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SAHARA – CLAUDIA CASTELLUCCI

L’essenzialità è una condizione nel teatro sempre difficile da maneggiare, ma è proprio ciò che Claudia Castellucci fa, alla sua quinta presenza al estival, insieme alla compagnia Mòra. In Sahara riduce il teatro al grado zero, in scena ci sono solo tre elementi: corpo, luce e suono.

La scena iniziale delinea già l’atmosfera che accompagnerà tutto lo spettacolo: la platea e il palco sono immersi nel buio e nel silenzio quando la luce di una torcia inizia ad illuminare un attore sullo sfondo. Non appena il palco diventa più visibile, si nota la presenza di sei attori in uno spazio completamente vuoto, i loro vestiti sono rovinati, hanno colori tenui e di tonalità di marrone. Questi sono i colori protagonisti dello spettacolo: sembra di trovarsi in un deserto, intorno a loro non c’è nulla, la luce è di un colore caldo e le immagini non sono del tutto nitide, c’è del fumo che rende l’ambiente “opaco”, come se fossero immersi nella polvere o nella sabbia. 

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THEBES: A GLOBAL CIVIL WAR – PANTELIS FLATSOUSIS

Libano, Repubblica Democratica del Congo, Bosnia, Grecia. Quattro performer, quattro lingue, quattro nazionalità, unite da un passato (e spesso un presente) di guerra civile, di massacri tra vicini, di case e intere famiglie bombardate e distrutte. E proprio di questa sofferenza parla Thebes: A Global Civil War di Pantelis Flatsousis, presentato al Teatro Astra all’interno del Festival delle Colline Torinesi 2024/25.

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La scena è vuota e piena allo stesso tempo: ad abitarla non sono solo i corpi dei quattro attori e i loro racconti, ma soprattutto chi non c’è più, cancellato così radicalmente dalla guerra da lasciare come unica traccia di sé i propri abiti. I vestiti, che coprono ogni centimetro del pavimento, ci ricordano che in questo caso anche sopravvivere e avere la possibilità di sedersi davanti ad una telecamera e raccontare (e raccontarsi) è un privilegio. La recitazione oscilla come un pendolo tra l’incertezza della reminiscenza della sofferenza, in cui il performer mantiene sì la sua individualità, ma si fa mediatore dell’esperienza secolare di conflitti sanguinolenti e fratricidi, e la perfetta dizione di attori professionisti alle prese con un classico della cultura teatrale occidentale. I sette a Tebe si svolge lungo tutta la narrazione come un fil rouge storico, ma soprattutto profondamente umano, con lo scopo di sottolineare come questi argomenti non escano mai veramente dalla sfera dell’attualità.

Questo quartetto di lingue, estranee all’orecchio dello spettatore, lo costringe ad abbandonare la comoda posizione passiva sulle poltrone imbottite del teatro e a mettersi in gioco, riflettendo così in parallelo lo sforzo di testimoniare, di raccontare l’orrore che viene fatto dagli attori.

Il costante dialogo tra scena, video live e film (così profondo da concludere la spettacolo con la proiezione dei titoli di coda) contribuisce a rendere più coinvolgente la narrazione, eliminando la distanza tra attori e spettatori attraverso il primo piano sul volto e sullo sguardo dei performer, superando i limiti naturali del teatro stesso. La sensazione che rimane sulla pelle dello spettatore una volta conclusosi lo spettacolo è di essersi intromesso di nascosto dietro le quinte delle riprese di un documentario, di aver potuto vedere ciò che si cela oltre l’inquadratura.

Lo spettacolo ovviamente non si propone di esaurire un argomento così vasto come la guerra civile, ma nonostante ciò, dice molto più di tanti altri spettacoli che pretendono di informare ed educare sugli stessi argomenti. Thebes – A Global Civil War non scade mai nel banale, nel moralismo spicciolo che ripete massime vuote e ovvie; allo spettatore non viene concesso di scrollarsi di dosso lo sguardo e le parole dei quattro performer con un applauso. Davanti a una narrazione di questo calibro non c’è catarsi che tenga.

Questo spettacolo è testamento del vero potere del teatro e del senso della sua sopravvivenza nel mondo contemporaneo: non il rudere di un’epoca passata da adorare come un’icona e da conservare in una teca in qualche museo, ma la necessità radicata nelle caverne più profonde dell’Io umano di comunicare, di raccontare e di stabilire un rapporto fisico, visivo e mentale con un altro essere umano in carne ed ossa.

