Mercoledì 29 novembre 2017 al teatro Gobetti si è tenuto un incontro del ciclo Retroscena diverso dagli altri: ospite non era una compagnia teatrale, ma l’Università di Torino che in collaborazione con il Centro Studi del Teatro Stabile di Torino ha presentato il volume Il laboratorio di Lucio Ridenti. Cultura teatrale e mondo dell’arte in Italia attraverso “Il Dramma” (1925-1973). Erano presenti i docenti curatori del volume, cioè Federica Mazzocchi, Silvia Mei e Armando Petrini, accanto al professor Franco Perrelli e a Pietro Crivellaro, quest’ultimo per molti anni direttore del Centro Studi e figura fondamentale per la valorizzazione del patrimonio archivistico legato a Lucio Ridenti. Il volume è il risultato di un convegno promosso dall’Università e dal Centro Studi nella primavera del 2016.
L’incontro è cominciato con un intervento di Pietro Crivellaro, che ha offerto una breve, ma dettagliata analisi della figura di Lucio Ridenti, nato a Taranto e trasferitosi poi nel 1925 a Torino, dove passò gran parte della sua vita.
Pioniere della radio e della televisione, fotografo, protagonista della vita mondana, attore ma anche scrittore e giornalista. La sua carriera nasce con una serie di libri di successo negli anni venti che analizzano e descrivono il mondo teatrale, ma raggiunge l’apice con la fondazione nel 1925 del periodico “Il Dramma” con Pitigrilli. Scrive anche per la “Gazzetta del Popolo” e poi per il “Radiocoriere”; da ricordare è anche la fondazione negli anni quaranta della rivista di eleganza femminile “Bellezza”.
E’ seguito poi l’intervento di Franco Perrelli che ha cominciato a descrivere, anche attraverso ricordi ed esperienze personali, le forti differenze esistenti fra i due principali punti di vista dell’epoca di cui erano portavoce due importanti riviste “Il Dramma” e “Sipario”.
Vengono citate figure vicine agli ideali di Ridenti come Bragaglia, sostenitore dell’attore italiano che improvvisa e ha un’esperienza che non può essere diretta dalla regia, ma anche più distanti come D’Amico, che voleva invece un regista che rispettasse i testi e che fosse in grado di tenere a freno l’attore.
Armando Petrini ha analizzato la figura di Ridenti in particolare nel suo ruolo di critico, molto affascinato e interessato all’attore e alla recitazione, per un motivo anche biografico, pur non essendo mai stato un vero teorico. Viene poi sottolineato come nei suoi lavori non sia presente solamente una certa nostalgia e volontà di recuperare qualcosa che sta morendo, ma un’attenzione nei confronti della storia del grande attore e della figura dell’autore-attore e attore-direttore.
Federica Mazzocchi ha proseguito descrivendo i carteggi con Paolo Grassi, Ivo Chiesa e Vito Pandolfi, sottolineando la ricchezza dei punti di vista e la schiettezza dei rapporti che ha sempre legato questi protagonisti della vita teatrale italiana. “Il Dramma” emerge quale rivista caratterizzata da una spiccata vivacità e libertà, all’interno della quale erano presenti numerose opinioni anche contrastanti fra loro e non un pensiero unico, soprattutto per quanto riguarda il tema della regia.
L’incontro si è chiuso con l’intervento di Silvia Mei che si è concentrato sul forte legame presente fra la figura di Lucio Ridenti, la moda e le altre arti, soffermandosi sulla raffinatezza con cui Ridenti concepisce “Il Dramma” soprattutto tipograficamente e sull’importanza dell’elemento visivo. Fortemente riconoscibile è l’approccio sintetico e trasversale rispetto a tutte le discipline, ma anche un forte umanesimo, un gusto per le immagini e per la cura nell’impaginazione. Da non dimenticare è la passione di Ridenti per la fotografia, alla quale si avvicinerà ancor prima del teatro e che lo accompagnerà per tutta la vita.
Dio è morto. Ma quale Dio? Nietzsche lo ha constatato. Tutto il nostro mondo, la nostra cultura deve fare i conti con questa morte. Noi tutti, figli di Cadmo, lo abbiamo ucciso e la modernità ha preso il sopravvento. Siamo in grado di contrastare la sua rabbia feroce? Il teatro è ancora il luogo dove un dio può prendere vita?
Dopo Fedra di Seneca, partendo dalla domanda “Chi è Dioniso?”, il regista Andrea De Rosa prosegue la sia indagine sui classici, mettendo in scena un adattamento della tragedia di Euripide, Le baccanti, in data 5 dicembre 2017, al teatro Carignano di Torino. Una produzione Teatro Stabile Torino, Teatro Stabile Napoli e Fondazione Campania dei festival.
Un linguaggio antico che parla alla nostra modernità, alle sue contraddizioni ed incongruenze. Il mondo di Tebe come metafora di una ipotetica metropoli di un mondo postmoderno, in cui si cerca di alienarsi dal mondo circostante, essere altro da sé.
Dioniso è colui che accompagna verso i confini dell’anima, confini che non si raggiungeranno mai. Spinge gli uomini ad abbandonarsi, a strapparsi di dosso la propria identità, costruita faticosamente. È un Dio portatore di doni: il vino, la droga, la danza, le allucinazioni, ma soprattutto il lenimento del dolore. Esperienze che vivono gli adolescenti. Per questo, Dioniso è un dio adolescente che si rivolge a loro. Gli adolescenti si trovano nella situazione di non sapere chi sono e in questa fase complicata, quel dio porta loro sollievo, unico modo per non sentire il dolore della crescita. Tematica più che attuale.
foto Marco Ghidelli
Dioniso è interpretato da una donna, l’attrice Federica Rosellini, già assistente alla regia di Luca Ronconi per Panico, attrice di molti spettacoli teatrali tra cui Santa estasi di Antonio Latella, e attrice di cinema premiata a Venezia. Una scelta che si è rivelata giusta. Si ha veramente la sensazione che Dioniso sia in scena. Capelli lunghi biondi che cadono sul seno coperto appena da una velo trasparente, e dei jeans scuri completano questo dio moderno che con la sua voce deve penetrare nelle persone, ammaliarle e comandarle verso l’irrazionalità più sfrenata. La scelta di Dioniso al femminile sottolinea meglio la natura bisessuale di questo dio e l’attrice riesce a condensare insieme la parte più femminea e fanciullesca del dio, con l’altra più violenta e feroce. L’insieme di questi due aspetti aumenta il livello di tensione erotica, che raggiunge il massimo grado nel rapporto tra Penteo e il dio. Un erotismo con una vena infantile, sì violento, ma anche ferito. Dioniso è un personaggio bestiale solo nella forma più genuina del termine: è stato strappato dal grembo materno e risente di questa mancanza.
