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GIULIETTA E ROMEO. STAI LEGGERO NEL SALTO – ROBERTO LATINI

Shakespeare arriva alla Casa del Teatro per Ragazzi e Giovani con Roberto Latini, in uno spettacolo intitolato Giulietta e Romeo. Stai leggero nel salto.

Latini non mette in scena la tragedia compiuta, ma allestisce un paesaggio poetico fatto di frammenti. Cinque quadri: l’incontro, il balcone, il matrimonio, l’alba e la cripta, gli unici in cui i due amanti si parlano direttamente.

La scena è minimale, con due microfoni, luci al neon e una scritta che brilla costante, Rose. Un vuoto essenziale, che trascina nello spazio dell’attesa.

È la voce penetrante di Latini, però, a imporsi all’ascolto e persino allo sguardo, più della luce al neon sul palco: non esiste un Romeo distinto da una Giulietta, perché entrambi già vivono nei versi. Il maschile e il femminile si intrecciano nella parola stessa, che lui attraversa senza mai fissarla in un’identità. La sua voce diventa corpo doppio che contiene entrambi gli amanti, accompagnati da una musica che sembra scandire il loro tempo insieme alla moneta di un jukebox.

Accanto a Latini c’è Federica Carra, presenza intensa e magnetica, che a sua volta recita i versi con profondità. È una voce autonoma, capace di creare un’intensità che si intreccia con quella di Latini senza mai confondersi.

Sul fondo scorrono i video di persone comuni che parlano d’amore nelle loro lingue. Confessioni brevi, intime, fragili, che sembrano tracciare il viaggio dell’amore dall’inizio alla fine. Le loro parole, i loro volti e i loro accenti ci ricordano che l’amore non appartiene solo a Romeo e Giulietta, ma a chiunque abbia parlato questa lingua.

Lo spettacolo si configura quasi come un dialogo tra mito e quotidiano, tra poesia e realtà. Non cerca l’esplosione della «passione», non mostra la morte, solo l’attesa di un gesto che in scena non avviene. Ed ecco che alla fine arriva il momento del salto evocato dal titolo. Un salto che lascia in bilico, che scuote, che resta a mezz’aria. E poi il buio, un buio denso che non è vuoto ma specchio: uno specchio che restituisce le immagini appena viste e le parole appena udite, e lo fa con il silenzio.

Emanuela Cerino

Compagnia Lombardi-Tiezzi
Drammaturgia e regia Roberto Latini
Con Federica Carra e Roberto Latini
Musiche e suono Gianluca Misiti
Luci e direzione tecnica Max Mugnai
Costumi Daria Latini

GIULIETTA E ROMEO. STAI LEGGERO NEL SALTO – ROBERTO LATINI

Alla Casa del Teatro per Ragazzi e Giovani è andato in scena lo spettacolo Giulietta e Romeo. Stai leggero nel salto, con e di Roberto Latini. Le poche righe di questo testo difficilmente riusciranno a restituire ai lettori il reale sentimento creatosi in sala.

Il superfluo è deliziosamente servito sul palcoscenico: led colorati, luci intermittenti, costumi, parrucche e oggetti di scena. La porta dell’immaginazione però, per spalancarsi, necessita di un’unica chiave: la voce di Roberto Latini. Ad occhi chiusi, finalmente, lo stretto necessario: musica e voce.

Le parole, scelte da Shakespeare e selezionate dall’attore, ci giungono come una traccia, ma è il modo, la temperatura e il colore della voce a consegnarcene tutto il senso.

La storia di Giulietta e Romeo prende forma anche attraverso le dichiarazioni di un gruppo di Millennials intervistati. Ciascuno nella propria lingua, perché di nazionalità diverse. Emergono problematiche e pensieri, dolori e guarigioni tipici del nostro tempo.

In scena Federica Carra stempera, diluisce, scioglie le tensioni create da Latini, favorendo il dialogo tra i due personaggi.

I momenti in cui Giulietta e Romeo sono soli e si parlano si esauriscono dopo alcune scene. Lo spettacolo si interrompe e finisce bruscamente. Nessuno dei due muore, ed è giusto così.

