Tutti gli articoli di Alice Del Mutolo

Labirinto: Controluce teatro d’ombre

Il buio. Da questo siamo accolti noi spettatori entrando in sala. Un buio disarmante, disorientante, che ci coglie all’improvviso. Ci prepariamo ad essere guidati dalle voci, dai colori e dalle ombre di Controluce Teatro d’Ombre, ospiti alla XXVI edizione di Incanti, che ci accompagnerà nell’arduo compito di muoverci all’interno di un vero e proprio labirinto, fatto di teli, colori e luci.

Il mito del Minotauro si snoda attraverso le immagini, create con abilità dagli artisti, e le poche parole che gli attori pronunciano in modo asciutto, chiaro, efficaci per delineare perfettamente la storia che prende sempre più vita davanti agli occhi degli spettatori.

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Trilogia del tavolino

Una comica e amara bellezza

Il teatro comincia quando si esce dalla sala.
Emblema della loro poetica e del tipo di teatro che da molti anni propongono, Claudio Morganti e Rita Frongia lo scrivono arrivando dritti al punto, in uno dei loro manifesti provocatori. Trasformare delle semplici parole in fatti è un’impresa ardua, che quasi mai ha riscontri. Eppure la Trilogia del tavolino di Rita Frongia ci riesce.

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Matilde e il tram per San Vittore

Il sipario è aperto quando ci sediamo in platea. Delle grandi e alte lastre di ferro sovrastano il fondo del palco in una fila orizzontale che sembra infinita, e in mezzo alla scena vediamo solo un tavolo con due panche, anch’essi di ferro. L’atmosfera è quindi fredda, pesante, inquietante, come lo è il tempo in cui saremo catapultati a breve.

Del resto siamo in una fabbrica, e l’ambiente non può altro che essere grigio e opprimente. Ce lo rivela la prima attrice che entra in scena, iniziando a raccontare la storia dei tre grandi scioperi partiti dalle fabbriche di Milano dal 1943, durante la seconda guerra mondiale. Migliaia di operai, stanchi delle condizioni di lavoro inumane, della fame, della vita che stavano conducendo sotto la scure fascista, si ribellano con fierezza alla logica della guerra: se non si fabbricano più le armi, forse anche la guerra finirà. A seguito dello sciopero del 1943 ce ne furono altri due, nel ’44 e nel ’45: una lenta marcia verso la deportazione e la morte per centinaia di operai.

Presto scopriamo che le attrici in scena saranno tre, ma le anime a cui daranno voce sono molte di più: tratto dal libro Dalla fabbrica ai lager di Renato Sarti, lo spettacolo rende giustizia alle storie delle donne, madri, figlie, sorelle degli uomini deportati nei campi nazisti, che prendono vita attraverso l’impeccabile performance artistica di Maddalena Crippa, Debora Villa, Rossana Mola: emozionanti, emozionate, ci trasportano in un epoca buia con le loro parole e azioni taglienti come lame.

Le vicissitudini di queste famiglie si susseguono senza sosta, dando vita a un puzzle che sembra quasi impossibile: la paralisi dei grandi stabilimenti del milanese porta alla paura di essere trovati dalla polizia nazifascista, allo smarrimento di non sapere che fine abbiano fatto i propri uomini.

Poi c’è la speranza di poterli rivedere, di potergli portare vestiti e viveri prima che siano trasferiti a “lavorare” in Germania: là fa freddo, ci ricordano le voci che aleggiano come fantasmi disperati intorno a noi, ed è necessario riuscire a portare ai cari in partenza almeno il cappotto. La frenesia del viaggio attraverso le stazioni lombarde di queste donne viene resa perfettamente dalla recitazione che si fa sempre più ritmata, come una marcia, quasi esasperata, fino ad arrivare alla partenza del treno, verso una meta ignota. Tante donne non erano nemmeno riuscite, nella calca impazzita, a salutare i figli, i mariti, i fratelli, a dargli il maglione o il tozzo di pane che avevano preso repentinamente da casa prima di andare di corsa alla stazione più vicina per raggiungerli.

E tante donne non parleranno nemmeno più con i loro familiari, amici: l’ultima parte dello spettacolo è infatti dedicata alle storie di chi non è più tornato, del vuoto che ha lasciato nel cuore e nelle case di molte famiglie. Ma anche a chi è riuscito a tornare, e negli occhi e nel cuore non ha più avuto lo stesso vigore con il quale era partito: uomini che non riusciranno mai a esprimere la sofferenza che hanno visto e vissuto sulla loro pelle, ma che ogni notte piangeranno in silenzio accanto alle mogli apparentemente addormentate.

Notevole la regia, che attraverso le luci ha esaltato perfettamente i sentimenti di panico, dolore, paura, smarrimento provati dalle tante donne che hanno avuto il coraggio di raccontare la loro storia. Inoltre è stato dato grande rilievo alla componente uditiva, soprattutto durante i racconti delle retate notturne nazifasciste: grazie all’uso abile delle componenti scenografiche in ferro, le attrici riuscivano a far emergere, almeno in parte, quella che doveva essere la confusione e il terrore dato anche dai forti rumori e suoni che rimbombavano nella notte silenziosa.

Una Resistenza, quindi, narrata in modo commovente dal punto di vista femminile di donne forti che si sono trovate improvvisamente a gestire situazioni impensabili, di violenza, miseria e dolore. Come ricorda infatti il regista Renato Sarti: “Fin dalle tragedie greche la voce delle donne è quella che meglio di ogni altra riesce a rievocare l’orrore della guerra, che sempre nuovo, purtroppo, si ripete”.

