendersi cura dei figli fino a che non si arriva ad un momento in cui questi ruoli tendono ad invertirsi.

Inoltre, per tonare al tema più profondo, se è vero che ogni famiglia infelice è infelice a modo suo è altrettanto vero che nonostante il passare dei secoli e i molti diritti conquistati, la donna, ancora oggi, rimane pesantemente e inesorabilmente sacrificabile.

Nina Margeri

ORESTE – VALERIO BINASCO

In chiusura della stagione 2021/2022, in uno spazio quasi ultraterreno, dall’aspetto infinito, assistiamo a un esperimento (estremamente ben riuscito), intitolato Ifigenia e Oreste, scritto, diretto e interpretato da Valerio Binasco. Un adattamento quasi atemporale di due delle più grandi tragedie mai scritte, analizzate in chiave squisitamente moderna, ma pur sempre universale. Un progetto che sembra farsi pioniere, sotto ogni punto di vista, di un nuovo modo di fare teatro, di un nuovo modo di raccontare.

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SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE – VALERIO BINASCO

Con un grande rito preparato con dedizione, all’insegna dell’imponenza del teatro, Valerio Binasco torna a bussare, dopo due anni, quasi inevitabilmente, alla porta di Shakespeare. Come sempre, le produzioni di Binasco si presentano al pubblico con grande maestosità, come una gigantesca macchina che gira da sola, spinta da un demone che si diverte a giocare con attori e storie.

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rumori fuori scena

Apre la stagione del Teatro Stabile di Torino Rumori fuori scena, cult comico di Michael Frayn che svela i meccanismi
che si celano dietro al funzionamento della macchina teatrale: fulcro della vicenda sono le difficoltà della messa in scena del
testo e le rocambolesche dinamiche relazionali che intercorrono tra gli attori .
La prima rappresentazione avviene a Londra nel 1982, trasformandosi in un successo internazionale che
troverà spazio l’anno successivo anche in Italia (Roma). Il testo è stato soggetto anche ad un adattamento cinematografico nel 1992 dal titolo Noises off.


Con questo spettacolo torna sul palco Valerio Binasco, direttore artistico dello Stabile di Torino, dopo un periodo di assenza dedicato unicamente alla regia.
Paradossalmente, il suo ritorno come attore avviene nel ruolo di un regista che allestisce una pièce teatrale: Rumori fuori scena è infatti una commedia metateatrale , di teatro nel teatro, che mette in
scena le vicissitudini di una compagnia teatrale durante le prove e l’allestimento dello spettacolo “nothing on”- “niente addosso”.
Binasco, nei panni di attore- regista (sia nella vita che sulle scene), dirige una commedia divisa in tre atti: allestimento, debutto e tournèe. Il pubblico sbircia dietro le quinte della rappresentazione e nella vita degli attori, tra i loro desideri e le loro rivalità: un dietro le quinte che si manifesta come mondo opposto e speculare a quello in cui siamo abituati a vivere.


Il target a cui aspira è quello della commedia all’ italiana: Rumori fuori scena è il suo tentativo di ricreare la comicità delle sitcom americane, parlando però di teatro e, nello specifico, di teatro nel teatro. Il teatro come luogo di narcisismi e controversie, come luogo in cui verità e finzione si scontrano in una strana lotta
in cui il vero non esiste, e la leggerezza regna sovrana.


“Sembra che la missione poetica del teatro comico borghese sia quella di dare vita ad un mondo normale,
del tutto simile al nostro, ma dove il male e il peccato non appartengono al diavolo ma bensì agli uomini.”


Una “missione” che ha dentro di sé ben più del semplice e puro intrattenimento: una lotta contro la comune pesantezza del vivere. Rumori fuori scena incarna in questo senso le caratteristiche tipiche del genere comico borghese: la molteplicità di situazioni che si manifestano e si sviluppano durante lo spettacolo ci mostrano come il senso di colpa e di responsabilità siano del tutto assenti nella rappresentazione, nonostante i personaggi siano “ordinari” e perfettamente integrati nel mondo.
Binasco tenta così per una volta di di abbandonare i toni cupi a cui solitamente propende per dedicarsi invece ad una delle commedie più straordinariamente vitali ed esilaranti del teatro contemporaneo.