È come riemergere da un pensiero, con lo stesso imbarazzo che si prova quando qualcuno ti dice: “sembri distratto, mi stavi ascoltando?”. Come con forza il regista ci ha trascinati dentro, ora ci butta fuori. Avendo avuto l’immaginazione dalla nostra parte, ci siamo forse illusi di avere il controllo sulla storia. Abbiamo pensato di poterla dilatare e comprimere a nostro piacimento, di poter operare tutte le variazioni del caso. Invece siamo stati messi alla porta, con un mucchio di cose diverse da processare, alcune da tenere, altre da buttare.

Quindi mai sottovalutare qualcuno vestito di paillettes, soprattutto se si tratta di Roberto Latini.

Silvia Picerni

Compagnia Lombardi-Tiezzi
Drammaturgia e regia Roberto Latini
Con Federica Carra e Roberto Latini
Musiche e suono Gianluca Misiti
Luci e direzione tecnica Max Mugnai
Costumi Daria Latini

Lo spettacolo è parte del progetto Non Giulietta, non Romeo organizzato dal DAMS-Dipartimento di Studi Umanistici

LA VIE SÈCRETE DES VIEUX – MOHAMED EL KHATIB

Al Teatro Astra di Torino, il 15 e il 16 ottobre, per l’edizione 2025 del Festival delle Colline Torinesi, Mohamed El Khatib ha portato in scena La vie secrète des vieux. Frutto di quattro anni di ricerche condotte nelle residenze per anziani in Francia e Belgio, lo spettacolo fonde confessioni personali e ricordi con citazioni letterarie e una drammaturgia essenziale, restituendo al pubblico la verità di chi ha superato i settant’anni.

Sul palco sei anziani, una giovane operatrice e un moderatore hanno parlato senza esitazioni di ciò che di solito resta taciuto: la sessualità nella vecchiaia, l’eros che pulsa ancora quando il corpo si modifica, i desideri che si affacciano ostinati tra passioni sopite e fuochi accesi.

Non c’era nessuna barriera a dividere la scena dal pubblico. Solo uno spazio gentile, quasi domestico, con cinque sedie semplici, un tavolino imbandito con acqua e cibo e una pianta in un angolo. E quando gli interpreti hanno preso posto, il teatro si è trasformato in un luogo di incontro e all’improvviso la sensazione era quella di essere bambini nella casa dei nonni, immersi nella confidenza di un salotto pronto a svelare storie.

Da quel momento si è aperto un flusso continuo: confessioni, ricordi, rivelazioni. A colpire non era solo il contenuto, ma la libertà assoluta e la sincerità rara con cui è stato espresso.

Gli anziani parlavano con coraggio sorprendente, dando voce a ciò che tutti pensano ma che pochi osano rivelare e infrangendo tabù radicati da secoli. Raccontavano la loro prima volta, i desideri che li accompagnano ancora, i corpi che cambiano ma non cessano di esprimere bisogni. Condividevano fantasie audaci, il ricorso a particolari sex toys, la masturbazione, avventure improvvisate, perfino richieste di incontri occasionali. C’era chi elargiva consigli pratici con ironia divertita e chi, dopo una vita di silenzi, trovava il coraggio di un coming out tardivo, confessando amori mai nominati o accettati.

Il corpo che si crede spento rivendicava la sua vitalità, la sua fame di contatto umano. Forse la parte più sorprendente è che non erano loro a provare imbarazzo, ma i figli. Una delle interpreti, Sali, ha chiesto persino che lo spettacolo non fosse mostrato alla propria figlia. Come se la sessualità fosse un privilegio esclusivo della giovinezza. Come se i genitori potessero essere accuditi e dimenticati in una casa di riposo, ma mai riconosciuti come corpi vivi e desideranti.

Ma accanto al desiderio si stagliava timidamente l’ombra della fine, evocata con leggerezza e ironia continue. «Meglio morire in scena che in una casa di riposo», scherzava Jacqueline. Ed è stato inevitabile riconoscere, in quell’equilibrio fragile, l’abbraccio di Eros e Thanatos: il desiderio confessato con innocente audacia e la morte accennata con dolcezza, da chi sa che ogni sospiro potrebbe essere l’ultimo. Sul palco c’era un posto anche per le ceneri di un compagno recentemente scomparso, celebrate con una canzone di Rosa Balistreri, a ricordare che «parlare d’amore significa, inevitabilmente, parlare anche del lutto dei nostri amori».