 

Di Alice Del Mutolo

 

di Renato Sarti
dal libro di Giuseppe Valota Dalla fabbrica ai lager
con Maddalena Crippa, Debora Villa, Rossana Mola
regia Renato Sarti
scena e costumi Carlo Sala
musiche Carlo Boccadoro
luci Claudio De Pace
progetto audio Luca De Marinis
dramaturg Marco Di Stefano
Teatro della Cooperativa
sostenuto da NEXT 2017/18 – Regione Lombardia con il patrocinio di ANPI, Istituto Nazionale Ferruccio Parri
e ISEC e dei comuni di Albiate, Bresso, Cinisello Balsamo, Monza e Muggiò con il sostegno di ANED

 

 

 

COPENAGHEN: DIALOGO TRA SCIENZA E ETICA

Nel 1941 il fisico tedesco Werner Karl Heisenberg si reca a Copenaghen per incontrare il suo maestro, Niels Bohr. Dall’ultima volta che si sono visti, le cose sono molto cambiate: l’occupazione nazista, le leggi razziali (anche se in quel momento non ancora valide in Danimarca) e il velo cupo di terrore che si era depositato sull’Europa. In questo contesto i due fisici hanno una conversazione che li porta all’estrema rottura, Bohr infatti lo caccia di casa. Ma cosa si sono detti? Di cosa hanno parlato di preciso? Quali sono state le esatte parole che hanno utilizzato?

Questo è ciò che il testo e lo spettacolo cercano di indagare, per fare i conti con il passato e dare un senso a parole e azioni di più di cinquant’anni fa: gli attori parlano infatti con noi, come se volessero spiegarci che cosa sia avvenuto in quel fatidico incontro.

Come se si ritrovassero dopo anni e anni, dopo la loro stessa morte, in un tempo e uno spazio sospesi tra formule fisiche e un passato che schiaccia le loro coscienze, i due fisici e la moglie di Bohr, Margrethe, vogliono ripercorrere nei minimi dettagli il loro incontro, in primo luogo per capire loro stessi. Margrethe è un personaggio strategico, con le sue osservazioni funge come da punto di vista esterno, un ago della bilancia che, quando la rievocazione di ricordi fra i due fisici si fa troppo nostalgica, li riporta al punto principale dell’indagine.

La scenografia, alta, nera e imponente, è composta da una serie di lavagne poste asimmetricamente, piene zeppe di formule matematiche e fisiche. Le luci giocano molto sul chiaroscuro, creano una scena introspettiva e la musica, presente solo in pochi momenti, funziona da contrappunto per aiutare lo spettatore a mantenere sempre l’attenzione vigile. Inoltre i costumi degli attori sono tutti composti dai toni del grigio e per tutto lo spettacolo i personaggi orbitano l’uno attorno all’altro, spostandosi come in una danza scientificamente studiata. Tutto questo contribuisce a dare la sensazione di trovarci proprio nella loro mente, nei loro ricordi, partecipi di questa ricerca di risposte.

La recitazione dei tre attori è davvero magistrale: ognuno di loro costruisce un personaggio estremamente sfaccettato e allo stesso tempo coerente in ogni dettaglio e, nonostante durante le conversazioni si raggiungano picchi di tensione altissimi, nessuno di loro perde mai la concentrazione.

La forza delle loro parole è sottolineata anche dal fatto che fossero molto statici e che quasi mai si toccassero o interagissero fra di loro. Le questioni etiche sui limiti della ricerca scientifica, o i dialoghi sulla condizione umana, solo affrontati in questo modo potevano arrivare allo spettatore taglienti come lame.

Perché sì, questo spettacolo, oltre ad intrecciare piani temporali e a rievocare ricordi apparentemente sconnessi tra loro, è anche un susseguirsi di interrogativi legati alla filosofia, all’etica, alla scienza, a cosa sia lecito e cosa non lo sia più in determinate circostanze.

Entrambi i fisici erano vicini a un traguardo che avrebbe portato alla realizzazione della bomba atomica. Bohr accusa Heisenberg ferocemente, perché accetta di lavorare sotto il regime nazista, regime che si stava macchiando dei peggiori crimini pensabili, e lo condanna proprio per le sue ricerche collegate ad un arma che avrebbe potuto distruggere l’umanità. Ma Heisenberg non riuscirà mai a creare la bomba atomica, poiché, come lui stesso ci confessa, non riusciva (o forse non voleva?) risolvere una formula. Invece Bohr, che sarà costretto a scappare negli Stati Uniti perché per metà ebreo, userà le sue conoscenze e il suo sapere per contribuire alla realizzazione della bomba che sarà poi sganciata dagli americani sul Giappone.

Ed è questa la grandezza dello spettacolo: gli attori, con la loro forza recitativa, ci pongono continuamente delle questioni da risolvere, ma ci fanno uscire dal teatro più confusi di prima e senza una risposta. Alla fine, l’interrogativo che ci risuona nella mente, è solo uno: chi è da condannare, Heisenberg o Bohr?

 

Di Alice Del Mutolo

 

di Michael Frayn
con Umberto Orsini, Massimo Popolizio
e con Giuliana Lojodice
regia Mauro Avogadro
scene Giacomo Andrico
costumi Gabriele Mayer
luci Carlo Pediani
suono Alessandro Saviozzi
Compagnia Umberto Orsini e Teatro di Roma – Teatro Nazionale
in coproduzione con CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia
si ringrazia Emilia Romagna Teatro Fondazione

AVEVO UN BEL PALLONE ROSSO

Gli attori ci aspettano posizionati in scena, guardandoci dritto negli occhi, aspettando di poter iniziare a raccontarci la loro storia.

In scena la ricostruzione di un ambiente casalingo semplice, una piccola cucina, al tavolo della quale sta seduta Margherita Cagol, e una scrivania da studio con accanto una poltrona, dove siede il padre della giovane. In un angolo un televisore d’epoca, che starà accesso per tutto lo spettacolo, trasmettendo immagini di cronaca dell’Italia tra gli anni ’60 e ’70.

Ci sentiamo in effetti catapultati proprio in quell’epoca, un po’ per i vestiti, un po’ per l’arredamento, ma soprattutto per le conversazioni che ascolteremo tra il padre e la giovane Margherita. Si respira un’aria di speranza rivoluzionaria, che lentamente, durante lo spettacolo, si appesantisce, quasi presagendo i duri Anni di Piombo.

Attraverso le lunghe chiacchierate tra padre e figlia vediamo rappresentato lo scontro di due generazioni, che bene si esplicherà durante la stagione di protesta politica e ideale che colorerà l’Italia (e non solo) dal ’68 in poi, ma assistiamo anche al cambiamento della donna: da brillante studentessa di Sociologia, che combatte ardita per far diventare il suo indirizzo di studi una facoltà autonoma all’Università di Trento, dove studia, a donna talmente inaridita dalle ingiustizie sociali da decidere di fondare, con il marito, le Brigate Rosse.