L’interesse di Binasco per il testo di Frayn nasce dalla volontà di parlare della vita degli attori, delle loro passioni: il suo è infatti un teatro d’attore, in cui si percepisce che il lavoro teatrale sia basato in gran parte sull’attore stesso. Il teatro d’attore come celebrazione dell’accadimento teatrale, dell’arte dell’attimo
presente. Sua intenzione è che lo spettatore nell’ascolto e nella visione dello spettacolo si “scomponga” e si chieda che cosa sta accadendo, senza lasciarsi trasportare dall’accadimento teatrale ma essendone fautore egli stesso.

Mentre gli spettatori entrano in sala, troviamo il sipario aperto con gli attori già in scena. Il pubblico si sistema, chiacchiera e prende posto noncurante del fatto che lo spettacolo sia in realtà già iniziato: gli attori recitano, quello che prende forma di fronte ai nostri occhi è già un accadimento teatrale. Si inserisce però un elemento tipico del teatro di regia, che si impone sull’attore: uno dei personaggi femminili ad esempio (Brooke) recita ugualmente le battute del copione nonostante la rappresentazione abbia preso una piega diversa e le parole abbiano perso di significato nel nuovo contesto in cui vengono inserite.

Il ritmo dell’azione teatrale sembrerebbe concitato, ma nell’apparente caos che il testo vuole portare tutto trova un suo posto (tutto tranne le sardine, che costituiscono l’unico inghippo che non trova incastro nella rete di meccanismi) e scorre senza problemi.
Binasco crea un congegno impeccabile di entrate ed uscite : una commedia fatta di porte, quasi musicale nel loro chiudersi e aprirsi continuamente, creando un dispositivo di ingranaggi che si muove in
maniera perfetta .


“ è una questione di ritmo, che è fondamentale in questo tipo di teatro. Produrre un effetto comico non
vuol dire per forza adattarsi ad un ritmo indiavolato.. ci sono anzi continue frenate di ritmo. Quando c’è
grande comicità il ritmo non accelera, si placa.”


Un riconoscimento va, oltre alla splendida elaborazione di Binasco, anche al lavoro sulle scene di Margherita Palli, che contribuiscono all’ eccellente riuscita dello spettacolo, e alla bravura degli attori che
riescono a destreggiarsi in un testo pieno di insidie e di complessi meccanismi.


Testo di Michael Frayn, traduzione di Filippo Ottoni
Regia di Valerio binasco
Scene: Margherita Palli
Costumi: Sandra Cardini
Luci: Pasquale Mari
Attori: Milvia Marigliano, Andrea Di Casa, Francesca Agostini, Nicola Pannelli, Elena Gigliotti, Fabrizio Contri,
Valerio Binasco, Ivan Zerbinati, Giordana Faggiano.
Teatro Stabile di Torino con il sostegno della fondazione CRT.

Ilaria Stigliano

Arlecchino servitore di due padroni – Valerio Binasco

Fazz umilissima reverenza a tutti lor siori.

Come Arlecchino fa il suo ingresso in scena in casa di Pantalone, così Valerio Binasco, Direttore artistico del Teatro Stabile di Torino,  con il suo  spettacolo Arlecchino Servitore di due padroni, si fa spazio con umilissima reverenza nel salotto dei registi che hanno portato in scena uno dei testi goldoniani più famosi.  Arlecchino è un servo che entra in una casa in cui si sta consumando una festa di matrimonio. Con umiltà si presenta , ma allo stesso tempo ha quell’aria spavalda, forse ironica di chi sa già che quella sua interruzione avrà delle conseguenze interessanti. Binasco dopo l’inchino ad un maestro come Strehler, lo saluta con un sorriso impetuoso sapendo di fare altra cosa.