Penteo allora è il suo doppio, con le sue ossessioni. Anche lui è privo della madre, Agave, preda di Dioniso, ormai a capo delle baccanti a condurre una vita istintuale e selvaggia. Sicuramente ha qualcosa di represso: tentato e pieno anche lui di Dioniso, vorrà vedere la madre posseduta. Penteo deve morire per aver osato mettersi contro il dio. Così questi lo punisce, ma non prima di avergli fatto provare l’abbandono dei sensi, l’irrazionalità, l’amore carnale, non prima di avergli fatto sentire chi è Dioniso. A interpretare Penteo è Lino Musella, non benissimo, perché viene accentuata troppo la parte influenzabile, corruttibile, repressa di un re che non sa fare il re, come se fosse un ingenuo che viene abbindolato dal primo venditore che vede. Manca, o meglio, è un po’ sbrigativa la congiunzione tra quando Penteo è un re che non vuole sottomettersi al dio, e quando invece cade preda di questi. Invece, reso molto bene da Dioniso-Rosellini l’atto di possedere il re, avvicinandosi lentamente e poi arrampicandosi con movimenti ferini sul trono per trasformarlo. Penteo in primis è un re di una grande città, Tebe, e per questo deve proteggerla dalla nuova “moda”, dal nuovo culto che si sta diffondendo a causa di Dioniso. Lui sa chi è, al contrario di chi ha perso coscienza di sé, è per questo è saldo, forte e non deve cedere al dio. Tuttavia, verrà anche lui ammaliato perché Dioniso agirà sul suo lato più insicuro, rivelando a Penteo il suo bisogno di perdersi. Tale passaggio poteva essere reso con più efficacia. Infatti, solo l’atto finale di questa trasformazione è reso bene, con Penteo che, vestito con abiti da donna, va verso la morte per la propria curiosità, mentre Dioniso, seduto sul trono di Tebe, osserva il suo prodotto e si prepara a finire la sua vendetta.
foto di Marco Ghidelli
Gli altri personaggi Cadmo e Tiresia, rispettivamente Ruggero Dondi e Marco Cavicchioli, sono due figure grottesche, due furbi. Il primo è pronto a trarre profitto da questo nuovo culto di Dioniso e il secondo è un opportunista. Incitano il popola a perdersi, e danzano mentre si compirà la tragedia. Sono dei finti folli contrapposti ai veri folli, come Penteo o la madre Agave, interpretata da Cristina Donadio. Una madre che uccide il figlio, posseduta dal dio, in una caccia di belve tra belve. Una testa cullata tra mani, trofeo di guerra, protetta e riconosciuta solo dopo il parto. Una madre che partorisce un figlio. Morto. Questo parto è un parto di Dioniso, del dio, un parto morto, una metafora per dimostrare come noi nasciamo già morti, ma anche metafora ribaltata della condizione di un dio che è morto. Un parto non molto chiaro nell’immediato, ma a cui una riflessione successiva contribuisce a dare forza espressiva e semantica. “Agave la si può immaginare come le ragazze madri, o le donne degli anni ’70, dove non c’erano limiti”, ci dice l’attrice Cristina Donadio. Alla fine, Dioniso dirà basta e tornerà al suo mondo selvaggio.I personaggi non hanno un carattere vero e proprio, sono follia, maschere. Dioniso offre a tutti la possibilità di mascherarsi. Non ci sono caratteri, ma solo corpi. Corpi seminudi, sporchi, insanguinati, vestiti con indumenti trasparenti e color carne altrettanto sporchi, tacchi al posto degli zoccoli: la natura selvaggia di questi corpi è evidente.
Lo spettacolo inizia con Dioniso che si presenta, mentre dispensa piacere con la sua voce ammaliatrice, come se fosse un cantante su un palco di un rave party mentre canta e urla in un escalation sempre più forte, e la sue baccanti ballano, perse, fino a che hanno forza. Dioniso è il marionettista che con la sua voce, il vino, la droga, fa danzare le sue marionette. In fondo al palco si intravede il rito, l’orgia in onore di Dioniso. Una parete fatta di casse acustiche rimanda la musica allucinatoria di Dioniso. Un suono di basso continuo che dura per quasi tutto lo spettacolo, interrompendosi solo quando Penteo viene ucciso, ma che poi ricomincia, perché la musica di Dioniso non termina mai. Un suono ossessivo che investe anche lo spettatore e lo fa immergere in quel rito che si sta compiendo sul palcoscenico, fino al punto di non accorgersi più di quella musica. Lo spettacolo è tutto giocato sul ritmo e gli attori recitano in modo antinaturalistico seguendo sempre il tempo della musica. Così come è arrivato a Tebe, ora Dioniso se ne va, dopo aver compiuto la sua vendetta contro un re e un popolo che hanno osato sfidare il dio, peccando di “ubris”. Nulla può fermare Dioniso, perché tutti hanno bisogno di lui.
foto di Marco Ghidelli
Un adattamento ben fatto e non didascalico, in cui emerge con chiarezza il paragone con il nostro mondo. Una tematica attuale: noi siamo tentati da vari rimedi facili per alleviare il nostro dolore e abbiamo bisogno di estraniarci dalla razionalità, dalla realtà che ci circonda per fermare per un attimo un tempo che ha visto la morte di Dio causata da noi stessi. Dioniso è in noi, lo abbiamo reso indispensabile.
Emanuele Biganzoli
Autore: Euripide
Adattamento e regia: Andrea De Rosa
Attori: Marco Cavicchioli (Tiresia), Cristina Donadio (Agave), Ruggero Dondi (Cadmo), Lino Musella (Penteo), Matthieu Pastore (Messaggero), Irene Petris (Coro), Federica Rosellini (Dioniso), Emilio Vacca (Messaggero), Carlotta Viscovo (coro), allieve della scuola teatrale del Teatro Stabile di Napoli Maria Luisa Bosso, Francesca Fedeli, Serena Mazzei (Coro)
Scene: Simone Mannino
Costumi: Fabio Sonnino
Luci: Pasquale Mari
Musiche originali: G.U.P. Alcaro e Davide Tomat
Produzione: Teatro Stabile Torino, Teatro Stabile Napoli, Fondazione Campania dei Festival
Il sipario si apre, ci accoglie una scenografia semplice e spoglia, con un velato e malinconico color viola-blu. Due figure sedute su due sedie vicine, un uomo e una donna. Aldo legge dei fogli con un’aria incupita. Solo qualche battuta più avanti si capirà trattarsi di una delle tante lettere di sua moglie, Vanda, la donna accanto a lui. Le parole su quella carta risuonano dalle labbra di lei, parole che rappresentano lo sfogo di anni di sofferenza e frustrazione. “Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie.”. Più la sua voce si fa sofferente e il dolore più forte, più le sedie si allontanano.