I quadretti di vita familiare si alternano alla lettura di veri articoli di cronaca politica del tempo: l’intimità delle discussioni e delle dimostrazioni d’affetto all’interno delle mura di casa sono affrontate in dialetto trentino, mentre il resto è scandito da un italiano chiaro e asciutto. Ma anche Margherita, durante la sua crescita, perderà l’uso del dialetto che tanto profuma di casa: da ingenua studentessa con alti ideali di cambiamento della società e di libertà, “Mara” (così sarà chiamata all’interno delle Brigare Rosse) inizia a considerare la violenza legittima di fronte alle ingiustizie che è costretta a vedere e vivere, tanto da essere poi costretta a diventare latitante. Contemporaneamente anche l’atteggiamento del padre nei suoi confronti cambia. Inizialmente è percepibile un profondo affetto, da parte di entrambi, anche nelle piccole discussioni che colorano le loro giornate. In fondo egli era il capofamiglia di una cattolica famiglia conservatrice, che non riusciva a capire l’esigenza di superamento di certe rigide gerarchie, anche se la figlia prova a fargli capire il punto di vista degli studenti, in quegli anni tanto agitati. Ma dopo che Margherita si sposa e si trasferisce a Milano, il padre inizia ad essere sempre più preoccupato per lo stile di vita della figlia, come se sapesse già l’esito tragico delle sue decisioni. Cerca di persuaderla a tornare a casa, a lasciare perdere le lotte, ma viene sempre respinto e così le loro conversazioni, inizialmente fresche e colorite, si tramutano in pesanti silenzi, carichi di un amore doloroso.

Margherita Cagol morirà durante uno scontro con i Carabinieri a soli trent’anni, convinta dei suoi ideali ormai esasperati dalla logica terrorista. Verrà ricordata infatti dai suoi compagni come una fiera combattente, ma l’epilogo della sua vita viene riassunto in una visione onirica del padre, che la rivede in casa, accanto a lui, a preparare un caffè, con i vestiti di quando ancora era una semplice studentessa. Questo ci permette così di considerare il personaggio di Margherita non più unicamente come una terrorista, violenta mandante di sequestri ancora vividi nelle pagine nere della nostra Storia, ma come una fanciulla con un padre talmente accecato dall’amore da non voler vedere fino in fondo quello che la figlia stesse diventando.

E il dolore di un padre che dovrà seppellire la figlia, consapevole di non aver mai condiviso le sue scelte di vita, lo proviamo un po’ anche noi, dal pubblico, vedendo lo sguardo profondo di Andrea Castelli.

Ottima anche l’interpretazione di Francesca Porrini, che bene riesce a personificare l’intricato carattere di una donna tanto forte e risoluta.

 

L’uso del dialetto trentino in molti momenti è stato però una limitazione sia per alcuni spettatori, che non capendolo non sono riusciti a comprendere fino in fondo la profondità di certe conversazioni, sia per gli attori, che in alcuni momenti, sebbene rari, si bloccavano brevemente.

 

di Alice Del Mutolo

 

DI ANGELA DEMATTÈ
TESTO VINCITORE DEL PREMIO RICCIONE 2009 E DEL PREMIO GOLDEN GRAAL 2010

REGIA: CARMELO RIFICI
CON ANDREA CASTELLI E FRANCESCA PORRINI
SCENE E COSTUMI: PAOLO DI BENEDETTO
MUSICHE: ZENO GABAGLIO
LUCI: PAMELA CANTATORE
VIDEO: ROBERTO MUCCHIUT
ASSISTENTE SCENOGRAFO: ANDREA COLOMBO
REGISTA ASSISTENTE: ALAN ALPENFELT
PRODUZIONE: LUGANOINSCENA, TPE – TEATRO PIEMONTE EUROPA, CTB – CENTRO TEATRALE BRESCIANO
IN COPRODUZIONE CON LAC – LUGANO ARTE E CULTURA

 

 

FDCT23 – I LIBRI DI OZ

Ambiente scuro, un grande proiettore bianco che risalta sul fondo della scena. Un tavolino nero al centro con sopra un grande libro, una lente tonda, delle scarpette rosse. Ecco la scena semplice, essenziale e per questo estremamente esplicativa de I libri di Oz, spettacolo che è andato in scena domenica 3 Giugno presso Caffè Muller per il Festival delle Colline Torinesi.

Chiara Lagani, fondatrice della compagnia teatrale Fanny & Alexander, ha tradotto e antologizzato per i Millenni di Einaudi i quattordici romanzi di Baum ambientati nel magico mondo di Oz. Con lei ha collaborato l’illustratrice Mara Cerri, realizzando una serie di disegni a colori e in bianco e nero per accompagnare le storie, ma soprattutto per aprire nuove chiavi di lettura e per dare nuova vita a racconti che da più di un secolo accompagnano l’infanzia dei bambini.

È proprio con l’ausilio di queste interessanti illustrazioni, proiettate alle spalle dell’attrice, e di alcuni suoni abilmente scelti, che Chiara Lagani inizia a raccontare lo spirito del ciclo dei libri di Oz: inizia leggendo dal libro, ma subito quello che sembra essere un reading si trasforma in un vero e proprio recital grazie al carisma dell’attrice, che pur essendo sola sulla scena, dà l’impressione di essere circondata da tutti i personaggi nominati.
Con l’ausilio di un microfono crea effetti sonori e voci per ogni protagonista della storia che prende la parola.

Quasi come una maestra che vuole insegnare ai suoi alunni la creatività da dietro la cattedra, anche Chiara Lagani rimane quasi sempre in piedi dietro al tavolino e per questo può sembrare un po’ statica, ma grazie al movimento della parte superiore del corpo e al controllo e l’uso della voce, riesce a trasportare tutti gli spettatori nella storia che sta abilmente raccontando, catturando l’attenzione per tutto il tempo.