Simone de Beauvoir, ne La terza età, denunciava l’invisibilità dei corpi anziani; qui, al contrario, quegli stessi corpi si mostravano con fierezza, reclamando il diritto di essere guardati al di là della loro età.

Guardandoli, è stato come se i sei anziani in scena avessero stretto un patto segreto con gli spettatori. In quello spazio così intimo, ogni parola diventava invito e condivisione, eco e resistenza. Era un modo per ricordare che l’amore e l’eros non appartengono a una sola stagione della vita.

Siamo stati travolti da una poesia autentica, fatta di citazioni di Musset e Racine, a cui si intrecciavano lettere d’amore lette ad alta voce, pagine di Shakespeare, canzoni che vibravano come confessioni. Il confine tra il vero e il finto svaniva fino a non avere più importanza: ogni parola era reale, perché detta con la forza della vita.

Così il titolo si è dissolto davanti ai nostri occhi, come neve che si scioglie al sole diventando acqua e poi luce. La vita segreta degli anziani non è mai stata un segreto: è un fiume nell’anima che riemerge, un giardino che rifiorisce, la vita stessa che torna a sorprenderci come un libro che, proprio quando crediamo di averlo finito, ci regala una nuova pagina.

Emanuela Cerino

Uno spettacolo di Zirlib

Concezione e realizzazione Mohamed El Khatib

Con, in ordine di longevità Annie Boisdenghien, Micheline Boussaingault, Marriecke de Bussac, Chille Deman, Martine Devries, Jean-Pierre Dupuy, Yasmine Hadj Ali, Nicole Jourfier, Salimata Kamaté, Etienne Kretzschmar, Jacqueline Juin, Annette Sadoul, Jean Paul Sidolle

Drammaturgia e coordinamento artistico Camille Nauffray

Scenografia e collaborazione artistica Fred Hocké

Video Emmanuel Manzano

Suono Arnaud Léger

Direttore di produzione Gil Paon

Produzione Zirlib

Coproduzione Festival d’Automne à Paris, Points communs – Nouvelle scène nationale Cergy-Pontoise-Val d’Oise, Théâtre National Wallonie-Bruxelles, La Comédie de Genève, Théâtre national de Bordeaux en Aqui-taine, Théâtre national de Bretagne (Rennes), Tandem Scène nationale d’Arras-Douai, MC2: Grenoble Scène nationale, La Comédie de Clermont-Ferrand Scène nationale, Théâtre Garonne Scène européenne (Toulouse), Festival d’Avignon, Théâtre du Bois de l’Aune (Aix-en-Provence), Équinoxe Scène nationale de Châteauroux, Théâtre de la Croix-Rousse (Lyon), La Coursive Scène nationale de La Rochelle, Espace 1789 – Saint-Ouen, Théâtre de Saint-Quentin en Yvelines Scène nationale, Le Channel – Scène nationale de Calais.

Accoglienza in residenza Le Mucem – Marseille, CIRCA La Chartreuse

IGIRL- FEDERICA ROSELLINI

Noi, gli aborti di Dio

Eccoci qui. Noi. Gli aborti di Dio. Poche luci illuminano lo spazio che come una passerella sembra fare da ponte tra quello che siamo e quello che è stato di noi sin dai tempi più antichi. Infatti eccoci riuniti a rivivere tutte le tappe che hanno portato la specie umana, personificata in una donna, a diventare una creatura complessa come la conosciamo oggi. I segni del passato sono tatuaggi cicatrizzati sul corpo dell’attrice come disegni del destino che inesorabilmente compie il suo corso. È impressionante la dolcezza con cui Federica  Rosellini li indossa, senza alcun tipo di giudizio né retorica. L’attrice si mostra nella sua semplicità di donna che ha vissuto sul suo corpo la storia di Antigone, di Edipo, di Giocasta, di Persefone, è stata una donna che perde suo padre, è stata un corpo sacrificato. La Rosellini diventa una bomba vivente portatrice dei traumi e delle catastrofi di tutti i tempi. Il suo corpo ricorda cosa significa essere stati un uomo di Neanderthal e ci mostra come quell’uomo  sia ancora inesorabilmente parte di noi e del nostro essere.  

