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TABULA RASA – DORIANA CREMA
ph Alessandra Lai
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Due punti di vista per uno stesso spettacolo a cura di Bianca Ferretti e Gabriele Corbo
Continua la lettura di LA NOTTE – PIPPO DELBONOIL RISVEGLIO – COMPAGNIA PIPPO DELBONO
Al teatro Astra è andato in scena, tra qualche contestazione, lo spettacolo Il risveglio di e con Pippo Delbono e la sua Compagnia.
L’attore comincia parlando di sé, di alcuni momenti della sua vita e della sua giovinezza.
Racconta di un amore che l’ha provato nella salute del corpo e della mente, tracciando un percorso che introduce il pubblico allo spettacolo vero e proprio.
In teatro, tra la musica del violoncello suonato da Giovanni Ricciardi, e le parole di Pippo Delbono, si assiste quasi ad un rito funebre, certamente ad un atto commemorativo.
Bobò, membro della Compagnia, non c’è più.
Vengono ricordati i suoi gesti, la sua voce, il suo modo di relazionarsi con gli altri, con i grandi artisti ed i compagni. Il conforto dato dalla sua presenza.
La musica, in parte proposta in video, in parte suonata dal vivo, accompagna l’attore nella sua narrazione del dolore e della perdita. Lo spettacolo rivela le fragilità del personaggio, le sue paure.
E così la paura si intreccia al ricordo di chi non c’è più. La mancanza dell’altro crea incertezza, è quasi come dover imparare nuovamente a vivere. Si fa strada nella mente la consapevolezza che, nel procedere, nulla sarà più come prima.
Al tema della perdita, oltre a quello dell’amore e della paura, si intreccia quello della guerra come distruzione e incombenza della morte. In questo la scrittura, in particolare sotto forma di lettera, permette il tramandarsi di memorie pregne di dolore e rassegnazione ma, in fondo, anche di speranza e desiderio di cambiamento.
Sulla scena vengono proposti due possibili finali. Dei due, il secondo, forse supportato da quel potere di coinvolgere che ha la musica, ha fatto sì che, anche i più scettici, si sciogliessero in un fragoroso applauso.
Lo spettacolo, che chiude il Festival delle colline torinesi e inaugura la stagione del TPE Teatro Astra, ha generato molto fermento tra il pubblico. Qualcuno, durante la recita, ha dichiarato di pretendere il rimborso del biglietto e, al momento degli applausi, ha fischiato, mostrando tutto il suo disprezzo.
Delbono, vedendo lo spettatore agitarsi sulla poltrona, gli ha risposto con il tipico gesto italiano della mano a carciofo.
Non sono mancate, al termine della recita, anche all’esterno del teatro, altre polemiche e confronti accesi tra gli spettatori.
Il teatro, troppo spesso relegato a luogo del silenzio e del mistero, si è riempito di suoni: voci sovrapposte, gesti caotici, passi affrettati. Idee.
Silvia Picerni
Uno spettacolo di: Pippo Delbono
Con: la Compagnia Pippo DelbonoDolly Albertin, Margherita Clemente, Pippo Delbono, Ilaria Distante, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Grazia Spinella
E con: Giovanni Ricciardi (violoncello e arrangiamenti)
Luci: Orlando Bolognesi
Costumi: Elena Giampaoli
Suono: Pietro Tirella
Capo macchinista: Enrico Zucchelli
Organizzazione: Davide Martini
Assistente di produzione: Riccardo Porfido
Direttore tecnico: Orlando Bolognesi
Personale tecnico in tournée: Manuela Alabastro (suono), Carola Tesolin (costumi), Corrado Mura (luci), Enrico Zucchelli (scena)
Produttore esecutivo: Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
Coproduttori: Teatro Stabile di Bolzano (Italia), Teatro Metastasio di Prato (Italia), Théâtre de Liège (Belgio), Sibiu International Theatre Festival/Teatrul Național “Radu Stanca” Sibiu (Romania), Teatrul Național “Mihai Eminescu” Timisoara (Romania), Istituto Italiano di Cultura di Bucarest (Romania), TPE – Teatro Piemonte Europa/Festival delle Colline Torinesi (Italia), Théâtre Gymnase-Bernardines Marseille (Francia)
In collaborazione con: Centro Servizi Culturali Santa Chiara di Trento (Italia), Le Manège Maubeuge – Scène Nationale (Francia)
PAGINA – lo spazio dell’immaginazione
Festival delle Colline Torinesi. Fondazione Merz. 1 e 2 novembre 2024. Giovanni Ortoleva e Valentina Picello danno origine a Pagina, spettacolo in cui le parole del libro di Italo Calvino Il cavaliere inesistente si fanno vive e tangibili.