Tramite l’evocazione di queste storie e dei personaggi sono tanti i temi affrontati dall’antologia, che chiaramente si rivolge anche agli adulti, pur essendo pensata per i bambini: dall’immaginazione al mito, dall’amore alla morte, le tematiche sono molteplici e tutte possono dare spunti di riflessione.

Sebbene questi libri siano stati oggetto delle più svariate interpretazioni, da quelle politiche a quelle economiche, da quelle religiose a quelle psicanalitiche, lo spettacolo non vuole imporre al pubblico una chiave di lettura, ma mostrare semplicemente la varietà di questo mondo e la sua perfetta e logica costruzione: tutto, per quanto fantastico, ha un senso, anche geograficamente parlando; infatti anche l’attrice, circa a metà dello spettacolo, sente l’esigenza di spiegare agli spettatori la composizione geografica del Mondo di Oz, mostrandone la complessa articolazione, che appare infatti totalmente coerente. L’autore Baum non ha di certo lasciato niente al caso.

Vengono quindi dati allo spettatore tutti gli strumenti per comprendere queste storie, per amarle o per non aprezzarle, e per trovarvi significati nascosti.

 

a cura di Alice Del Mutolo

 

di Chiara Lagani
regia Luigi De Angelis

con Chiara Lagani
testi di Frank Baum tradotti da Chiara Lagani per I Millenni di Einaudi
illustrazioni Mara Cerri
paesaggio sonoro Mirto Baliani
animazioni video Luigi De Angelis

produzione Elastica, E/Fanny & Alexande

presentato in collaborazione con Giulio Einaudi Editore

CARLO CECCHI E LA FOLLIA CONSAPEVOLE DELL’ENRICO IV

Dal 13 al 25 Febbraio al Teatro Carignano di Torino è andato in scena Enrico IV di Luigi Pirandello, con l’adattamento e la regia di Carlo Cecchi.

Enrico IV, uno dei testi più conosciuti e importanti di Pirandello, nella versione di Carlo Cecchi è la storia di un uomo che da vent’anni veste i panni dell’Imperatore di Franconia come inganno per simulare una nuova vita e come evasione dalla quotidianità e dalla realtà. Gli altri lo credono però pazzo e perciò lo assecondano in questa commedia per paura e per affetto, tanto da aver assunto degli attori come vassalli per fargli compagnia nella sua dimora, arredata e vissuta secondo gli usi del periodo storico in cui visse Enrico IV. Dopo ormai molti anni però gli amici decidono che l’uomo deve guarire, e portano al suo cospetto un famoso medico che dovrebbe riuscire ad aiutarlo: ovviamente l’incontro avviene con indosso costumi del periodo e sotto precisi pseudonimi storici, e il medico riesce così a fare una diagnosi. Ma durante un incontro con i suoi vassalli nella sala del trono l’Imperatore ammette di non essere mai stato malato e in questo modo tutti vengono a scoprire l’inganno.  Nel finale, come è ben noto, Enrico IV uccide Belcredi. Ma la morte, e tutto il resto, è nella versione di Cecchi finta, perché come ricorda proprio il protagonista, devono tutti riprendersi per la prossima replica, catapultando così gli spettatori in una improvvisa e quasi inaspettata dimensione meta teatrale.

 

Il testo affronta i grandi temi della maschera, della follia e del rapporto tra finzione e realtà: l’uomo sfugge razionalmente ad una realtà che non ama e che non lo rappresenta, e questo è infatti l’emblema pirandelliano del legame tra maschera e realtà. Un altro tema importantissimo e che Cecchi ha voluto mettere bene in luce è quello del teatro e della recitazione stessa: lo si vede chiaramente nel finale dello spettacolo, ma anche nella motivazione data alla falsa follia dell’Imperatore, che egli spiega in un bellissimo monologo, fulcro dello spettacolo: la vocazione teatrale.

Nonostante tutti gli attori fossero molto bravi e incisivi, non poteva non spiccare la recitazione di Carlo Cecchi: la sua tipica cadenza napoletana restituisce verità alla sua interpretazione e fa sì che il pubblico avverta che in quel momento in scena, proprio sotto i suoi occhi, stia accadendo qualcosa di profondamente reale. La cultura popolare infatti si insinua nella sua recitazione e la renda spontanea, giocosa, ma allo stesso tempo grottesca: si accende negli spettatori una coscienza critica che permette loro di vedere con lucidità i vari argomenti che questa recita porta alla nostra attenzione. Il carattere antinaturalistico del suo teatro infatti è perfettamente visibile anche grazie ai suoi movimenti un po’ legnosi, agli abiti molto larghi utilizzati per richiamare l’elemento burattinesco. Spesso inoltre egli recita di spalle, rendendo un po’ difficile la comprensione delle sue parole agli spettatori, sottolineando così l’impossibilità della piena e compiuta realizzazione artistica, altro tema a lui molto caro.

 

Interessante la scenografia realizzata da Sergio Tramonti: molto efficace nel richiamare la finta atmosfera medievale con diversi oggetti di scena, come le armature, ma soprattutto decisiva nel creare un ambiente sospeso, quasi fuori da tempo, quando gli attori si trovano nella sala del trono. Essa infatti ha come fondale uno specchio che riflette tutto quello che sta accadendo in scena, le rivelazioni e le finzioni, rende visibili gli attori che si voltano di spalle, catapultandoci così in un ambiente menta teatrale e sottolineando le duplici funzioni che il teatro può avere.

a cura di Alice Del Mutolo                                                                                      

di Luigi Pirandello
adattamento Carlo Cecchi
con Carlo Cecchi, Angelica Ippolito, Gigio Morra, Roberto Trifirò, Dario Iubatti, Federico Brugnone, Remo Stella, Chiara Mancuso, Matteo Lai, Davide Giordano
regia Carlo Cecchi
scene Sergio Tramonti
costumi Nanà Cecchi
luci Camilla Piccioni
Marche Teatro

 

IL GIURAMENTO DELLA DIGNITA’

Dal 16 al 18 Febbraio il Teatro Astra ha ospitato lo spettacolo Il Giuramento, un testo di Claudio Fava con la regia di Ninni Bruschetta. La storia è ambientata in Italia nel 1931 e narra di Mario Carrara, professore di Patologia all’Università di Torino, uno dei dodici docenti che rifiutò il giuramento di fedeltà al fascismo. Mussolini lo aveva imposto per essere certo di avere pieno controllo sulla formazione, sugli  insegnamenti impartiti ai giovani, stroncando ogni possibilità di dissenso.