Barbara Turinetto

Uno spettacolo di Pantelis Flatsousis & the ensemble / Spectrum

Regia: Pantelis Flatsousis

Drammaturgia: Panagiota Konstantinakou

Interpreti: Vedrana Bozinovic, Racha Baroud, Albertine Itela, George Paterakis

Scene e costumi: Constantinos Zamanis

Musiche originali: Henri Kergomard

Video: Constantine Nisidis

Disegno sonoro: Christina Thanasoula

Assistente alla drammaturgia: Ioanna Lioutsia

Consulente scientifico: Manos Avgerides

Assistenti alla regia: Athena Bakoyianni, Anna Karamanidou

Manager di produzione: Rena Andreadaki, Zoi Mouschi

Produzione: Athens Epidaurus Festival

Con il patrocinio di Consolato Generale della Repubblica Ellenica in Torino

Con la collaborazione di Baroneostu

LAPIS LAZULI – EURIPIDES LASKARIDIS

IRONIA E CRUDELTA’

ph Alessandra Lai

Euripides Laskaridis mette in scena uno spettacolo giocato sulle contraddizioni e nel contempo produce un effetto disarmonico, a tratti consapevolmente, ma che fa uscire il pubblico dal teatro con molti interrogativi.
Un esplosivo inizio ci accompagna in un’atmosfera burlesca, un lupo mannaro rivela la sua ferocia ma lo fa mostrando una poetica sensibile e commovente.
I personaggi grotteschi ricordano creature che hanno attraversato la nostra infanzia, qualcosa di sopravvissuto al passato e che nel presente ritornano con sottile ironia.
Lapis Lazuli è uno spettacolo dalla forte dualità e ci fa interrogare su chi sono i veri mostri, i crudeli, gli assassini…
Il titolo prende spunto da una pietra dal colore blu, lapislazuli, che deriva dal latino e dall’arabo e che viene ripreso dal greco bizantino,il suo colore blu dovuto ad un’alta concentrazione di lazurite al quale vengono attribuiti svariati significati e proprietà spirituali.
Tra il terreno e il celeste i performer si muovono con un linguaggio fatto di suoni vocali e di spari, si disperano si interrogano e si dimenano. Ed è ciò che più colpisce appunto di tutto lo spettacolo, la maestria degli interpreti che giocano in un teatro fatto di variazioni e contraddizioni.
Uno spettacolo coinvolgente, misterioso, sognante e inquietante.
Le maschere ti osservano sotto intrecci di luci e si avvia un viaggio che attraversa scambi di visioni, giochi di potere e crudeltà ampliate da voci dispotiche ed esaltate: chi è il vero cattivo?
Quando arriva, il silenzio si fa denso e violento e lascia per un momento quell’ilarità iniziale.
Un volto mascherato che si lascia intravedere a tratti e ci evoca una trappola, un varco che gli uomini non riescono ad affrontare, intrappolati dalle maschere della società.
Il canto del lupo rivestito di ricchi diamanti esalta il potere della ricchezza e il rito sacrificale del maialino è compiuto.



Alessandra Lai

Ideato e diretto da Euripides Laskaridis
Musiche originali di Giorgos Poulios
Consulente alla drammaturgia Alexandros Mistriotis
Scenografia di Sotiris Melanos
Luci di Stefanos Droussiotis
Effetti sonori di Yorgos Stenos
Costumi di Christos Delidimos e Alegia Papageorgiou
Oggetti di scena di Konstantinos Chaldaios
OSMOSIS coordinamento e comunicazione
produzione Onassis Stegi
con il supporto di Fondation d’entreprise Hermès
coproduzioneThéâtre de la Ville, Théâtre de Liège, Espoo Theatre Finland, Teatros del Canal, Teatro della Pergola Firenze, Festival Aperto / Fondazione I Teatri Reggio Emilia, the Big Pulse Dance Alliance festivals: Julidans, Torinodanza Festival / Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, One Dance Festival
cofinanziato dal Creative Europe Programme of the European Union
con il supporto di Megaron – the Athens Concert Hall con il supporto del
Ministero della Cultura Greco
grazie a Onassis AiR Fellowship
un ringraziamento speciale Dimitris Papaioannou & Tina Papanikolaou

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USODIMARE – VALERIO BINASCO

Anche quando sveste i panni del personaggio, Valerio Binasco sale in scena con quella naturalezza, nel senso di autenticità e profondità in cui la intende Carlo Cecchi, che dice la realtà (sempre secondo la sua accezione di gioco reale) del suo teatro. 
Il corpo scenico – concreto e nervoso – è, in un modo quasi sensuale (il teatro è un fatto anche “erotico”), attratto dal palcoscenico, dal luogo fisico in cui sta agendo. La sua presenza concitata, vibrante e dinamica, incarna quel tipo di teatro – che non incontro di frequente – molto poco concettuale (nel senso di priorità data all’elaborazione intellettuale) e capace, invece, di verità: ciò che Binasco fa sulla scena viene fuori come liberazione di quella «bestia teatrale» che abita la sua anima. Come qualcosa di visceralmente sentito.