Ogni persona che assiste a questa videocassetta live sulla storia dell’umanità è illuminata in controluce dando vita a una scenografia fatta di teste , anime che assistono a questo rito di autoriconoscimento.

La loop station in scena rimanda a un mondo in cui è lo stesso umano a creare la sua colonna sonora personale, fino a crearne una corale che accompagna e dà un ritmo al movimento del mondo.

La voce che sentiamo è sempre di questa donna che è direttamente collegata con la voce della Luna, con quella di nostro padre, quella della Terra, del ghiaccio, della sabbia dei tempi primordiali. La scienza e la poesia di Marina Car si intrecciano violentemente con la personalità artistica di Federica Rosellini. Lei porta una testimonianza, è la prova vivente che esistiamo, che le donne sono sempre esistite e il mondo non gli è mai appartenuto e probabilmente non gli apparterrà mai.

Eppure eccoci qua, tutti ad ascoltare lei, che con le parole scritte e tradotte da altre formidabili donne, si assume la responsabilità di incarnare l’umanità. Nonostante tutto.

Il teatro in cui ci troviamo sembra improvvisamente la scena di un mondo post apocalittico, in cui , prima di morire, l’umanità ha la possibilità di guardare per l’ultima volta quello che è stato e decidere come andare avanti. È emozionante il legame uomo-tecnologia-natura che emerge dalla relazione tra l’attrice e la sua gallina domestica. È reale il loro legame? O si tratta di un’illusione in cui l’attrice domina i movimenti dell’oggetto tecnologico nel ricordo di una natura che non è più?

Marina Car sembra volerci gridare che il nostro antropocentrismo è in rotta di collisione contro una natura più potente. Forse questo è un viaggio di ritorno alle origini come quello di Persefone che ciclicamente ritorna giù nel mondo dei morti, dichiarando che la sua assenza non è un fatto personale, ma genetico. È la nostra genetica che ci riporta a quello che siamo stati. Sento le mie costole aprirsi ed espandersi di fronte al corpo nudo della Rosellini che ai miei occhi si trasforma nel tenero corpo di un cerbiatto sacrificato. Non siamo altro che questo: cerbiatti sgozzati per volere di un dio. 

Irene Mori

di Marina Carr

traduzione Monica Capuani e Valentina Rapetti

performer e regia Federica Rosellini

video Rä di Martino

musica originale Daniela Pes

sound designer GUP Alcaro

costumi e tatuaggi Simona D’Amico

light designer Simona Gallo

scenografia Paola Villani

dramaturg Monica Capuani

aiuto regia Elvira Berarducci

assistente alla regia Barbara Mazzi

in collaborazione con Festival delle Colline Torinesi

coproduzioneTPE – Teatro Piemonte Europa, Teatro Stabile Bolzano, Elsinor – Centro di Produzione Teatrale

sostegno e debutto nazionale Romaeuropa Festival

diritti di rappresentazione a cura di THE AGENCY (London) LTD

Inside iGirl: iChick. Punti di vista semi-motorizzati

Non so dire con precisione se il primo momento in cui ho avuto un pensiero sia stato quando l’ultima componente è stata fissata e il cavo di alimentazione inserito in quello che altrimenti sarebbe stato un orifizio dedicato ai bisogni biologici. Poiché, se mi concentro e ricorro alla memoria, ho la nitida certezza di aver iniziato a percepire dapprima, vale a dire in fase di costruzione. Ricordo la sensazione delle lisce piume color crema e caramello venire pazientemente incollate al mio corpo semi-rigido. Posso richiamare alla mente l’ancoraggio del collo mobile e lo snodo di personalità che questa articolazione meccanica ha dato alla luce. 