Lo spettacolo si apre con l’ingresso  in scena  (dalla platea) degli attori mascherati e con un mantello nero che intonano una versione rivisitata di Faccetta Nera in chiave jazz: un modo per  permettere agli spettatori di entrare nell’atmosfera in cui si ambienterà lo spettacolo; sono, infatti, molti i rimandi ai primi anni dell’epoca fascista che chiariscono il periodo storico e sociale della messinscena: il ritmo quasi martellante della marcia delle camicie nere scandisce la recitazione degli attori soprattutto in momenti di particolare tensione e alcuni allievi del professor Carrara si recano a lezione indossando la divisa del partito, muniti di regolare pugnale. Inoltre ci sono personaggi che incarnano le varie tipologie umane che si possono trovare sotto un regime: l’ufficiale austero dell’esercito che insegna ai giovani a essere forti e pronti per la guerra, i ragazzi che inneggiano al Duce sicuri che egli farà rinascere il Paese, e il Rettore dell’Università che sottolinea come l’Italia fascista abbia bisogno di muscoli e persone sane, declassando così i più deboli e i malati in un sistema a suo vedere perfetto, poiché freddo e inesorabile.

Al centro della vicenda, però, non vi è solo il contesto storico, che pure rimane  chiaro nella mente degli spettatori, non si vuole porre l’accento solo sul fatto che  il fascismo è stata  una dittatura  violenta e spietata. Al centro della vicenda, vediamo un uomo comune, con le sue manie e le sue abitudini, al quale piace il proprio lavoro, passare la propria conoscenza a giovani brillanti che saranno il futuro della società. Quest’uomo, Mario Carrara (David Coco), è sicuramente un antifascista, ma questa non è la prima cosa che viene messa in risalto, poiché egli, messo al corrente dal Rettore  che avrebbe dovuto prestare giuramento al Re e al Duce, vive una profonda crisi che non è dettata dal suo orientamento politico, ma dal fatto che prima di tutto si sente un uomo  e un medico. Il sapere, la conoscenza e la scienza non devono giurare a niente e a nessuno, non possono piegare il capo, ed è proprio per questo che Carrara non capisce perché un professore debba fare un giuramento su una materia oggettiva e totalmente slegata da qualsiasi retorica politica. Ed è qui che si scontra con l’opinione di altri: il Rettore (Simone Luglio) ha fede nel Duce, i suoi ragazzi sono stati quasi tutti ammaliati dalla promessa di valore e fama, e perfino il suo amico e collega apertamente socialista (Antonio Alveario) gli intima di giurare: perché lo faranno tutti, perché è l’unico modo per mantenere il proprio lavoro, ma soprattutto perché ormai il processo di affermazione di un totalitarismo è già iniziato e solo dall’interno si può ancora fare qualcosa. In un momento storico in cui le donne non venivano quasi considerate come esseri pensanti, sarà proprio la dolce e decisa Tilde (Stefania Ugomari di Blas), sua assistente da anni, alla quale è legato da un profondo affetto, a spingerlo a prendere una decisione. Grazie all’ultima conversazione con la donna, infatti, Carrara deciderà di congedarsi dai suoi studenti e accetterà di andare in carcere con l’unica colpa di avere avuto il coraggio di dire di no a qualcosa che riteneva profondamente ingiusto e proprio per questo con la testa alta di un uomo che con dignità si è distinto dal conformismo della società.

Dato il messaggio forte dello spettacolo, la regia ha voluto lasciare le menti degli spettatori sveglie e attente per tutta la sua durata realizzando una messinscena che non permetteva l’abbandono e l’immedesimazione: la scenografia essenziale rappresentava un aula universitaria con delle gradinate e una cattedra, aula che a seconda dei momenti poteva diventare anche un tribunale dove il professor Carrara sentiva premere su di lui il giudizio degli altri. Lo spazio teatrale era stato reso visibile in tutta la sua grandezza e potenzialità, e infatti anche le quinte erano sparite, in modo che gli attori uscendo di scena rimanessero sempre visibili al pubblico, spettatori anch’essi del dilemma interiore che si stava compiendo sul palco. Anche i pochi cambi scenografici sono stati fatti a vista  e spesso durante i dialoghi e i momenti corali si aveva un alternanza di recitazione e canto, che alla fine dello spettacolo si trasforma quasi in un canto funebre che accompagna Carrara in cella.

Molto interessante è l’uso dell’eco nei momenti più carichi di pathos, soprattutto quando il Rettore inneggia alle parole d’ordine del regime: in quei momenti è stato proprio come se quelle parole arrivassero direttamente dalle nostre coscienze, per invitarci ancora a riflettere su quello che è stato, sui gesti di uomini come Carrara, una memoria che non deve scomparire.

Degna di nota sicuramente è  la capacità degli attori di passare dal canto alla prosa senza perdere l’intensità del momento e facendo arrivare chiaramente al pubblico tutta la potenza di quello che volevano trasmettere.

Dopo lo spettacolo, ho assistito a un incontro di approfondimento con il regista Ninni Bruschetta, l’autore Claudio Fava e Tommaso De Luca, rappresentante dell’ANPI Provinciale, durante il quale è intervenuto anche il nipote di Mario Carrara, suo omonimo, presente allo spettacolo. Quest’ultimo, pur avendo apprezzato la recita, ha criticato alcuni aspetti della restituzione della figura del nonno,  primo fra tutti il fatto che non sia stata sottolineata chiaramente la posizione politica di Carrara, capostipite di una famiglia antifascista da generazioni. In risposta, l’autore ha sottolineato che il testo non voleva  raccontare che cosa fosse il fascismo, ma raccontare il coraggio di non conformarsi con la società, di rivendicare l’autonomia della ricerca scientifica. Infatti, con il suo gesto coraggioso, Mario Carrara è emblema di dignità e di dovere solo verso i propri principi scientifici. Come evidenzia poi il regista, nello spettacolo si è voluto scindere l’orientamento politico dal giudizio personale: quella di Carrara diventa un’azione eroica, poiché disgiunta dal fine; egli non pensa al risultato del suo rifiuto mentre lo compie, riesce solo a vedere con chiarezza quale sia la cosa moralmente giusta  da fare.