foto di Bepi Caroli

Lo spettatore è disorientato, le sue certezze si dissolvono, affondato nella  danza macabra in cui i due sposi e gli altri personaggi presenti al matrimonio si esibiscono per festeggiare. Marionette, corpi quasi paralizzati a cui è permesso solo un movimento a scatti, lento. Una festa mortuaria, o meglio che nasce da una morte, quella di Federico Rasponi. La sua morte ha permesso il matrimonio tra Silvio e Clarice, ma ben presto questo matrimonio sarà paralizzato, bloccato dalla comparsa di un servo che vuole annunciare il suo padrone: Federico Rasponi. Non troviamo nello spettacolo la comicità, il gioco fisico, il lazzo di Strehler oppure il lavoro di destrutturazione della tradizione, spogliata dagli orpelli e attualizzata, di Antonio Latella. Binasco si allontana da tutto questo. Pur rispettando il testo goldoniano con poche aggiunte personali, rende Il servitore di due padroni, molto cupo, con una comicità velata di tragico. I lazzi distraggono dalla storia che sta avvenendo, allontanando lo spettatore. Quei pochi che mantiene non si prendono la scena, ottengono sì la risata, ma non sono mai fini a se stessi. Arlecchino non è la maschera su cui ruotano gli altri personaggi, ma un personaggio come gli altri. Una volta spostata l’attenzione sulla storia si può capire come questa sia una storia tragica. Binasco, come ha detto all’incontro di Retroscena dedicato allo spettacolo,  ha voluto come cuore narrativo l’incontro tra i due amanti. Una scena di grande potenza liberatoria, in cui i due amanti che pensavano che il rispettivo partner fosse morto, si incontrano e piangono dalla gioia. Già nello spettacolo La Tempesta il motore della storia erano due persone divise, che poi si incontreranno. Momento spesso relegato in secondo piano. Nell’Arlecchino, sono due le coppie che vengono separate dai genitori. Arlecchino si pone come elemento di disturbo, un personaggio molto tetro che fa disperare due persone, Beatrice e Florindo. Binasco parte dalla domanda “se questa storia fosse vera?”, per creare il suo spettacolo. Spettacolo che vuole mostrare la verità della drammaturgia goldoniana, perché tutto quello che accade è in quel testo e  non inventato dal regista.

Chi può essere Arlecchino in una storia vera, nella società contemporanea?  L’Arlecchino di Natalino Balasso è il vero Arlecchino e l’attore ci fa capire come questa figura non rappresenti solo un marito divorziato che ha bisogno di lavori, ma può anche essere una ragazza che ha un figlio e deve poter vivere. In questo sta tutta la tragicità, sempre attuale di Arlecchino. Natalino Balasso è stato scelto da Binasco perché, a suo parere, l’attore mostrava un’aria impaurita e tenera allo stesso tempo, con la capacità di essere comico suo malgrado.

foto di Bepi Caroli

Il teatro di Binasco è un teatro d’attore, un teatro che vive e si modifica in continuazione. La sua regia è molto influenzata dalla sua interiorità attoriale. Gli attori di questo spettacolo sono consapevoli che il loro lavoro sul personaggio non viene fissato e replicato sempre uguale, ma è in continua evoluzione, per arrivare a capire ogni sfaccettatura del personaggio che interpretano. Un ulteriore lavoro è condotto dal regista per dare tridimensionalità e non nascondere personaggi che ad una visione addormentata possono risultare secondari. Un esempio può essere Florindo, spesso relegato a semplice amante di Beatrice: Florindo è un assassino che uccide Federico Rasponi per poter amare Beatrice, e questo suo lato tragico viene spesso sottolineato, un personaggio doppio, il tragico che si fonde nel buffo, come si può dire di tutto lo spettacolo.

È molto presente anche il tema della sopraffazione: padre-figlia, famiglia-coppia di amanti, padrone-servo. Siamo in un mondo in cui la donna ha bisogno di libertà, e questo risalta molto nello spettacolo. Qui le donne non hanno diritto di scelta e per ottenere quello che gli spetta devono camuffarsi da uomini, o chiedere al padrone il permesso. Binasco va in questa direzione fino a dove Goldoni lo permette, senza cadere in un dramma familiare. Lascia alla serva di Pantalone, Smeraldina, l’invettiva su la necessità di libertà da parte della donna e cerca di scuotere Clarice, proibendogli di continuare a far teatro per imporre i propri voleri e le scelte.

foto di Bepi Caroli

Uno spettacolo davvero riuscito. Non è mai facile riproporre un testo già affrontato ripetute volte in precedenza con intenti diversi anche secondo l’occorrenza dei momenti storici in cui veniva portato in scena, soprattutto se il confronto e l’immaginario collettivo porta subito a Strehler. Binasco non cade nella trappola didascalica o di omaggio al grande regista del passato, ma trova la sua strada. Una strada nuova, per ricercare la verità; la trova e ci mostra una storia cupa, tragi-comica di persone che in fondo cercano solo di amarsi o sopravvivere, ma che per farlo in una società in cui conta la pecunia o l’interesse privato, si uccide, si vende, o si mangia. Come all’inizio Arlecchino/ Balasso fa la sua comparsa in scena in punta di piedi, quasi non vorrebbe essere lì, vergognandosi, così alla fine sempre in punta di piedi chiede la mano di Smeraldina, senza esagerare sapendo che lui è un servo e sta chiedendo troppo. Lo spettacolo non ci dà risposte certe, non sappiamo se accettano la loro unione, forse possiamo immaginare che andrà così, ma non ci è dato saperlo. L’atmosfera cupa, accentuata dalla musica, è sempre in agguato anche in una delle scene più riuscite, quella in cui Arlecchino dichiara a Smeraldina il suo amore, con tutta la sua goffaggine buffa, una semplicità commovente. Ci sentiamo un po’ tutti Arlecchino e Smeraldina.  Già ci pregustiamo un finale romantico, dove alle due coppie si accosta un’altra, più semplice la loro, ma non sarà così. La festa c’è ma ci fa tornare in mente la danza macabra della festa iniziale.