La scena cambia ed emerge un senso di apatia e smarrimento. La scenografia prende un aspetto diverso, si tinge di chiaro e diventa più fredda, sterile. Un grande salone disordinatissimo con delle altissime mura tutte bianche, quasi fossero fatte di gesso. Tra i tanti oggetti e tra le pagine dei libri buttati per terra, riaffiorano anche vecchi dolori e verità mai confessate. La casa diventa la metafora della famiglia con tutti i suoi disastri e le sue rovine. È da qui che tutto parte.
Il tema di Lacci è la storia di una relazione matrimoniale fallita con le rispettive dinamiche famigliari che ne conseguono e le varie ipocrisie su cui molto spesso essa si basa. È senz’altro un argomento che prende al cuore ogni spettatore in sala. Ognuno, almeno una volta nella vita, ha rivestito la parte del compagno ferito e tradito o, al contrario, di colui che vuole tener segreto un amore proibito. Ci si trova partecipi ma allo stesso tempo giudici, senza mai riuscire a prendere le parti di un personaggio preciso. Amanti, fratelli, figli e compagni di vita, tutti ci ritroviamo immersi da quella che si può definire una “tragedia contemporanea”. Proprio nei tumultuosi anni sessanta, ani di forte cambiamento, Vanda, interpretata da Vanessa Scalera, e Aldo, interpretato da Silvio Orlando, si sposano e dopo pochi anni diventano genitori. Più gli anni passano più lui si sente oppresso dall’idea di invecchiare e con il suo animo da ragazzino decide di trasferirsi a Roma per poter vivere la freschezza di un amore nuovo. A differenza della moglie che da subito ci trasmette il suo attaccamento, a volte quasi morboso, alle piccole gioie della vita quotidiana. Donna forte, legata al senso della famiglia e ormai consumata dai sacrifici per di mantenere da sola i suoi due figli. Ripetute sono le sue lettere indirizzate al il marito che dopo anni riescono ad avere risposta con il suo ritorno, dovuto in realtà solamente al senso di colpa. Per lui il matrimonio si dimostra essere un labirinto dal quale si sente intrappolato e. Infatti i “lacci” legati simbolicamente indicano sia quell’azione quotidiana che Aldo inconsapevolmente insegna a suo figlio, sia quel legame, quel vincolo così consueto da essere inavvertito, che può arrivare ad essere soffocante. Sicuramente le ossessioni di una donna ormai non più spensierata e le difficoltà dei figli non aiutano questa sua condizione. Eppure è proprio lui ad ammettere che in fondo anche loro due sono stati felici ma poi forse si sono abituati alla felicità fino a non sentirla più.
Si avverte benissimo lo scontro generazionale tra i genitori e i figli. I genitori cresciuti in un’epoca di grandi cambiamenti, dallo spirito libero e increduli di dover accettare a volta l’impossibilità di essere felici. I figli (Maria Laura Rondanini e Sergio Romano) abituati al non-amore, cresciuti con paure e ossessioni, si armano della solita scusante: “Non è colpa mia! L’ho preso da mia madre..”. Saranno poi loro che si prenderanno la tanto desiderata rivincita.
Il testo teatrale è adattato da Domenico Starnone dal suo omonimo romanzo e mette bene in evidenza quei meccanismi di distruzione reciproca che si vanno a creare talvolta nel matrimonio senza che nessuno dei due coniugi se ne renda conto. È un testo classificabile certamente nella categoria del dramma familiare. Starnone nell’adattamento del testo letterario alla drammaturgia scenica opera una trasposizione forse un po’ troppo fedele che appesantisce l’andamento della storia e, più in generale, l’azione dei personaggi, nonostante lo spettacolo sia stato arricchito da qualche intermezzo comico e battuta divertente. In realtà infatti, in scena succede poco, si tratta più che altro di ricordi del passato. Tutti gli attori comunicano allo spettatore il senso del dramma e la loro aderenza al personaggio anche se, ai miei occhi, un approccio più sentito avrebbero reso il lavoro più forte e avrebbero permesso allo spettacolo di lasciare maggiormente il segno.
Mercoledì 22 novembre, serata in cui ho assistito allo spettacolo, gli spettatori hanno comunque dato prova di essersi divertiti e di aver apprezzato. Durante gli applausi finali molti spettatori sui loggioni si sono alzati in piedi e la commozione di Silvio Orlando era evidente. È sicuramente una bellissima emozione poterlo vedere come interprete di Aldo. Un personaggio dal comportamento in fondo molto comune ma arricchito dallo stile “buffo” di questo grande attore.
In scena al Teatro Carignano di Torino dal 14 al 26 novembre 2017
L’11 novembre scorso si è concluso alle officine CAOS il festival “Differenti Sensazioni”, giunto alla sua 30esima edizione. Dedicato alle arti contemporanee dello spettacolo, quest’anno, come non mai, si è concentrato sul rapporto tra teatro e società, cercando di superare le barriere ideologiche e materiali che spaccano l’uomo e la sua identità, costringendolo a rifugiarsi in etichette e scatole di pregiudizi. Attraverso il rinnovo e la ricerca di nuove forme di espressione e comunicazione sul palco, il festival ha cercato di legare il pubblico proveniente da diversi ambienti, sensibilità e pensieri con un continuo scambio e dialogo con essi. Un dibattito muto fatto per l’appunto di sensazioni, di brividi sulla pelle, occhi attenti e scambi di energia. Diciotto spettacoli con lingue diverse, modalità di approccio variegate, ma tutti aperti a nuove forme di comunicazione e disponibili alla crescita. Importante l’apporto degli attori di “Stalker Teatro” presenti al festival con diversi spettacoli.
Nella serata conclusiva di questa variegata rassegna il pubblico ha intrattenuto due conversazioni totalmente agli antipodi potendo assistere a due spettacoli differenti.