Concludo riportando una frase del personaggio del Rettore: “Non resterà traccia del vostro rifiuto”; i dodici nomi di chi si è rifiutato di giurare, elencati sulla via della prigione proprio da Carrara alla fine dello spettacolo, sono conosciuti e meritevoli di essere tramandati come un esempio. Gli altri 1238 professori invece non sono degni di memoria.

Alice Del Mutolo

Teatro Stabile di Catania
presenta

IL GIURAMENTO

novità assoluta di Claudio Fava
regia Ninni Bruschetta
con David Coco,
Stefania Ugomari Di Blas, Antonio Alveario, Simone Luglio, Liborio Natali,
Pietro Casano, Federico Fiorenza, Luca Iacono, Alessandro Romano
musiche originali Cettina Donato
scene e costumi Riccardo Cappello
luci Salvo Orlando

UNA “SCANDALOSA GRANDEZZA”: A OTTANT’ANNI DALLA NASCITA DI CARMELO BENE

Mercoledì 13 Dicembre si è svolto presso Palazzo Nuovo un convegno dedicato alla controversa e singolare figura di Carmelo Bene, che proprio quest’anno avrebbe compiuto ottant’anni. Sembra quasi impossibile inquadrare completamente questo grande artista, che negli anni del suo lavoro ha sempre scatenato sentimenti e reazioni potenti, sia in negativo che in positivo. Scandali, ma un’innata genialità: già il titolo del convegno mette in evidenza la profonda contraddittorietà incarnata da Carmelo Bene, che per tutta la sua esistenza ha cercato di mostrare quanto ormai fosse impossibile parlare di attore tragico, mostrandolo apertamente al pubblico. Durante il convegno non si è parlato però solo dell’attore, ma anche del regista, del drammaturgo, del pensatore, del filosofo, dell’intellettuale, del letterato, che ha orbitato attorno al teatro, al cinema, alla televisione e alla radio, costruendo così una carriera che ha toccato molti aspetti dell’arte; nel corso del convegno infatti abbiamo ascoltato vari punti di vista di esperti del settore che hanno cercato di mettere a fuoco l’opera complessa di Carmelo Bene.

Dopo l’introduzione dell’organizzatore del convegno Armando Petrini, professore dell’Università di Torino, il primo a intervenire è stato Piergiorgio Giacchè, antropologo e autore della monografia Carmelo Bene: antropologia di una macchina attoriale. Innanzitutto Giacchè ha spiegato che lo scandalo provocato da Bene è dovuto principalmente a una sorta di “permalosità” del pubblico, che veniva direttamente provocato e soprattutto abbandonato, poiché assisteva a degli spettacoli creati appositamente per non essere compresi: siamo quindi di fronte a un uomo scandaloso sia dal punto di vista politico sociale che da quello dell’abbandono del teatro ufficiale, dove l’arte rompeva il senso comune e il rapporto con il pubblico. Giacché individua nella carriera di Carmelo Bene tre atti unici, tali per originalità e irripetibilità:

  • Separazione dal pubblico: si tratta di una scelta di solitudine, Bene si isolava usando soprattutto monologhi, distruggeva il tessuto drammatico evitando la prosa e usando il ritmo musicale, trasmettendo così l’impossibilità dell’azione teatrale. L’ironia era la chiave di questa separazione, che poteva irritare o attrarre il pubblico.
  • Sublimazione della voce: l’ironia si realizza separando il segno dal senso delle parole: in questo la voce è sublime. Tramite i risuonatori, che attraversano il corpo, sembra di stare in ascolto di se stessi e non della voce dell’attore; ogni frase detta sembra essere una domanda che diventa teatralmente reale. La sublimazione della voce fa sparire la conversazione, e questo eco ha sempre l’accento finale, come una musica in levare.
  • Sparizione della macchina attoriale: Come può l’attore sparire? Negandosi deve sparire l’identità, che non è altro che una imposizione sociale che annulla la vita. L’attore deve diventare inorganico, una macchina che possa innalzarsi sopra di esso.

Il secondo intervento è stato di Emiliano Morreale, docente di Cinema presso l’Università di Roma, che ha analizzato la figura cinematografica di Bene. Quest’ultimo affermava che il cinema non fosse mai esistito e per questo possiamo intuire che per lui la macchina da presa fosse in realtà uno strumento per accentuare ancora di più la separazione dal pubblico. Attraverso questo mezzo egli voleva complicare ancora di più la visione, il film è un dispositivo per l’accecamento attraverso l’eccesso di colori, oggetti e immagini. La negazione del cinema di Bene è poi un modo per interrogarsi sul cinema stesso, che forse è un’arte con delle potenzialità inespresse, che non ha mai raggiunto i suoi obbiettivi. Anche in questo caso Bene mostra l’impossibilità di fare cinema negandolo, realizzando quindi delle opere totalmente diverse da qualsiasi film lo avesse preceduto e sabotando una dopo l’altra tutte le potenzialità del cinema: distrugge la sceneggiatura, il montaggio diventa un momento di distruzione delle riprese e il doppiaggio la distruzione del montaggio; ogni atto della realizzazione del film è un’opera d’arte di distruzione pura.

Donatella Orecchia, anche lei docente presso l’Università di Roma, ci parla invece del Non – Attore che è stato Bene, riferendosi alla perdita dell’aura dell’attore che si confronta con il suo doppio grottesco che deride la tensione al tragico e ribalta parodicamente il senso di un teatro che non riesce a riconoscere la sua impossibilità. Bene studia le tecniche del Grande Attore per poi citarle ribaltandole completamente, ma studia anche con passione Ettore Petrolini, nel quale possiamo individuare un suo “predecessore” per l’idea della deformazione così esasperata che anela alla sparizione.