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HISTORIA DEL AMOR – AGRUPACIÓN SEÑOR SERRANO

Affronta l’impossibile compito di capire cosa sia l’amore
Organizzereste mai un viaggio sapendo che non ha destinazione?
E chiedereste a trecento persone di salire su quell’aereo con voi?

Agrupación Señor Serrano con lo spettacolo di apertura del Festival delle Colline Torinesi presso TPE Teatro Astra ci propone un’esplorazione che nasce in silenzio. L’attrice in scena tiene lo sguardo fisso in camera e sul fondale viene mostrata la sua proiezione. Un volto innamorato, che sorride e non smette di guardare l’amante immaginato, sempre più vicino e poi dentro di lei. Iniziare a sentirsi in connessione con la protagonista della scena e percepire i propri muscoli del viso seguire il movimento dei suoi, per poi essere interrotti e riportati alla realtà da alcune domande pronunciate da una voce fuori campo: perché amiamo? E perché amiamo nel modo in cui amiamo? Quand’è emerso l’amore per la prima volta? Esisteva 100 milioni di anni fa?  

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MI PROMETTI UN BALLO ? – ERIKA DI CRESCENZO, SIMONA CECCOBELLI, AMALIA FRANCO

“Sia bella e che possa accogliere tutti
Mettila alta da poter far dire ‘Bellissimo sto pezzo! Che gruppo è?’
Ma non troppo alta, lascia che i vostri dialoghi
Non vengano coperti dagli assoli”
“Invita amici”, mi diceva, “Invitane tanti
Invita tutti gli amici che conosci
E poi, finita la festa, lascia che ognuno prenda la via che preferisce …”

FINITA LA FESTA – GIO EVAN

Provengo da una piccola città della toscana, definita da me il “paesone”. Vivendo e crescendo lì, ho imparato a comprendere i meccanismi interni di queste piccole realtà, dove tutto appare sospeso e fermo. Sono meccanismi in cui rientri se conosci determinati luoghi, determinate persone; nei paesoni il divertimento non è in piazza ma nei garage, nelle case in campagna, nelle mansarde, sul mare, vicino alle statue. Tutti luoghi privati e non.

La festa è qualche cosa di perfettamente artigianale, arrangiata a tratti, che ha l’unico obiettivo di far divertire. Un luogo di ritrovo per sfuggire dalla noia, per sentirsi meno emarginati da un centro che si propone invece di soddisfare i divertimenti di chi è fortunato a vivere in quei paraggi.

Se nelle piccole città, nei paesi e paesoni questo sentimento è meno sentito perché intorno non ci sono troppi riferimenti e vige la regola del ‘si fa quel che si può’; nelle città grandi è ben diverso, almeno per me. I quartieri marginali per me non sono altro che una trasposizione del “paesone”, ma lo vedo nettamente più sofferente perché sono parte di una città che li ignora. E quindi non resta che organizzare tutto come nei paesi, nel silenzio e quando irrompe un evento che è per tutti, quasi si rimane sorpresi.

Questa sorpresa l’ha regalata la performance Mi prometti un ballo ? di Erika Di Crescenzo, Simona Ceccobelli e Amalia Franco. Un accadimento che è riuscito a spezzare la sospensione del tempo di quel luogo, di quel silenzio e ha permesso di andare in un altrove con il ballo.

ACCADIMENTO

Tutto è accaduto nel piazzale di Officine Caos del quartiere Vallette. Un luogo ricco di energia, di obiettivi, di creatività che si trova collocato in un punto nel quale intorno troviamo tutto l’opposto: una scuola abbandonata, piccole vie cittadine che non sembrano percorse da anni e infine quel silenzio, quella sospensione quasi tombale.

Non appena si entra nel luogo performatico ciò che ci troviamo davanti non ci appare con una disposizione palco-platea bensì sembra di essere immersi in un contesto di sagra. Di fatto, non può sfuggire all’occhio la disposizione dei tavoli, che avvolgono lo spiazzo e rompono immediatamente l’idea, o il pensiero, di quarta parete, provocando fin da subito un’idea di familiarità. È come se questa organizzazione dello spazio rompesse fin da subito il modo di stare classico di un teatro, e aprisse invece un immaginario libero.