Il primo, “Mad in Europe”, con unica protagonista Angela Demattè nei panni sia della narratrice che quelli di personaggio, comunicava un messaggio di disperazione e crisi di identità, insistendo sulla potenza della parola, la lingua. La sua storia, scritta e interpretata, narra della “Mad”, una donna sulla quarantina che lavora presso il Parlamento Europeo. Una donna indipendente, aperta di pensiero, femminista, la cittadina del mondo per eccellenza, conoscitrice di più lingue. Un giorno però impazzisce all’improvviso, si ritrova sola circondata da medici e sconosciuti che non la comprendono per via delle parole che sembra vomitare a casaccio. Parla un miscuglio di lingue differenti, mescolate a rantoli e mugugni. Il detonatore di questa trasformazione è lo scontro con le sue origini, la cultura del suo paese che riemerge attraverso il regalo di una madonnina della nonna. Un passato sepolto, imbarazzante per lei, simbolo del vecchio, del patriottismo chiuso nella sua sfera. Una vita in cui lei non si riconosce più, anzi, se ne vergogna ma che non riesce a sotterrare e inizia a scalfirla e graffiarla fino a distruggere la sua mente. Il buio del palco trafitto da luci asettiche, la lingua della Mad e la narrazione ironica della narratrice, a volte timorosa di poter dire cose “politicamente scorrette”, infastidisce e punzecchia lo spettatore
che rimane nudo davanti a quella semplice messa in scena: sei sedie, scheletri e simboli di un parlamento falso e corrotto, la bandiera europea, straccio e fantasma di un ideologia alta e dimenticata, e la madonnina, le origini e le tradizioni che ognuno di noi, in parte o totalmente cerca di dimenticare. E’ un urlo e uno schiaffo per risvegliarci da questa situazione di stallo, per farci accorgere delle bugie che televisione, giornali e noi stessi ci raccontiamo per sentirci parte di una struttura di carta. Angela Demattè riesce alla perfezione in questa sua impresa e attraverso le due figure che propone instaura subito il contatto necessario allo spettatore per sentirsi parte di quel ragionamento rilevatore.
Il secondo spettacolo, sempre immerso nel buio, nella messa in scena povera e dalle luci soffuse, decide invece di parlare attraverso i movimenti. La parola è quasi assente per l’intera vicenda, nei pochi momenti in cui compare si rifà a un libro, a qualcosa di già scritto e sentito. Le frasi della “Gerusalemme liberata” risuonano così nell’ambiente, come contorno, presenza sospesa in un contesto non suo. Gli attori della “Cie Twain” ci parlano attraverso i loro movimenti, il loro sudore, i loro corpi sotto sforzo e gli sguardi in continuo movimento delle spaccature moderne, dei conflitti sociali e interiori. Gli otto ragazzi diventano ognuno un Tancredi e una Clorinda al periodo delle crociate, ma anche studenti del ’68 con la rivoluzione negli occhi, oppure poliziotti disumanizzati pronti e reprimere, picchiare e schiacciare in nome di governi sordi. La capacità degli attori nelle coreografie e delle loro espressioni ti disarma, vorresti alzarti e proteggere il debole, insultare il repressore. Nonostante l’assenza della voce e quindi la difficolta di cogliere il significato dietro ad ogni gesto, nulla cade nel vuoto senza colpire, anche in minimo, chi guarda. Alla fine, quando ogni cosa sul palco si placa, cade nel sonno, si è stanchi come gli attori, si è abbattuti e carichi di speranza come le persone che si sono rievocate in quell’ora e mezza. Ci si sente rivoluzionari e vittime, repressori e repressi, i pensieri corrono e riecheggiano, cercando di riordinare tutti gli stimoli visivi ricevuti. L’unica cosa chiara risiede nel passato che la compagnia ha fatto riaffiorare senza mezze misure. Un passato di lotte, di ingiustizie, di grandi figure schiacciate dal dovere e gli
ideali, da voci fatte tacere con la violenza e da traguardi raggiunti col sudore di tante persone unite da un sogno. La domanda e la riflessione con cui si viene lasciati all’uscita dal teatro però è molto più pesante e gravosa, quella sul presente e sul ruolo che vogliamo avere in un periodo di crisi e ingiustizie.
Due spettacoli, due linguaggi, due storie ma entrambi con lo scopo di riscuotere lo spettatore, farlo riflettere sulla modernità, sulla realtà da cui ci allontanano la quotidianità e lavoro. Due spilli per far scoppiare la bolla di cecità che ci chiude gli occhi sui veri problemi del nostro secolo.
Le Baruffe Chiozzotte, regia di Jurij Ferrini, è in scena al Teatro Gobetti di Torino dal 21 Novembre al 17 Dicembre 2017.
Il famoso testo di Carlo Goldoni, uno dei più divertenti scritti dall’autore, ritrae l’atmosfera della vita popolana del Veneto del ‘700: uomini un po’ rozzi, istintivi, bloccati nel rispetto dell’onore e delle tradizioni, prima fra tutte il matrimonio, che è il motore centrale che governa tutte le azioni dei personaggi. Ci sono cinque donne che cuciono merletti in attesa del ritorno degli uomini, in attesa di essere chieste in spose: due di loro sono già maritate e fanno quasi da madri alle altre tre ragazze che non vedono l’ora di andare in spose all’uomo che più le affascina. E da un piccolo corteggiamento mal riuscito scaturisce la grande baruffa che porterà tutti i personaggi di fronte alla legge: Isidoro, interpretato dal regista, è il cogitore veneziano che non solo riuscirà a portare la pace tra le due famiglie in litigio, ma combinerà anche i tre matrimoni.
La traduzione in italiano dell’opera, scritta in dialetto veneto, restituisce alla perfezione il ritmo originario e rende comprensibile a tutti la storia. L’unico a parlare in dialetto (che in realtà si trasforma in una lingua inventata splendidamente comica e incredibilmente chiara a tutti) è il personaggio di Fortunato (Angelo Tronca). Tutti gli attori hanno ottimi tempi comici e usano il corpo in armonia con lo spazio. I personaggi sono dipinti con affetto, sono tutti simpatici e in fondo al loro cuore buoni, con valori puri nella loro semplicità; ognuno di loro è ben tratteggiato, e soprattutto i personaggi femminili hanno una personalità definita e forte. Infatti, sono loro a causare e alimentare i litigi, mentre gli uomini sembrano quasi marionette mosse dalle gelosie e dalle chiacchiere femminili.