Dopo la pausa  ci accoglie Roberto Tessari, a lungo docente dell’Università di Torino, con un intervento dal taglio filosofico che analizza il romanzo e il film Nostra Signora dei Turchi, soprattutto per quanto riguarda l’accostamento della figura del santo e dell’attore. Tessari individua come elemento comune quello di eccedere tutte le norme, infrangere ogni limite per raggiungere uno stato di creatività simile all’estasi del Santo. L’attore è colui che la visione mistica non può o/e non vuole averla, mentre il Santo è chi riesce ad averla e ci crede fermamente. Questo rapporto tra attore e santo si basa sulla negazione dell’Io: oggettivarsi è l’obbiettivo comune, il Santo vive un’illusione di oggettivarsi in sé, di identificarsi in questo modo con Dio, mentre l’attore persegue l’eclissi del proprio Io tramite un’idiozia controllata.

Sergio Ariotti, studioso e critico, direttore del Festival delle Colline Torinesi, ci racconta invece in maniera aneddotica, e per questo affettuosa e divertente, il periodo della registrazione dell’Otello televisivo di Carmelo Bene nel ‘79, alla quale ha potuto assistere personalmente. Anche se questa azione rientrava in una prassi piuttosto consolidata in quegli anni, ovvero di riprendere uno spettacolo teatrale e registrarlo negli studi televisivi, lo scontro di Carmelo con il mezzo televisivo fu molto interessante. Bene non voleva adottare una tecnica di ripresa standard, le sue erano riprese estenuanti quasi come performance teatrali. Bene aveva un approccio innovativo che lo ha portato a diversi scontri con gli operatori e a difficoltà. Va però ricordato che chi ha vissuto queste riprese si trovava di fronte a un Genio che stava sconvolgendo e rivoluzionando questo tipo di lavoro con consapevolezza, poiché Carmelo Bene sapeva tutto anche degli aspetti più tecnici, faceva delle richieste chiare e specifiche e la sua fu quindi anche una grandissima lezione di tecnica televisiva su come superare ad esempio il guaio dei contrasti, dato che aspirava a una saturazione dei bianchi che sembrava impossibile ai registi. Purtroppo la messa in onda di questo Otello, nel 2000, non è riuscita a sottolineare lo sperimentalismo dato che il materiale nel frattempo era stato interamente digitalizzato; quella che si può vedere ad oggi non è altro che una rielaborazione dell’opera che ci dà solo il senso delle riprese: Bene non ci mise mai mano direttamente, il montaggio è infatti quello classico televisivo e possiamo dunque concludere che quasi sicuramente lui lo avrebbe fatto in maniera totalmente differente.

A conclusione di questa interessante giornata Franco Prono, docente di Cinema all’Università di Torino, ci parla di che cosa ha significato l’intervento di Carmelo Bene all’interno della televisione italiana, proiettando alcuni spezzoni di trasmissioni alle quali Bene partecipò come ospite. Quello che si può notare è che Bene si presta al gioco della trasmissione in cui si trova, ovviamente esprimendo il suo punto di vista, ma mantenendo nelle diverse occasioni il giusto profilo richiesto dallo spettacolo al quale era stato invitato. Nonostante quindi egli abbia più volte espresso un giudizio negativo sulle trasmissioni televisive e su chi le realizza, Bene secondo Prono si presta ad esse come un vero uomo di spettacolo, camaleontico leone da palcoscenico che sa adattarsi con intelligenza a tutte le situazioni: un’ulteriore contraddizione presente all’interno del grande, e scandaloso, Carmelo Bene.

A cura di Alice Del Mutolo

LE BARUFFE CHIOZZOTTE, UNA COMICA MALINCONIA CON INTERVISTA AD ANGELO TRONCA

Le Baruffe Chiozzotte, regia di Jurij Ferrini, è in scena al Teatro Gobetti di Torino dal 21 Novembre al 17 Dicembre 2017.

Il famoso testo di Carlo Goldoni, uno dei più divertenti scritti dall’autore, ritrae l’atmosfera della vita popolana del Veneto del ‘700: uomini un po’ rozzi, istintivi, bloccati nel rispetto dell’onore e delle tradizioni, prima fra tutte il matrimonio, che è il motore centrale che governa tutte le azioni dei personaggi. Ci sono cinque donne che cuciono merletti in attesa del ritorno degli uomini, in attesa di essere chieste in spose: due di loro sono già maritate e fanno quasi da madri alle altre tre ragazze che non vedono l’ora di andare in spose all’uomo che più le affascina. E da un piccolo corteggiamento mal riuscito scaturisce la grande baruffa che porterà tutti i personaggi di fronte alla legge: Isidoro, interpretato dal regista, è il cogitore veneziano che non solo riuscirà a portare la pace tra le due famiglie in litigio, ma combinerà anche i tre matrimoni.

La traduzione in italiano dell’opera, scritta in dialetto veneto,  restituisce alla perfezione il ritmo originario e rende comprensibile a tutti la storia. L’unico a parlare in dialetto (che in realtà si trasforma in una lingua inventata splendidamente comica e incredibilmente chiara a tutti) è il personaggio di Fortunato (Angelo Tronca). Tutti gli  attori hanno ottimi tempi comici e usano il corpo in  armonia con lo spazio. I personaggi sono dipinti con affetto, sono tutti simpatici e in fondo al loro cuore buoni, con valori puri nella loro semplicità; ognuno di loro è ben tratteggiato, e soprattutto i personaggi femminili hanno una personalità definita e forte. Infatti, sono  loro a causare e alimentare i litigi, mentre gli uomini sembrano quasi marionette mosse dalle  gelosie e dalle chiacchiere femminili.

Questa commedia però non è solamente risate e ironia, racchiude un nucleo problematico e malinconico, come rivela lo stesso regista. Parla, infatti, di uomini che stanno dieci mesi in mare, facendo una vita molto dura  e tenendo in pensiero i loro cari rimasti a casa. Le  fanciulle sono ossessionate dal matrimonio, visto più che come un momento gioioso, come un modo per andarsene di casa. Per sposarsi basta darsi la  mano, gesto che può diventare meccanico, come meccaniche e ripetitive appaiono le vite di questi giovani. Inoltre, mancano figure genitoriali di riferimento, sebbene siano poi gli uomini più maturi a cercare di far ragionare tutti e a voler riportare la serenità.