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SALOMÈ – madalena reversa

La percezione dell’estasi

Ah! I have kissed thy mouth, Jokanaan, I have kissed thy mouth. There was a bitter taste on thy lips. Was it the taste of blood?… But perchance it is the taste of love….

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La compagnia madalena reversa torna al Festival delle Colline dopo il suo precedente lavoro Manfred del 2022.

No, non c’è nessun errore, il nome della compagnia è proprio in minuscolo, il motivo lo svelerò dopo; madalena reversa è un progetto artistico, creato da Maria Alterno e Richard Pareschi nel 2016, che fonde performing, visual arts e danza multimediale.

Dopo il teatro, la musica, l’opera e il cinema non poteva mancare la Salomè sotto aspetto rappresentativo di transmedia wave. Qui viene coreografata e interpretata da una bravissima Gloria Dorliguzzo.

Veniamo accolti da una nebbia che accompagna tutto lo spettacolo come un respiro sospeso nell’aria. Appare uno schermo che interagisce con noi, mostrandoci una frase dell’opera di Oscar Wilde: “Non ci sono Dèi adesso. Ho passato notti, cercandoli dappertutto. Non li ho trovati, Li ho chiamati, Non sono apparsi. Penso che siano morti.” Silenzio, poi a lenti e agognati passi, accompagnata da una musica tetra, entra Salomè. 

La musica o per meglio dire i suoni che pervadono la performance la fanno sentire un essere antropizzato dal malessere percepito come una condizione di fragilità umana. Le luci stroboscopiche e psichedeliche dialogano e danzano con la musica, s’intervallano alla forza del suono emettendo spasmi e sputando scie chimiche voltaiche.

Ha un significato profondo questa Salomè sia come drammaturgia musicale che come drammaturgia della danza, essendo l’opera teatrale già di per sé un dramma scritto nel periodo post-romantico di fine Ottocento. 

Siamo attratti da una performance fisica di danza non-danza, da un’interpretazione coreografica che, prendendo spunto dalle ultime pagine del testo, traduce le parole in movimenti coreutici, formando una drammaturgia del movimento all’interno di un discorso concentrato sulle azioni del solo corpo.

Il timing dei gesti di Salomè ci trasporta in un mondo onirico, tetro, illuminato solo da fievoli luci giallastre, rossastre, bluastre. I passi sono sintonizzati con le tonalità della musica e appaiono appesantiti da una forma epilettica che parte dai piedi fino ad arrivare allo stomaco. L’interpretazione del corpo e del movimento rimandano all’ansia del vivere contemporaneo.

Avvolta in una felpa nera, bermuda neri e stivaletti neri, questa Salomè non ci fa quasi mai vedere il viso, lo nasconde, come quando inarca il busto verso l’alto fino a farsi “tagliare” la testa e rimanere sospesa per pochi secondi: pura azione emozionante che sintetizza l’intera performance.

Ed eccolo il profeta, rappresentato come “Monolite Jokanaan”, causa di desiderio e di morte per Salomè. Egli urla, grida, maledice tutti emettendo suoni che irrompono nella sala come lampi diegetici. Salomè è attratta da lui ma viene respinta e qui inizia il climax tra di loro; tra una cambio stroboscopico e l’altro lei indossa una specie di museruola formata da una mezza protesi inferiore a mandibola argentata. Ed eccola danzare attorno ad lui, inteso come oggetto del desiderio. Lo vuole tutto per sé, si arriva ad un amplesso con lei che si butta ai suoi piedi, divarica le gambe, si spoglia dalla felpa per rimanere in una t-shirt grigio topo, luci e suoni la trasportano impazzendo tra loro e poi…poi buio di nuovo fino al momento dell’inizio della forza tragica. Una sorta di “danza dei sette veli” psicotica che culmina con la dura forza nell’uccisione di lui.

Posseduta e dilaniata dai sensi di colpa, Salomè irrompe con una mazza da baseball mentre sul finale una luce bianca accecante punta dritto sul pubblico.