Inoltre lo spazio, oltre al piazzale, è quasi del tutto occupato con diverse azioni che generano una stratificazione. C’era chi giocava a palla nel campo di calcio, chi girava in bici, chi disegnava, chi accoglieva il pubblico e così via. Queste diverse attività, unito ad un’entrata del pubblico, ha generato un momento polifonico, già denso di azioni che scaturivano da un micro-sistema in formazione.

Al tavolo, avevi fin da subito la possibilità di interagire nell’accadimento, di esserne parte attraverso il disegno, ovviamente non c’era un compito da eseguire.

Riconoscere l’inizio è difficile, potrebbe forse collocarsi nel momento in cui un ragazzo con un microfono ha fatto il suo ingresso nel piazzale e ha iniziato a leggere un testo. Da lì sono iniziate diverse azioni di altri performer che portavano successivamente ad un inizio di danze condivise fra di loro. Dei balli che però seguivano dei codici di invito, di saluto e di condivisione; questo momento è stato fondamentale per educare il pubblico. Infatti, nel momento in cui è stato portato all’interno, sapeva già come agire.

Poco dopo questo coinvolgimento il luogo scenico è diventato vorace: il pubblico non era più confinato al suo ruolo ma si è prodotto uno sconfinamento, nel quale tutti sono tutto e il tutto si dissolve in un niente, in grado di rappresentare la possibilità di non aderire a strutture rigide, ma di reinventarle e modificarle. Così è stato anche per il posto che diventava man mano un tempo-altro, dove il quotidiano sembrava avvenire in un altro periodo ma dentro un atto nato come scenico. Era come se tutto diventasse performatico: per esempio l’angolo bar, in funzione di essere un punto ristoro, apriva a degli scenari che uscivano dalla sua finalità primaria.

Improvvisamente tutta questa libertà è stata infranta da un fischio, un ritorno a una struttura drammaturgica, a ruoli netti dove i performer agiscono e il pubblico resta seduto a guardare. Una realtà in cui il “fuori regola” non è più concesso. È proprio da questo ritorno che emergono le caratterizzazioni dei performer, dei personaggi, attraverso il come si ponevano di fronte a tale rigidità. Ed è così che subentra il ruolo del gioco, il quale man mano è riuscito a far tornare il tutto ad una complicità festaiola, eliminando la “disciplina”. In effetti, il finale si potrebbe ricondurre ad una glorificazione del calcio, uno dei giochi più praticati al mondo, oppure più direttamente ad una celebrazione del gioco, del desiderio di partecipare, di divertirsi, di condividere un tempo festivo.

Chiara Jadore Cacciari

Luogo Officine Caos

All’interno della rassegna di Officine Caos IL CORAGGIO DI ESSERE FELICI

All’interno del programma culturale TORINO, CHE SPETTACOLO! CHE BELLA L’ESTATE!

Spettacolo di Erika Di Crescenzo, Simona Ceccobelli, Amalia Franco

con Riccardo Ruggieri – musicista dj

Performer Complici:

Gianluca Bottoni

Renato Cravero

Roberto Montarulo

Luigi Piccarreta

Pietro Barbanente

Giuseppe Saccotelli

Ettore Bosco

Mirella Maruri

Margherita Fantini

Lina Maria Garcia Nino

Ornella Bavaro

Cristina Foti

IO SONO INVISIBILE – COMPLESSO POLAR

“Chi sono io?” È la domanda che tutti noi ci facciamo nel corso della nostra esistenza, ed è l’interrogativo al centro di questo spettacolo che con semplicità esplora le fasi di crescita dell’individuo, dalla nascita fino alla maturità. In linea con il tratto più sperimentale del Fringe Festival, la rappresentazione è caratterizzata da un aspetto improvvisativo, dettato dall’interazione continua tra i disegni di Stefano Matteo Porro e la musica dal vivo di Matteo Boglietti e Matteo Cicolin.