Questa commedia però non è solamente risate e ironia, racchiude un nucleo problematico e malinconico, come rivela lo stesso regista. Parla, infatti, di uomini che stanno dieci mesi in mare, facendo una vita molto dura e tenendo in pensiero i loro cari rimasti a casa. Le fanciulle sono ossessionate dal matrimonio, visto più che come un momento gioioso, come un modo per andarsene di casa. Per sposarsi basta darsi la mano, gesto che può diventare meccanico, come meccaniche e ripetitive appaiono le vite di questi giovani. Inoltre, mancano figure genitoriali di riferimento, sebbene siano poi gli uomini più maturi a cercare di far ragionare tutti e a voler riportare la serenità.
Interessante la scelta di Ferrini di trasporre la vicenda in un contesto meta teatrale: stiamo infatti assistendo a una prova aperta, non esiste la quarta parete né l’illusione del teatro, solo un abbozzo di scenografia. I costumi sono normali abiti di tutti i giorni, anche se ogni attore ha uno stile che lo differenzia dall’altro e che richiama il carattere del proprio personaggio. A ricordare l’epoca storica di questa commedia stanno dei manichini sullo sfondo vestiti con abiti settecenteschi. Così il passato e il presente si fondono nelle Baruffe senza tempo.
di Carlo Goldoni traduzione Natalino Balasso con Jurij Ferrini, Elena Aimone, Matteo Alì, Lorenzo Bartoli, Christian Di Filippo, Sara Drago, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Rebecc a Rossetti, Michele Schiano di Cola, Marcello Spinetta, Angelo Tronca, Beatrice Vecchione regia Jurij Ferrini scene Carlo De Marino costumi Alessio Rosati luci Lamberto Pirrone suono Gian Andrea Francescutti regista assistente Marco Lorenzi Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
di Alice Del Mutolo
INTERVISTA AD ANGELO TRONCA
Oggi è qui con noi Angelo Tronca, un attore che ha collaborato con il teatro Stabile di Torino interpretando il personaggio di Fortunato nello spettacolo. Insieme a lui, cercheremo di capire meglio il suo ruolo, la sua formazione e le sue passioni.
L’arte del teatro rappresenta spesso una missione. Talvolta questa strada si intraprende per talento. A volte, invece, per gioco. Tu come mai hai deciso di intraprendere la carriera attoriale?
E’ una domanda a cui non so dare una risposta ben precisa. Sono stati un insieme di fattori a indirizzarmi su questa strada. Il primo fra tutti è stato frequentare un corso di teatro al liceo. Lì, ho incontrato anche delle compagne di scuola molto carine. Dopo poco tempo avevo iniziato a divertirmi, riuscivo ad esprimere quello che avevo dentro, provando, di conseguenza, nuove emozioni. Così, terminato il liceo, ho fatto il provino per entrare al teatro Stabile di Torino e mi hanno preso.
Spesso la comprensione del proprio dono di attore passa attraverso la conoscenza di un ruolo, di un carattere, di un personaggio. Quale personaggio teatrale ti è piaciuto interpretare di più? Quale ti ha segnato?
In realtà sono due i personaggi che mi hanno colpito maggiormente. Il primo è Aspettando Godot sempre sotto la regia di Jurij Ferrini, in cui ho interpretato Pozzo: un soggetto fuori di testa, tratto dalla piéce di Samuel Beckett, in questo testo e attraverso questo ruolo, mi sono dovuto liberare di ogni tipo di freno. Il secondo invece è il personaggio di Don Sallustio portato recentemente con Marco Lorenzi tratto da Ruy Blas, un dramma di Victor Hugo. Questo testo ha un contenuto molto avvenente, strutturato su passioni sfrenate e su una scrittura ottocentesca. In questo caso, ho dovuto interpretare un uomo spietato ed estremamente malvagio.
Le Baruffe Chiozzotte, testo seminale nella carriera drammaturgica di Goldoni, è scritto per essere recitato in dialetto. Come mai sei stato l’unico nelle Baruffe Chiozzotte a parlare nella lingua che dà il titolo al lavoro?
Allora, Goldoni ha scritto questa piéce teatrale dove tutti i personaggi parlavano Chiozzotto, un particolare dialetto di Chioggia. Solo il personaggio di Isidoro parlava Veneziano mentre tutti gli altri “pescatori” comunicavano un dialetto più duro. Tra questi pescatori ce n’era uno che parlava in dialetto talmente stretto che lo capivano solo poche persone come ad esempio sua moglie e questo era un motore comico che utilizzò Goldoni. Oggi sarebbe stato difficile per il nostro pubblico riuscire a portare in scena queste differenze dialettali. Così Jurij Ferrini ha modificato il testo facendo parlare tutti in italiano tranne il mio personaggio, Fortunato, per lasciare quella chiave comica come nell’ epoca di Goldoni. –
Le particolarità dialettali presso rendono difficile la caratterizzazione di un personaggio, soprattutto se comico. E’ stato complicato interpretare il ruolo di Fortunato?
Sì, perché lo scoglio linguistico era molto forte, quindi la prima necessità era rendere armonico e fluido l’eloquio. Il personaggio doveva, infatti, risultare naturale, senza forzature
Il lavoro di squadra, di gruppo e l’interazione con ogni genere di operatore del settore sono caratteristiche indispensabili per un buon attore. Che rapporto hai con la compagnia dello Stabile?
Direi buono, nel senso che è il secondo teatro più importante d’Italia, mentre come teatro Nazionale è il primo. La compagnia è giovane e stimolante ed è sempre interessante lavorare in questo contesto. Purtroppo a causa dei tagli alla cultura, per questioni economiche, accorciano sempre di più i tempi di prova. Noi ci siamo trovati con sole tre settimane disponibili a ridosso del debutto. In questo modo sai già che non puoi metterti nella condizione di rischio, devi sapere già cosa devi fare.
Il futuro dell’attore di teatro è spesso considerato incerto.Come ti vedi tra 10 anni?
Mi vedo bene, forse migliore: sarò un uomo maturo di 43 anni. Spero di fare ancora teatro costruendo una realtà mia dove poter costruire e stabilizzare una mia poetica. Ho voglia di sperimentare un percorso autoriale. Infatti è il secondo anno che scrivo piece originali da dirigere e interpretare. Mi piace questa linea anche perché in Italia ci sono poche persone che intraprendono questa strada soprattutto scrivendo delle piece che coinvolgono altri attori. Il lavoro artistico è anche un impegno nei confronti dell’altro, del sistema e del mondo contemporaneo.