Leggi tutto: PAGINA – lo spazio dell’immaginazioneAttraversando un percorso nell’arte povera delle opere di Mario Merz si giunge in una piccola stanza adibita ad area di spettacolo. La scenografia è minimalista ed essenziale, costituita da luci di scena e un palcoscenico costituito da due assi bianche inclinate che, creando una conca nel mezzo, assumono l’aspetto di un libro. Il vociare delle persone che scema man mano al diminuire dell’illuminazione immerge in una dimensione teatrale intima e raccolta. Buio e Silenzio. Sul palco appare una piccola luce che ricorda una lampada da lettura che illumina il palco-libro. Con essa appare una figura che si muove attraverso le pagine bianche: si tratta di Suor Teodora, personaggio impersonato da Valentina Picello. Suor Teodora con le sue prime parole dà voce a riflessioni che nascono davanti a una finestra immaginaria. “Cos’è che ti sveglia? Un rumore o un pensiero?” questo è il quesito di base attraverso il quale si sviluppa lo spettacolo. Il valore delle parole e del silenzio, la forza del pensiero e dell’immaginazione sono i punti focali di quest’opera. Nelle troppe parole che emergono da una scrittura ansiosa può esserci una perdita di significato, nel silenzio, invece, si dà spazio al pensiero, in grado di dare consistenza all’immaginazione e arrivare all’essenza di tutto. Allo stesso modo la durata dello spettacolo, trenta minuti, è ridotta, ma non per questo l’opera risulta meno significativa. La pagina bianca non è solo difficoltà a scrivere ma spazio per poter immaginare e creare. Quasi in una dimensione onirica, lo spettacolo mostra come il pensiero, l’immaginazione e il sogno possano avere effetti tangibili sulla realtà. L’attrice, dotata di ottima presenza scenica, è in grado di creare un legame empatico con lo spettatore che, proprio come il cavaliere inesistente di Calvino, esiste perché sente e compartecipa all’esperienza teatrale. Microcosmo e macrocosmo sono legati da una riflessione esistenziale. Il mondo tangibile e il mondo delle idee trovano una sintesi nella realtà e il cavaliere inesistente “essendo tutto non è niente”, è in grado di essere e non essere nello stesso momento, di esistere pur essendo intangibile. Ambiente suggestivo e coinvolgente, attrice capace di trasmettere tutto anche senza dire niente. Un’aderenza al personaggio e all’autore capaci di rendere giustizia a un libro talvolta incompreso e sottovalutato rispetto agli altri capolavori di Calvino. Lo spettacolo è stato un piacevole viaggio introspettivo apparentemente leggero ma denso di significato.
Marta Cavalliere e Gabriele Da Campo,
di Giovanni Ortoleva e Riccardo Baudino
regia Giovanni Ortoleva
liberamente ispirato a “Il cavaliere inesistente” di Italo Calvino
con Valentina Picello
musiche Pietro Guarracino
movimenti a cura di Anna Manella
luci Davide Bellavia
produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse di Genova
fotografie Andrea Macchia
HANNAH – SERGIO ARIOTTI
Nella Sala Pasolini del Teatro Gobetti è andato in scena lo spettacolo Hannah.
Il monologo, che vede la drammaturgia di Sergio Ariotti, è interpretato da Francesca Cutolo.
L’intento è quello di raccontare la storia di Hannah Arendt, filosofa e politologa tedesca che ha concentrato i suoi studi sui meccanismi dei totalitarismi, risalendo alle cause ed evidenziando le conseguenze di certi eventi storici.
Il lavoro è ambientato per metà nel 1943, quando Hannah Arendt tiene una conferenza riguardo la condizione dei tedeschi giunti in America a seguito dell’avvento di Hitler, per poi cambiare prospettiva e riportarci ai giorni nostri: è una studiosa, durante un discorso pubblico, ad offrirci la propria narrazione della Arendt, suggerendo alla memoria alcuni accadimenti della vita della filosofa, utili ad evincere la direzione del suo pensiero.
La prima parte dello spettacolo vede la protagonista alle prese con degli oggetti contenuti in una valigia.
Li estrae uno alla volta per poi spiegarne il significato, fino ad arrivare, esasperata, a rovesciare la valigia e di conseguenza quanto contiene.
Il gesto esprime la voglia di mettersi a nudo, di raccontarsi senza censure, anche nel dolore e nella perdita.