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XXX – PRESENTAZIONE DEL 30ESIMO FESTIVAL DELLE COLLINE TORINESI

Ormai un consueto ed importante appuntamento per la scena teatrale torinese, Il Festival Delle Colline compie quest’anno il suo terzo decennio di attività, confermandosi una presenza storica e un faro per il teatro contemporaneo, grazie al quale la città di Torino ha potuto assistere a lavori di compagnie locali e internazionali, abbracciando una pletora di generi che spaziano dal teatro di prosa alla performance più sperimentale. Anche stavolta la direzione del festival collabora in stretto contatto con il TPE e la Fondazione Merz, e proprio nei locali di quest’ultima ha avuto luogo giovedì 22 maggio la presentazione del nuovo programma a cura dei direttori artistici Sergio Ariotti e Isabella Lagattolla.

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IL MEDICO DEI MAIALI-DAVIDE SACCO, CON LUCA BIZZARRI E FRANCESCO MONTANARI

È sulle note di Lascia ch’io pianga del Rinaldo di Händel che si apre il sipario e ha inizio Il medico dei maiali di Davide Sacco, andato in scena a Torino dal 2 al 4 maggio al Teatro Gioiello.  Fin dalla prima scena, ogni dubbio viene risolto: partendo dall’epilogo, gli spettatori sanno che la pistola presente sul palco sparerà. La scenografia, raffinata ed essenziale, è dominata da una scritta in caratteri cubitali sul fondale: “THE KING IS DEAD”, un presagio che anticipa la trama. 

Durante l’inaugurazione di un hotel in Galles, il re d’Inghilterra muore improvvisamente. L’unico a poter constatarne ufficialmente il decesso è Alfred, un veterinario interpretato da Luca Bizzarri, che vede in questo evento l’occasione perfetta per convincere il principe erede Eddy, interpretato da Francesco Montanari,—un eterno Peter Pan che si presenta al capezzale del padre indossando una divisa nazista—a eliminare la monarchia e passare alla storia.

Tra le quattro mura di una stanza, intelligenza e stupidità si scontrano. Alfred, per quanto appaia il più lucido tra i presenti, commette un errore che si rivelerà fatale: sottovalutare il potere del dubbio. Instillarlo nella mente di uno stupido può essere pericoloso, perché potrebbe portarlo a realizzare di non esserlo affatto. Eddy, l’erede apparentemente sprovveduto, potrebbe rivelarsi tutt’altro. Il veterinario dimentica una verità fondamentale: “quanto faccia rumore una certezza che si rompe”, ovvero quanto sia impossibile prevedere le conseguenze di quando una credenza ben radicata viene messa in discussione.

In questo gioco di potere, anche i cortigiani, David Sebasti e Mauro Marino, responsabili della morte del re, perseguono il loro obiettivo: eliminare la democrazia. Il testo, che potrebbe benissimo essere la sceneggiatura di un episodio di Black Mirror, diventa così una riflessione contemporanea sulla politica e sui potenti che ci governano. Emerge però un interrogativo attuale: le rivoluzioni hanno ancora senso? 

I personaggi grotteschi che popolano questa storia, ricordano la celebre frase di Ennio Flaiano

Vogliono le rivoluzioni, ma preferiscono fare le barricate con i mobili degli altri.

Viviamo in un mondo in cui metà della ricchezza globale è concentrata nelle mani dell’1,5% della popolazione, spesso per eredità o potere monopolistico. E allora, viene spontaneo chiedersi: E se fossi stata io Alfred? 

Non avrei tentato anche io di ribaltare il sistema? Non avrei cercato di sovvertire un ordine ingiusto e non meritocratico, dove alcuni ottengono tutto senza sforzo, mentre altri, per colpa di chi li governa, non avranno mai nulla, nonostante ogni sacrificio? 

Io ho scelto da che parte stare. Ora tocca a te.

Sofia De March

Testo e Regia: Davide Sacco  

Aiuto regia: Claudia Grassi

Protagonisti: Luca Bizzarri e Francesco Montanari

Attori: David Sebasti e Mauro Marino

Scene: Luigi Sacco

Costumi: Anna Maria Morelli

Luci: Luigi Della Monica

Musiche: Davide Cavuti

Testo vincitore del Premio Nuove Sensibilità 2.0 2022