Si arriva alla forza degli ultimi gesti, prima della catastrofe, ovvero avvicinarsi al “Monolite Jokanaan” per spogliarlo con ferocia dei veli e portarseli addosso come un senso di liberazione dagli atti impuri. Salomè si arrotola nella grande veste nera che avvolgeva lui. Sa che anche lei morirà e per questo vuole possederlo anche quando diventeranno un tutt’uno.

Lo schermo si riaccende, facendoci leggere che non esistono dèi e che tutto viene percepito dall’ invisibilità della forma.

BREVE INTERVISTA a Richard Pareschi

L.R: “perché madalena reversa e perché in corsivo?”

R.P: “semplice, perché viene confuso con un nome e cognome che esiste già quindi abbiamo pensato di scriverlo in corsivo, altro motivo viene riferito durante il Seicento alla Madalena in Estasi, proprio alla posizione del capo cioè reversa, ed era un’opera del Caravaggio che è stata ritrovata nel 2014 da Mina Gregorio, una delle più importante esperte sulle opere di Caravaggio nonché storica dell’arte italiana. Quindi il nome della nostra compagnia si lega alla percezione dell’estasi come nostra ricerca, legata alle teoria della filosofia contemporanea tedesca su una nuova visione di estetica, e tutta la nostra ricerca si basa sulla percezione, un oggetto che esce fuori da sé stesso oltre la sua reale funzione.”

L.R: “correggimi se sbaglio, ma il vostro Jokanaan lo rappresentate come un monolite, ispirandovi a “2001 a Space Odyssey” o sbaglio ?”

R.P: “beh, rappresenta il concetto di sacro, d’invisibile; è vero rappresenta il monolite da 2001, come invisibile che non si può toccare come il sacro è,  nella religione ebraica il velo (Kippà) dietro il “paroakeet” del tempio viene rubato da Erode. In tutta l’opera di Wilde tutti si chiedono che fine a fatto il velo, alla fine Erode ammette che è stato lui a rubarlo e quindi Salomè in qualche modo cerca sempre di toccare l’invisibile.”

L.R: “il metodo grotowskiano c’è nella performance di Gloria Dorliguzzo, o no?”

R.P: “no, cioè sotto il nostro punto di vista, dialogando con lei prima d’iniziare questo percorso, non siamo partiti da Grotowski, anche se dai nostri studi accademici c’è un allineamento ma è esterno. Dopodiché la struttura coreografica dei movimenti è proprio di Gloria, noi abbiamo tracciato un percorso anche con il nostro compositore delle musiche originale Donato Di Trapani, abbiamo elaborato una drammaturgia musicale come punto di partenza dei nostri lavori che poi diventa veramente un monolite, un punto intoccabile e Gloria su questo ha voluto fare una ricerca di qualità dei movimenti, dopo di che come coreografa della pièce… quindi ti dico un ni da parte nostra, mentre per lei, non avendo una formazione teatrale accademica tradizionale, non ci ha fatto sapere se conosce questo metodo grotowskiano, ma chi lo sa, forse…”

Luigi Rinaldi

Dall’opera di Oscar Wilde

ideazione e regia Maria Alterno e Richard Pareschi

composizione coreografica e interpretazione Gloria Dorliguzzo

musiche originali Donato Di Trapani

disegno luci Andrea Sanson

direzione tecnica e fonica Francesco Vitaliti

mandibola Plastikart Studio di Zimmermann & Amoroso

progetto grafico Federico Lupo

produzione madalena reversa in collaborazione con Motus VAGUE coproduzione FOG Triennale Milano Performing Arts, TPE – Festival delle Colline Torinesi

con il sostegno di C.U.R.A. – Centro Umbro Residenze Artistiche / ZUT!, Anagoor

Carcaça- Torinodanza Festival 2024

Il 20 ed il 21 settembre, alle Fonderie Limone per il Torinodanza Festival 2024, è andato in scena lo spettacolo di Marco da Silva Ferreira, Carcaça, una prima nazionale che si impone nel panorama teatro danza come rivelazione della stagione internazionale. Una vera e propria performance nata dalla commistione di diverse arti tra cui: l’arte visiva, la coreografia luci, l’utilizzo della voce e l’uso del corpo, esso stesso veicolo del cambiamento. 