Nel prepararsi ad assistere alla seconda parte dello spettacolo, il pubblico si trova a vivere un’attesa piuttosto lunga, che tende inevitabilmente a farlo uscire dall’atmosfera creatasi in precedenza.
Qualcuno beve un sorso d’acqua, qualcun altro ne approfitta per scambiarsi un dolce bacio sulle labbra.
L’attrice rientra in scena con un cambio d’abito parziale e con i capelli sciolti (prima erano raccolti con un’acconciatura bassa).
Ci saremmo aspettati forse una metamorfosi diversa, una rottura più netta tra passato e presente.
Il tentativo sta nel portare in scena (ancora e ancora) quei temi che sempre sono attuali: la guerra, il potere, l’eliminazione, il viaggio, la vita, la morte.
L’attrice, per tutta la seconda parte dello spettacolo, si trova a rimbalzare da un leggio all’altro.
Legge con enfasi mentre dietro di lei scorrono le fotografie di Andrea Macchia, immagini di quegli stessi oggetti che nella prima parte dello spettacolo erano stati mostrati.
Dopo un lungo momento di lettura, lo spettacolo termina con la proiezione di una frase estratta da Gli oggetti cari, poesia di Bertolt Brecht.
Ancora una volta, l’accento sembra ricadere insistente, ancor prima che su Hannah Arendt, sugli oggetti della memoria.
Silvia Picerni
Liberamente tratto da: “Noi rifugiati” di Hannah Arendt
Drammaturgia e regia: Sergio Ariotti
Con: Francesca Cutolo
Aiuto regista: Andrea Luchetta
Assistente: Beatrice Biondi
Immagini: Andrea Macchia
Costumi: TPE – Teatro Piemonte Europa
Con la consulenza di: Augusta Tibaldeschi
Sarta: Milena Nicoletti
Tecnico: Emanuele Vallinotti
Produzione: TPE – Teatro Piemonte Europa, Festival delle Colline Torinesi
ELOGIO DELLA VITA A ROVESCIO – DARIA DEFLORIAN
Andare avanti per inerzia. «Aveva creduto nella sua bontà connaturata, nella sua umanità, ed era vissuta di conseguenza, senza mai fare del male a nessuno. Si era sempre impegnata, indefessamente, a fare le cose nel modo giusto; tutto il suo successo era dipeso da questo, e lei avrebbe continuato così per sempre».[1] Conservare lo stato delle cose. Finché non c’è un rallentamento e si rompe qualcosa. «Di colpo, fu assalita dalla sensazione di non aver mai davvero vissuto in questo mondo. […] Anche da bambina, per quanto indietro si spingesse la sua memoria, non aveva fatto altro che subire».[2]
Continua la lettura di ELOGIO DELLA VITA A ROVESCIO – DARIA DEFLORIANSAHARA – CLAUDIA CASTELLUCCI
L’essenzialità è una condizione nel teatro sempre difficile da maneggiare, ma è proprio ciò che Claudia Castellucci fa, alla sua quinta presenza al estival, insieme alla compagnia Mòra. In Sahara riduce il teatro al grado zero, in scena ci sono solo tre elementi: corpo, luce e suono.
La scena iniziale delinea già l’atmosfera che accompagnerà tutto lo spettacolo: la platea e il palco sono immersi nel buio e nel silenzio quando la luce di una torcia inizia ad illuminare un attore sullo sfondo. Non appena il palco diventa più visibile, si nota la presenza di sei attori in uno spazio completamente vuoto, i loro vestiti sono rovinati, hanno colori tenui e di tonalità di marrone. Questi sono i colori protagonisti dello spettacolo: sembra di trovarsi in un deserto, intorno a loro non c’è nulla, la luce è di un colore caldo e le immagini non sono del tutto nitide, c’è del fumo che rende l’ambiente “opaco”, come se fossero immersi nella polvere o nella sabbia.
Continua la lettura di SAHARA – CLAUDIA CASTELLUCCITHEBES: A GLOBAL CIVIL WAR – PANTELIS FLATSOUSIS
Libano, Repubblica Democratica del Congo, Bosnia, Grecia. Quattro performer, quattro lingue, quattro nazionalità, unite da un passato (e spesso un presente) di guerra civile, di massacri tra vicini, di case e intere famiglie bombardate e distrutte. E proprio di questa sofferenza parla Thebes: A Global Civil War di Pantelis Flatsousis, presentato al Teatro Astra all’interno del Festival delle Colline Torinesi 2024/25.