Siamo lieti di invitarvi al nostro AperiSCENA,
una festa, un aperitivo dove siete tutti invitati per conoscere noi blogger e non solo!
Lunedì 11/12 alle 19
Caffè della Caduta
Eccoci qui, siamo davanti al teatro Marcidofilm incuriosite da quello che ci aspetta. Notiamo la porta semiaperta quasi come se ci stesse invitando ad entrare e così con decisione la varchiamo. Constatiamo subito la diversità tra il quartiere difficile e l’interno caldo e ospitale, essenziale ma con dei dettagli che rimandano ad un cabaret. Le pareti bianche creano contrasto con il pavimento e le sedie di un rosso cremisi. Il soffitto si adorna di un lampadario d’acciaio composto da una serie di lampadine che illuminano tutto il foyer. Ci sentiamo frastornate dal chiacchiericcio delle persone accanto a noi. Si percepisce il fermento e la curiosità di gustare il primo spettacolo della nuova stagione dei Marcido Marcidorjs. D’altronde questo piccolo spazio è stato inaugurato solamente il 23 novembre 2015 dopo una lunga attività teatrale di trent’anni lavorando in svariati palchi della città. Ecco, finalmente tutti hanno il biglietto in mano e insieme ci dirigiamo verso la grande tenda nera che separa il foyer dalla sala. Rimaniamo immediatamente colpite dallo spazio molto piccolo, dotato di una cinquantina di poltrone rosse. Il palco sembra assente ma troviamo un sipario che funge da schermo. Prendiamo posto.
Parte quasi subito un sobbalzo di voci e avvertiamo che lo spettacolo sta per iniziare. Con nostra sorpresa si alza il sipario rigido illuminato da disegni e finalmente ci accorgiamo della presenza del palco. Non ci sono scenografie elaborate attorno ad esso, vi troviamo solamente un uomo dialogare a voce alta appoggiato su una ruota rialzata in legno. Man mano che lo spettacolo va avanti sbucano da dietro la ruota altri otto personaggi, sembra quasi il richiamo di un gioco illusorio. L’oggetto viene capovolto e i nove attori si mettono in fila. Notiamo subito il loro abbigliamento spoglio ma contrastato da colori sgargianti quasi come se la compagnia volesse dare un effetto intimo tra spettatore e attore ma allo stesso tempo dire “noi siamo qui”. Incomincia un gioco di dialoghi e coro perfettamente preciso, quasi matematico. Le voci sono così sincronizzate da far sembrare che sul palco ci sia un solo attore. Man mano che lo spettacolo prosegue capiamo che non c’è solo un lavoro estremamente preciso sulle voci ma anche sulle luci, alternandosi anch’esse ad un ritmo ben definito. La ruota è il fulcro della scena: gli attori girano intorno ad essa, ci salgono sopra, ci giocano e si piegano a lei. L’esaltazione della voce a tratti stridente e delle loro movenze che si attorcigliano ad essa toglie l’attenzione allo spettatore sul testo e lo porta a concentrarsi maggiormente sul suono. Verso la fine dello spettacolo viene appesa sulla parete frontale un’installazione luminosa, la costellazione del carro maggiore che fa da sfondo all’interpretazione di un testo di Nietzsche.
La rappresentazione si conclude con la canzone resa celebre da Sordi “Ma ‘ndo vai se la banana non ce l’hai” che coinvolge tutti gli attori. Questa rappresentazione, della durata di un ora e venti, appare forte per la sua imponenza sonora e piacevole per il suo modo disinvolto diaffrontare una tecnicità matematica diversa da altri spettacoli.
(a cura di Alessandra Nunziante)
Il testo portato in scena dalla compagnia non è un semplice copione teatrale, ma il prodotto di un lungo lavoro di selezione di scritti poetici condotto dal regista Marco Isidori. Oggetto di questo studio sono le tre poetesse Amelia Rosselli, Sylvia Plath e Emily Dickison, affiancate da altri testi tra cui alcuni dello stesso Isidori, e da qui nasce il titolo Amelia, la strega che ammalia and friends.
La poesia diventa quindi materia prima dello spettacolo e lo spettacolo a sua volta si piega a favore di essa, disegnando nuove forme per potersi adattare a un linguaggio che non gli è estraneo ma neanche così vicino. Per questo i Marcido, noti al pubblico anche per spettacolari e imponenti apparati scenografici ideati da Daniela Dal Cin, rinunciano quasi del tutto alla scenografia e ai costumi e si concentrano sulla parola, sulla sua potenza e sulla sua deformazione. La recitazione è estremizzata, portata all’esasperazione, mentre il testo viene ridotto a suono e gesto. Gli attori alternano momenti solistici a momenti corali coreografati alla perfezione, il ritmo è sempre sostenuto e incalzante, i cambi di scena giocati su silenzi volutamente marcati. L’accurato lavoro di analisi linguistica conferisce allo spettacolo una cifra stilista sicuramente originale e ricercata. Per quanto questa impronta artistica sia riconoscibile e in qualche modo godibile anche per un pubblico totalmente ignaro, il testo arriva allo spettatore completamente destrutturato nel suo senso grammaticale. È moltodifficile che chi avesse ingenuamente assistito a questo spettacolo senza essersi informato prima su ciò che sarebbe andato a vedere, possaaver capito qualcosa del testo. Non c’è nessun indizio che permetta di orientarsi all’interno dell’esibizione, siviene semplicemente travolti dall’energia prorompente degli attori in scena. Attori che sembrano sempre sul punto di “scoppiare”, schiacciati dal peso di uno sforzo fisico e interpretativo esagerato.
Una recitazione che destruttura e scompone così violentemente le parole per esaltarne la sonorità, determina sicuramente un lavoro molto sofisticato e poetico, ma interpretando in questo modo il senso letterale delle poesie stesse viene quasi completamente perso. Pochi, per non dire praticamente assenti, sono i cambi di ritmo e di intenzione: una volta ingranata la marcia (non la quinta, ma la sesta) si procederà così per tutto lo spettacolo. Per questo motivo la performance, pur essendo indubbiamente carica di un’espressività travolgente, risultapoco dinamica. I meravigliosi cori e le coreografie degli attori danno un ritmo incalzante che tuttavia rimane sempre uguale, e questo porta inevitabilmente a una perdita di attenzione da parte di chi guarda.