Interessante la scelta di Ferrini di trasporre la vicenda in un contesto meta teatrale: stiamo infatti assistendo a una prova aperta, non esiste la quarta parete né l’illusione del teatro, solo un abbozzo di  scenografia. I costumi sono normali abiti di tutti i giorni, anche se ogni attore ha uno stile che lo differenzia dall’altro e che richiama il carattere del proprio personaggio. A ricordare l’epoca storica di questa commedia stanno dei manichini sullo sfondo vestiti con abiti settecenteschi. Così il passato e il presente si fondono nelle Baruffe senza tempo.

di Carlo Goldoni
traduzione Natalino Balasso
con Jurij Ferrini, Elena Aimone, Matteo Alì, Lorenzo Bartoli, Christian Di Filippo, Sara Drago, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Rebecc a Rossetti, Michele Schiano di Cola, Marcello Spinetta, Angelo Tronca, Beatrice Vecchione
regia Jurij Ferrini
scene Carlo De Marino
costumi Alessio Rosati
luci Lamberto Pirrone
suono Gian Andrea Francescutti
regista assistente Marco Lorenzi
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

di Alice Del Mutolo

INTERVISTA AD ANGELO TRONCA

Oggi è qui con noi Angelo Tronca, un attore che ha collaborato con il teatro Stabile di Torino interpretando il personaggio di Fortunato nello spettacolo. Insieme a lui, cercheremo di capire meglio il suo ruolo, la sua formazione e le sue passioni.

L’arte del teatro rappresenta spesso una missione. Talvolta questa strada si intraprende per talento. A volte, invece, per gioco. Tu come mai hai deciso di intraprendere la carriera attoriale?
E’ una domanda a cui non so dare una risposta ben precisa. Sono stati un insieme di fattori a indirizzarmi su questa strada. Il primo fra tutti è stato frequentare un corso di teatro al liceo. Lì, ho incontrato anche delle compagne di scuola molto carine. Dopo poco tempo avevo iniziato a divertirmi, riuscivo ad esprimere quello che avevo dentro, provando, di conseguenza, nuove emozioni. Così, terminato il liceo, ho fatto il provino per entrare al teatro Stabile di Torino e mi hanno preso. 
 
Spesso la comprensione del proprio dono di attore passa attraverso la conoscenza di un ruolo, di un carattere, di un personaggio. Quale personaggio teatrale ti è piaciuto interpretare di più? Quale ti ha segnato?
 
In realtà sono due i personaggi che mi hanno colpito maggiormente. Il primo è Aspettando Godot sempre sotto la regia di Jurij Ferrini, in cui ho interpretato Pozzo: un soggetto fuori di testa, tratto dalla piéce di Samuel Beckett, in questo testo e attraverso questo ruolo, mi sono dovuto liberare di ogni tipo di freno. Il secondo invece è il personaggio di Don Sallustio portato recentemente con Marco Lorenzi tratto da Ruy Blas, un dramma di Victor Hugo. Questo testo ha un contenuto molto avvenente, strutturato su passioni sfrenate e su una scrittura ottocentesca. In questo caso, ho dovuto interpretare un uomo spietato ed estremamente malvagio. 
 
Le Baruffe Chiozzotte, testo seminale nella carriera drammaturgica di Goldoni, è scritto per essere recitato in dialetto. Come mai sei stato l’unico nelle Baruffe Chiozzotte a parlare nella lingua che dà il titolo al lavoro? 
 
Allora, Goldoni ha scritto questa piéce teatrale dove tutti i personaggi parlavano Chiozzotto, un particolare dialetto di Chioggia. Solo il personaggio di Isidoro parlava Veneziano mentre tutti gli altri “pescatori” comunicavano un dialetto più duro. Tra questi pescatori ce n’era uno che parlava in dialetto talmente stretto che lo capivano solo poche persone come ad esempio sua moglie e questo era un motore comico che utilizzò Goldoni. Oggi sarebbe stato difficile per il nostro pubblico riuscire a portare in scena queste differenze dialettali. Così Jurij Ferrini ha modificato il testo facendo parlare tutti in italiano tranne il mio personaggio, Fortunato, per lasciare quella chiave comica come nell’ epoca di Goldoni. –
 
Le particolarità dialettali presso rendono difficile la caratterizzazione di un personaggio, soprattutto se comico. E’ stato complicato interpretare il ruolo di Fortunato? 
 
Sì, perché lo scoglio linguistico era molto forte, quindi la prima necessità era rendere armonico e fluido l’eloquio. Il personaggio doveva, infatti, risultare naturale, senza forzature
 
Il lavoro di squadra, di gruppo e l’interazione con ogni genere di operatore del settore sono caratteristiche indispensabili per un buon attore. Che rapporto hai con la compagnia dello Stabile? 
 
Direi buono, nel senso che è il secondo teatro più importante d’Italia, mentre come teatro Nazionale è il primo. La compagnia è giovane e stimolante ed è sempre interessante lavorare in questo contesto. Purtroppo a causa dei tagli alla cultura, per questioni economiche, accorciano sempre di più i tempi di prova. Noi ci siamo trovati con sole tre settimane disponibili a ridosso del debutto. In questo modo sai già che non puoi metterti nella condizione di rischio, devi sapere già cosa devi fare. 
 
Il futuro dell’attore di teatro è spesso considerato incerto.Come ti vedi tra 10 anni? 
 
Mi vedo bene, forse migliore: sarò un uomo maturo di 43 anni. Spero di fare ancora teatro costruendo una realtà mia dove poter costruire e stabilizzare una mia poetica. Ho voglia di sperimentare un percorso autoriale. Infatti è il secondo anno che scrivo piece originali da dirigere e interpretare. Mi piace questa linea anche perché in Italia ci sono poche persone che intraprendono questa strada soprattutto scrivendo delle piece che coinvolgono altri attori. Il lavoro artistico è anche un impegno nei confronti dell’altro, del sistema e del mondo contemporaneo.

 

 

intervista a cura di Alessandra Nunziante