Si ride notevolmente, ci si commuove, ma siamo subito portati con i piedi per terra perché intuiamo che c’è qualcosa che non va. Non ci resta che fare un umilissima reverenza a Valerio Binasco.

Emanuele Biganzoli

 

di Carlo Goldoni
con (in ordine alfabetico) Natalino Balasso (Arlecchino), Fabrizio Contri (il Dottore), Marta Cortellazzo Wiel (Smeraldina), Michele Di Mauro (Pantalone), Lucio De Francesco (servitore), Denis Fasolo (Silvio), Elena Gigliotti (Clarice), Gianmaria Martini (Florindo), Elisabetta Mazzullo (Beatrice), Ivan Zerbinati (Brighella)
regia Valerio Binasco
scene Guido Fiorato
costumi Sandra Cardini
luci Pasquale Mari
musiche Arturo Annecchino
regista assistente Simone Luglio
assistente scene Anna Varaldo
assistente costumi Chiara Lanzillotta
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
con il sostegno di Fondazione CRT

Una serata con Don Giovanni

Al Teatro Carignano di Torino, dal 3 al 22 aprile 2018, è andato in scena Don Giovanni di Molière, uno spettacolo in prima nazionale diretto da Valerio Binasco, al suo esordio come direttore artistico del Teatro Stabile torinese.

Arriviamo al Carignano. Cerchiamo il nostro posto. Ci sediamo e attendiamo l’inizio. Le luci si spengono: ci siamo! Il palco è illuminato da una candela in scena. C’è un telo scuro, semi trasparente. Attacca un arpeggio di chitarra. È Stairway to Heaven dei Led Zeppelin che accompagna la scena: Don Giovanni sta andando a caccia (di una donna). Lo scambio di battute è proiettato sul telo durante lo svolgimento dell’azione, quasi un omaggio al cinema muto.

Si tratta del prologo del Burlador de Sevilla di Tirso de Molina, primo ideatore di Don Giovanni. Un inizio interessante, anche perché estraneo – quasi fosse un frammento a sé stante – per scrittura, interpretazione, modalità, toni e musica al resto della commedia.

L’opera di Molière, suddivisa in cinque atti, narra le (ultime) avventure di Don Giovanni, seduttore seriale ante litteram, e del suo servo Sganarello, sempre al fianco del padrone in ogni nuova impresa e conquista: da Donna Elvira fino alle “contadinotte” Maturina e Charlotte. I due protagonisti sono costantemente in fuga dalle ire dei fratelli della prima e dal promesso sposo di Charlotte. Per trovare riparo e un po’ di riposo, si rifugiano per la notte in un bosco, in cui si imbattono dapprima nei già nominati fratelli e in seguito nella statua del Commendatore che tempo prima Don Giovanni aveva ucciso. Provocata da Don Giovanni che la invita a cena, la statua risponde positivamente e si presenta l’indomani per trascinare il seduttore impenitente con sé nel mondo dei morti.

Don Giovanni, interpretato da Gianluca Gobbi, è spogliato e rivestito di una contemporaneità lontana dalla tradizione letteraria francese seicentesca. I suoi punti di forza sono fisicità e voce, potenti come un tuono. E’ un’interpretazione, sia da parte del regista sia del protagonista, insolita, originale, estremamente viscerale e corporea. Don Giovanni è uno spietato cacciatore di prede, estremo nel concepire il contatto amoroso solo all’interno di logiche di puro consumo. E’ sposato sì, con tantissime donne in ogni città, ma l’unico vero rapporto di fedeltà è con il suo servo, interpretato da Sergio Romano, che lo segue dappertutto, facendosi trascinare da un’avventura all’altra e provando ogni tanto a farlo ragionare, come una moglie sensibile e pacata farebbe con il proprio marito.