Se l’obiettivo che si voleva raggiungere era quello di lasciare il pubblico incantato dall’esaltazione del gesto e del suono, ma confuso e frastornato da un senso logico-narrativo che manca, allora si è raggiunto pienamente. Dopo un po’ si smette di ascoltare con l’intelletto e ci si abbandona all’orecchio. Quello che rimane impresso è un lavoro fatto di sonorità e fisicità sorprendenti per la loro forza e la loro composizione, ma prive di un contenuto che vada oltre l’apparenza estetica. O per meglio dire, il contenuto c’è ed è considerevole, ma la trasfigurazione estrema delle parole non ci permette di coglierlo quanto avremmo voluto.
È Spontanea e dolcissima, l’abbiamo incontrata al teatro Gobetti dopo aver finito lo spettacolo Arialda di cui è stata protagonista.
È Beatrice Vecchione, nata il 26 marzo del 1993 in una clinica con vista sul mare a Napoli. Ultima di sette figli è cresciuta in un paesino di tremila abitanti in provincia di Avellino. Diplomata alla scuola del Teatro stabile di Torino diretta da Valter Malosti.
Dopo il diploma ha preso parte a molte produzioni dello Stabile stesso tra cui La morte di Danton con la regia di Martone e Come vi piace con la regia di Leo Muscato. Nell’estate del 2017 viene selezionata dal Centro teatrale di S. Cristina Fondato da Luca Ronconi e Roberta Carlotto. Attualmente è impegnata con Le baruffe chiozzotte con la regia di Jurij Ferrini.
L’intervista di Abdelmjid El Farji (MAGID)
Lei è una ex allieva di Valter Malosti, direttore della scuola per attori del Teatro Stabile e regista di Arialda, di cui è stata protagonista. Risulta difficile oppure facile lavorare con il proprio maestro?
È bello perché Valter mi ha visto crescere nei tre anni di scuola. E in questo tempo ho avuto modo di conoscere bene il suo linguaggio e questo è solo un vantaggio per lavorare bene insieme.
La presenza del corpo molto forte nel testo L’Arialda: secondo lei, la sua bellezza l’ha aiutata?
Il rapporto col corpo nasce dal rapporto con la lingua, in questo caso con la lingua di Testori che è pulsante, materica, violenta, popolare e lirica e visionaria al contempo.
Ti ringrazio del complimento, comunque non credo che Valter abbia scelto me per l’aspetto fisico, comunque dovresti chiederlo a lui (Ridendo)
E come ha sviluppato il suo rapporto con il corpo dell’Arialda, che, come abbiamo visto da spettatori, era fortemente presente (sensuale, maturo) sul palcoscenico?
Comunque più concretamente ho cercato di lavorare, aiutata anche da Alessio Maria Romano, in una direzione più controllata mentendo quindi una certa tensione nella verticalità, nella prima parte dello spettacolo e man mano che l’Arialda sprofondava nel suo delirio ossessivo, ho cercato di rompere il respiro e quindi il corpo… di andare verso una volgarità, uno stato più bestiale che liberasse gli istinti, le parole, le ragioni, i dolori repressi.
Lei rappresenta un personaggio che vive negli anni ’60 con la sua dimensione sociale e psicologica diversa dai personaggi della società attuale. Qual è stata la sua modalità di indagine e ricerca del personaggio di Arialda?
Ho cercato di conoscere Testori prima di tutto, di entrare nel suo immaginario nel suo modo di vedere la vita, di leggere la realtà che viveva.
Era un uomo che si interrogava profondamente sul mistero della vita e quindi della morte
Nell’Arialda, che Testori scrive anni prima della sua conversione, si sente forte la domanda sul perché dell’esistere soprattutto di fronte alla sofferenza. Eros dopo la morte del Lino, l’unica persona che ama veramente, dice guardando il cielo :” ma se il Padreterno fa così cosa può pretendere che facciamo noi?”
Il rapporto tra alcuni personaggi si mescola tra il senso della morte e della vita, come ha affrontato questa complessità ?
L’Arialda stessa non comprende (d’altronde non si può!) e quindi non accetta la morte tanto che è perseguitata dai fantasmi e dunque non dice il suo sì alla vita, morendo lei stessa ogni giorno nel passato.
Ma in lei vive comunque, anche se non riesce a vederlo, un gran desiderio d’amore e quindi di salvezza, di riscatto dalla miseria materiale ed esistenziale in cui lei e tutti gli altri personaggi vivono.
Dice infatti alla Gaetana “lei un uomo l’ha pure avuto, uno con cui parlare uno da chi farsi abbracciare, uno con cui fare quelle tre o quattro scemate che mettono a posto tutto”.
L’impossibilità di realizzare tale desiderio e quindi di vivere pienamente la propria condizione umana, la spingerà ad un delirio di distruzione.
Avete lavorato in un spazio quasi vuoto, tranne una tavola e due porte mobili, e si vede un lavoro figurativo nel Suo personaggio legato a un “Teatro Povero”: quanto è stato utile per lei il metodo Grotowski in questo?
Non ho usato una tecnica particolare, mi sono lasciata guidare da Malosti ed ho cercato di aderire quanto più potevo a ciò che dicevo.
L’astrazione della regia ha dato al testo uno respiro più ampio mettendo in risalto la sua natura tragica, ed ha anche permesso a gran parte di noi attori, anagraficamente distanti rispetto al età dei personaggi, di risultare comunque credibili. E non ho avuto Grotowski come riferimento.