Leggi tutto: THEBES: A GLOBAL CIVIL WAR – PANTELIS FLATSOUSISLa scena è vuota e piena allo stesso tempo: ad abitarla non sono solo i corpi dei quattro attori e i loro racconti, ma soprattutto chi non c’è più, cancellato così radicalmente dalla guerra da lasciare come unica traccia di sé i propri abiti. I vestiti, che coprono ogni centimetro del pavimento, ci ricordano che in questo caso anche sopravvivere e avere la possibilità di sedersi davanti ad una telecamera e raccontare (e raccontarsi) è un privilegio. La recitazione oscilla come un pendolo tra l’incertezza della reminiscenza della sofferenza, in cui il performer mantiene sì la sua individualità, ma si fa mediatore dell’esperienza secolare di conflitti sanguinolenti e fratricidi, e la perfetta dizione di attori professionisti alle prese con un classico della cultura teatrale occidentale. I sette a Tebe si svolge lungo tutta la narrazione come un fil rouge storico, ma soprattutto profondamente umano, con lo scopo di sottolineare come questi argomenti non escano mai veramente dalla sfera dell’attualità.
Questo quartetto di lingue, estranee all’orecchio dello spettatore, lo costringe ad abbandonare la comoda posizione passiva sulle poltrone imbottite del teatro e a mettersi in gioco, riflettendo così in parallelo lo sforzo di testimoniare, di raccontare l’orrore che viene fatto dagli attori.
Il costante dialogo tra scena, video live e film (così profondo da concludere la spettacolo con la proiezione dei titoli di coda) contribuisce a rendere più coinvolgente la narrazione, eliminando la distanza tra attori e spettatori attraverso il primo piano sul volto e sullo sguardo dei performer, superando i limiti naturali del teatro stesso. La sensazione che rimane sulla pelle dello spettatore una volta conclusosi lo spettacolo è di essersi intromesso di nascosto dietro le quinte delle riprese di un documentario, di aver potuto vedere ciò che si cela oltre l’inquadratura.
Lo spettacolo ovviamente non si propone di esaurire un argomento così vasto come la guerra civile, ma nonostante ciò, dice molto più di tanti altri spettacoli che pretendono di informare ed educare sugli stessi argomenti. Thebes – A Global Civil War non scade mai nel banale, nel moralismo spicciolo che ripete massime vuote e ovvie; allo spettatore non viene concesso di scrollarsi di dosso lo sguardo e le parole dei quattro performer con un applauso. Davanti a una narrazione di questo calibro non c’è catarsi che tenga.
Questo spettacolo è testamento del vero potere del teatro e del senso della sua sopravvivenza nel mondo contemporaneo: non il rudere di un’epoca passata da adorare come un’icona e da conservare in una teca in qualche museo, ma la necessità radicata nelle caverne più profonde dell’Io umano di comunicare, di raccontare e di stabilire un rapporto fisico, visivo e mentale con un altro essere umano in carne ed ossa.
Barbara Turinetto
Uno spettacolo di Pantelis Flatsousis & the ensemble / Spectrum
Regia: Pantelis Flatsousis
Drammaturgia: Panagiota Konstantinakou
Interpreti: Vedrana Bozinovic, Racha Baroud, Albertine Itela, George Paterakis
Scene e costumi: Constantinos Zamanis
Musiche originali: Henri Kergomard
Video: Constantine Nisidis
Disegno sonoro: Christina Thanasoula
Assistente alla drammaturgia: Ioanna Lioutsia
Consulente scientifico: Manos Avgerides
Assistenti alla regia: Athena Bakoyianni, Anna Karamanidou
Manager di produzione: Rena Andreadaki, Zoi Mouschi
Produzione: Athens Epidaurus Festival
Con il patrocinio di Consolato Generale della Repubblica Ellenica in Torino
Con la collaborazione di Baroneostu
USODIMARE – VALERIO BINASCO
Anche quando sveste i panni del personaggio, Valerio Binasco sale in scena con quella naturalezza, nel senso di autenticità e profondità in cui la intende Carlo Cecchi, che dice la realtà (sempre secondo la sua accezione di gioco reale) del suo teatro.
Il corpo scenico – concreto e nervoso – è, in un modo quasi sensuale (il teatro è un fatto anche “erotico”), attratto dal palcoscenico, dal luogo fisico in cui sta agendo. La sua presenza concitata, vibrante e dinamica, incarna quel tipo di teatro – che non incontro di frequente – molto poco concettuale (nel senso di priorità data all’elaborazione intellettuale) e capace, invece, di verità: ciò che Binasco fa sulla scena viene fuori come liberazione di quella «bestia teatrale» che abita la sua anima. Come qualcosa di visceralmente sentito.