Un altro tema fondamentale è il rapporto con la religione e con la morte (approfondito a più riprese con l’omicidio del Commendatore, interpretato da Fabrizio Contri che veste simbolicamente anche i panni di Don Luigi, il padre del protagonista). Don Giovanni si fa beffe di due delle esperienze che fondano ogni esistenza umana.

Non manca, inoltre, l’intenzione di richiamare la tradizione italiana, quella basata sui dialetti, in particolare per le scene nella locanda con i promessi sposi Pierrot (Lucio De Francesco) e Charlotte (Elena Gigliotti).

Le peculiarità del Don Giovanni contemporaneo affiancate alla tradizione dialettale e musicale che incontriamo all’interno dello spettacolo sono cifre stilistiche di un regista che ha come suo primo obiettivo la comunicazione con il pubblico. Parafrasando le sue parole nell’incontro di presentazione dello spettacolo nel ciclo Retroscena: a Don Giovanni, come a qualsiasi classico che si rispetti, piace emozionare ed essere aggiornato.

«Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire» – Italo Calvino, Perché leggere i classici

Federica Beccasio

Riccardo Ezzu

di Molière

con Fabrizio Contri, Lucio De Francesco, Giordana Faggiano, Elena Gigliotti, Gianluca Gobbi, Nicola Pannelli, Fulvio Pepe, Sergio Romano

e con Vittorio Camarota, Marta Cortellazzo Wiel

regia Valerio Binasco

scene Guido Fiorato

luci Pasquale Mari

costumi Sandra Cardini

musiche Arturo Annecchino

assistente regia Nicola Pannelli

assistente scene Anna Varaldo

assistente costumi Silvia Brero

Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Diario di una Tirocinate – Don Giovanni

Cari lettori, vi scrivo per raccontarvi un’esperienza unica!
Ho la fortuna di fare un tirocinio presso il Teatro Stabile di Torino, e non negli uffici, ma svolgendo un lavoro dall’interno di in uno degli spettacoli che si prospetta tra i più interessanti della stagione: Don Giovanni per la regia di Valerio Binasco. Subito dopo il primo incontro  con Valerio Binasco  in quattro e quattr’otto mi sono ritrovata al tavolo con tutti gli attori il primo giorno di prove.
Ufficialmente alle 14.39 di Lunedì 26 febbraio, si è partiti in q

13/03 Giornata di Memoria per tutti!

uesta avventura. I primi due giorni, siamo stati ospitati al Gobetti in sala Pasolini, perché alle Fonderie Limone faceva troppo freddo e nessuno si deve ammalare! Per me e la mia compagna di avventura ed amica, Giada, i primi giorni ci sono serviti per capire con chi avevamo a che fare, che tipo di lavoro sarebbe stato il nostro. Seppur un pochino spaesate, fin da subito Valerio ci ha integrato in tutto e per tutto nell’organico presentandoci a tutta la compagnia.
A metà settimana poi ci siamo spostati alle Fonderie, ed aspettando che la scenografia fosse pronta, gli attori hanno iniziato ad alzarsi dal tavolino e a provare con movimenti, in sala K.
E’ molto interessante vedere, giorno dopo giorno, come i personaggi prendono vita e ognuno degli attori ci mette se stesso. Binasco è molto attento a non togliere la naturalezza propria di ogni attore, e senza che vi sveli troppo, lo vedrete maggiormente nel secondo atto, che nel caso di alcuni personaggi è stato riscritto in dialetto.
I problemi ci sono stati in queste prime due settimane di lavoro, uno su tutti l’impatto con la scenografia: si tratta di una compagnia che in passato ha lavorato molto a tavolino e in movimento (provando e costruendo le scene in spazi più piccoli e creando insieme una scena collettiva che fosse la stessa nell’immaginario di tutti).
Questo maggiormente si è verificato per il secondo atto, ambientato in un piccolo Bar. Ogni attore vi vedeva un bar differente. Il problema ha trovato la sua soluzione quando gli attori si sono seduti e hanno raccontato cosa fosse per ciascuno quel luogo, spostando gli attrezzi di scena, vivendolo per davvero e affrontando lo spazio, senza paure.
Adesso si sta procedendo in maniera spedita a montare i vari atti, i costumi sono in via di rifinitura, le musiche sono sempre più precise e le luci vanno a scolpire i sentimenti dei personaggi.
Nel frattempo, noi suggeriamo, corriamo a destra e sinistra per fare in modo che non manchi mai nulla e scriviamo i vari rapporti di giornata.
Come sta andando, cosa sta succedendo….? Lo saprete tra una settimana.
Blogger in incognito, Elisa Mina