Permettetemi di iniziare da un luogo comune: le certezze nella vita sono poche. Tra queste, soprattutto se ci si occupa di danza, c’è Elisa Guzzo Vaccarino, che lunedì scorso, 27 novembre, ha presentato il suo nuovo libro Eros e Danza, in dialogo con il Professor Alessandro Pontremoli, docente di storia della danza presso il DAMS di Torino. Elisa Vaccarino è giornalista, storica della danza, icona della critica e può vantare uno straordinario repertorio di studi e pubblicazioni fondamentali per la danza contemporanea. Continua la lettura di Eros e Danza- Elisa Vaccarino→
Danzatrice dalla tecnica impeccabile, Annamaria Ajmone risponde a quella moda tutta contemporanea di una danza tanto precisa da esaurirsi in un’estetica del gesto iper-accurata e meravigliosamente plastica. Autrice emergente nel recente panorama coreografico, formatasi alla Paolo Grassi, è stata poi supportata da numerosi contesti progettuali (da Cango a Mosaico Danza), entrando di recente nella compagnia CAB 008, la cui direzione artistica è curata, fra gli altri, da Cristina Rizzo. Nel 2015 ha vinto il premio Danza&Danza come migliore “interprete emergente-contemporaneo”. Sarebbe però riduttivo parlare della Ajmone solo come di un’autrice in linea con la moda e semplicemente brava a rappresentarla. Quello che in questa sede si vuole sottolineare è ciò che, ai consueti linguaggi contemporanei, la coreografa ha aggiunto all’interno dei suoi lavori creati appositamente per gli spazi non teatrali. Quelle che l’autrice ha anche definito Pratiche di Abitazione Temporanea e che ha recentemente raccolto e raccontato in un libricino stampato in proprio, intitolato Arcipelago. Questi pezzi, numerosi e variegati, sono infatti accomunati da un’attenzione minuziosa, riservata allo spazio circostante, il quale, unito alla preparazione atletica di Annamaria, dà vita ad una qualità coreografica unica nel suo genere. Ad un togliere drammaturgico, insomma, corrisponde una poetica del movimento assai più elaborata ed in grado, da sola, di giustificare un’intera linea autoriale. Linea in cui la coreografia diviene scrittura dello spazio, ancora prima che scrittura della danza nello spazio. Una categoria, questa della danza come architettura, che se si conferma una tendenza già consolidata in molta estetica contemporanea (sienismi a parte), con la Ajmone acquista una rilevanza esclusiva in virtù della tonalità motoria che il caratteristico virtuosismo proprio dell’interprete le conferisce. Un corpo particolare si plasma attraverso una moda consolidata e, allo stesso tempo, una moda particolare si inscrive su di un corpo consolidato (che qui vale per preparato).
A questa serie di abitazioni temporanee appartiene Trigger, un breve solo scritto da Annamaria e da lei interpretato, nel quale l’azione si svolge in un piccolo rettangolo (e fuori di esso) appositamente tracciato per terra, in qualsiasi luogo la performance si svolga, che gli spettatori stessi andranno a ridisegnare sedendosi sui quattro lati. Lo abbiamo visto due volte, per meglio comprenderne variazioni e similitudini: la prima in uno spazio più contestualmente “teatrale”, il foyer della Lavanderia a Vapore (all’interno del Festival Interplay), la seconda, un anno dopo, in un luogo più elegante e più architettonicamente importante, il Palazzo de Grazia di Gorizia (nel contesto della NID Platform).
Foto di Andrea Macchia
La creazione sonora di Simone Bertuzzi, aka Palm Wine, che percorre interamente i venti minuti dello spettacolo, è tratta dal suo Mixtape Hypnomaghia e divide acusticamente e drammaturgicamente in due momenti l’azione. Nel primo, la danzatrice carica fisicamente un “grilletto” (la cui forma inglese, trigger, dà il titolo all’opera) con i movimenti ripetuti e spasmodici di un braccio che culminano più volte nel rilascio di una scarica tensionale che porta il corpo a riconfigurarsi più o meno aleatoriamente all’interno dello spazio. Nel secondo la danzatrice “vaga”, fuoriuscendo dal tracciato rettangolare, avvicinandosi (a volte quasi toccandolo) al suo pubblico, allontanandosene, sfidandolo, giocando con esso, ma sempre rimanendo dentro una percezione dello spazio accuratissima. Pur nella dicotomia di questi due momenti, di un giorno e di una notte, di un lato A e un lato B del mixtape, la performance è attraversata dalla stessa sottostante intenzione dell’interprete/autrice. È l’architettura, organica e inorganica, ad essere indagata, con una qualità interrogativa che mano a mano si rivelerà abitativa, nella misura in cui la danzatrice pare cercare riparo in un luogo che non ancora le appartiene.
Ecco che la Ajmone, con il suo personalissimo modo di interpretare quella che abbiamo definito una “danza dell’architettura”, si fa mediatrice coreutica della contemporanea attitudine umana ad abitare. La sua danza testimonia così di una disarmante dispersione abitativa che l’individuo è solito vivere, solitario, fuggiasco o viaggiatore. È l’episteme del moderno globetrotter trasposta in estetica coreografica, del quale mantiene le medesime difficoltà a dimorare, lo stesso sforzo incoffessabile a rendere domestico il luogo in cui si trova. Privo di un sentimento di riparo, il difetto abitativo diviene drammaticamente incomunicabile poiché non più percepito come difetto. Così Annamaria “trotta”, in conclusione allo spettacolo, al di fuori dello spazio scenico consueto, ben cosciente del vantaggio rappresentato da una tale vicinanza agli spettatori: la sua danza spesso si manifesta in minime variazioni muscolari, estetiche microscopiche che osservate da vicino rendono al meglio la loro studiata intenzione. Ecco che quell’incrollabile tecnica alla base di ogni suo gesto, in questo senso, si rivela la dimora vera e propria della danzatrice, il suo più autentico riparo. Allo stesso tempo il rischio della minima distanza col pubblico corrisponde ad una maggiore vulnerabilità, ancora simile a quella sociale di chi non dimora, costretto all’esodo forzato o alla fuga sottoforma di viaggio avventuroso. I sempre nuovi sguardi che sul suo corpo si poseranno, raramente le concederanno il lusso di nascondersi, come ogni attore saprebbe fare su di un grande palcoscenico o come chiunque normalmente fa trovandosi al riparo fra le mura di casa propria.
Annamaria disegna su pareti diverse le coordinate di un nuovo rapporto di fiducia tra spettatore e danzatore, dove i corpi sono reciprocamente coinvolti e mossi ad una coralità nella quale la danzatrice è corifera e non coreografa. Gli spettatori seduti intorno a lei sono, insieme, il limite del movimento ed il motivo della danza che indaga “termicamente” (usando un aggettivo della stessa danzatrice) lo spazio fisico ridotto ed accuratamente costellato di altri ingombranti corpi umani. Se nel lavoro della Ajmone, dunque, la danza può ancora dirsi sensuale, lo fa in un’etica della comunione, cioè come volontà di aggregazione e non di seduzione. Una sensualità, la sua, che con spiazzante sincerità ricerca l’ambiente domestico e non la relazione predatoria, sospinta a tale ricerca dall’assenza epistemologica di una dimora. Ma non è la rappresentazione di questa stessa ricerca già tragedia, al di là di ogni sensuale? La tragedia di tutte quelle isole che, nel tentativo di farsi arcipelago (e anche riuscendovi, talvolta) sono tuttavia costrette a rimanere isole.
Foto di Ela Bialkowska
Foto di copertina di Akiko Miyake
Tobia Rossetti
Il blog degli studenti di teatro del D@ms di torino