Settantacinque minuti di incessante energia: la musica tribale ha il sapore dei legami delle origini, quei legami profondamente instaurati con la propria terra, con la propria carne e con piccoli o grandi atti di sopravvivenza. Un ballerino, mutilato da un braccio, danza, con una protesi, in assoli che restituiscono all’immaginario dello spettatore sentimenti di forza, di volontà, di ribellione, di libertà e di sacrificio. Le coreografie di gruppo appaiono talvolta armonicamente dissonanti restituendo il significato stesso della rivolta: rumore, sovversione e unione. I costumi, ricchi di colori e sfumature, accentuano la bellezza della diversità, toni freddi e caldi, cromature e neri scurissimi, una varietà che sposa perfettamente l’anima eversiva dello show. 

Cantiga sem maneras

“Unirci per fare un altro passo

De nos unirmos p’ra dar mais um passo

Combattiamo e ripuliamo

Vamos lutar e sanear

Saremo responsabili

Vamos ser nós a comandar

Con questa lotta per un nuovo mondo

Com esta luta por um mundo novo

E gli operai davanti a guidare

E os operários à frente a guiar

E ci sono così tante persone da combattere

E há tanta gente p’ra lutar

Per la democrazia popolare

P’la democracia popular…”

Due voci maschili, possenti ed intense cantano con sorpresa del pubblico: “Cantiga sem maneras”, un canto politico, del gruppo portoghese Vozes na Luta (GAC), per scelta non tradotto in lingua italiana dal coreografo. Il fervore latino originario e le vigorose vibrazioni di questo spettacolo traspaiono in ogni sua parte, dando al pubblico la possibilità di cogliere, facilmente, ogni sua tonalità. Gli spettatori accolgono infatti il ribollente sangue di Carcaça con fermento ed emozione. La narrazione della visione collettiva che Marco da Silva Ferreira possiede, raggiunge lo spettatore forte e chiaro: “l’unione fa la forza”. Il dolore in questo show resta presente ma flebile, prende la forma di un tappeto bianco steso sul palcoscenico, un tappeto impressionato dal calore del corpo dei ballerini che una volta alzatisi, lasciano un’orma indelebile, quella del loro corpo, un’ombra come in un negativo, come un attimo bloccato per sempre in una fotografia. I corpi dei performers sono ormai immobili, come cadaveri, la cui anima continua a danzare sulle note del dolore, un’intensa emozione che fa da sfondo al sentimento di giustizia. Il tappeto bianco diviene un telo che improvvisamente si innalza sul palcoscenico, la coreografia di luci di ogni tono lascia spazio al buio, poi, i ballerini, uno dopo l’altro, impressionano il telo nuovamente, questa volta con una luce, una piccola torcia. Compare piano piano, con la palpabile fatica dei performer un messaggio: “Tutti i muri cadono”. Quel tessuto dal colore puro diventa un muro, quello di Berlino chissà o forse un muro etico e morale o addirittura una barriera che impedisce alle persone di fuggire in cerca di una vita migliore. Il telo cade, una commemorazione forse, per tutti i muri già caduti ed un augurio, per tutti i muri che ci sono e che, prima o poi, cadranno. 

“Ballate, voi esseri umani pieni di energia, prendete la vostra forza dalla terra stessa, che dai vostri piedi, come radici, possa raggiungere la mente e portarvi finalmente ad abbattere ogni muro. Noi esseri umani, tutti diversi per ricchezza e non per condanna, dovremmo imparare ad amarci, ad essere un’unica squadra, tanto grande da coprire un intero pianeta. Che il sangue che ribolle in ognuno di noi, possa essere lo stesso di chi l’ha perso lottando per la nostra libertà, noi che nel progresso vediamo l’amore prima dell’odio”. Queste parole, mie e mie soltanto, sono frutto della mia coscienza, scossa ancora dalla potente arte dell’accadere che questa volta, agisce sotto il nome di: Carcaça.

Rossella Cutaia

coreografia e direzione artistica Marco da Silva Ferreira
assistenza artistica Catarina Miranda
interpreti André Speedy, Fábio Krayze, Leo Ramos, Marc Oliveras Casas, Marco Da Silva Ferreira, Maria Antunes, Max Makowski, Mélanie Ferreira, Nelson Teunis, Nala Revlon
tecnico del suono João Monteiro
design delle luci Cárin Geada
direzione tecnica Luísa Osório
musica João Pais Filipe (percussionista) e Luís Pestana (musica elettronica)
costumi Aleksandar Protic
scenografia Emanuel Santos
p.ulso | Big Pulse Dance Alliance
con Il sostegno del Programma Creative Europe dell’Unione Europea