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Carcaça- Torinodanza Festival 2024

Il 20 ed il 21 settembre, alle Fonderie Limone per il Torinodanza Festival 2024, è andato in scena lo spettacolo di Marco da Silva Ferreira, Carcaça, una prima nazionale che si impone nel panorama teatro danza come rivelazione della stagione internazionale. Una vera e propria performance nata dalla commistione di diverse arti tra cui: l’arte visiva, la coreografia luci, l’utilizzo della voce e l’uso del corpo, esso stesso veicolo del cambiamento. 

Settantacinque minuti di incessante energia: la musica tribale ha il sapore dei legami delle origini, quei legami profondamente instaurati con la propria terra, con la propria carne e con piccoli o grandi atti di sopravvivenza. Un ballerino, mutilato da un braccio, danza, con una protesi, in assoli che restituiscono all’immaginario dello spettatore sentimenti di forza, di volontà, di ribellione, di libertà e di sacrificio. Le coreografie di gruppo appaiono talvolta armonicamente dissonanti restituendo il significato stesso della rivolta: rumore, sovversione e unione. I costumi, ricchi di colori e sfumature, accentuano la bellezza della diversità, toni freddi e caldi, cromature e neri scurissimi, una varietà che sposa perfettamente l’anima eversiva dello show. 

Cantiga sem maneras

“Unirci per fare un altro passo

De nos unirmos p’ra dar mais um passo

Combattiamo e ripuliamo

Vamos lutar e sanear

Saremo responsabili

Vamos ser nós a comandar

Con questa lotta per un nuovo mondo

Com esta luta por um mundo novo

E gli operai davanti a guidare

E os operários à frente a guiar

E ci sono così tante persone da combattere

E há tanta gente p’ra lutar

Per la democrazia popolare

P’la democracia popular…”

Due voci maschili, possenti ed intense cantano con sorpresa del pubblico: “Cantiga sem maneras”, un canto politico, del gruppo portoghese Vozes na Luta (GAC), per scelta non tradotto in lingua italiana dal coreografo. Il fervore latino originario e le vigorose vibrazioni di questo spettacolo traspaiono in ogni sua parte, dando al pubblico la possibilità di cogliere, facilmente, ogni sua tonalità. Gli spettatori accolgono infatti il ribollente sangue di Carcaça con fermento ed emozione. La narrazione della visione collettiva che Marco da Silva Ferreira possiede, raggiunge lo spettatore forte e chiaro: “l’unione fa la forza”. Il dolore in questo show resta presente ma flebile, prende la forma di un tappeto bianco steso sul palcoscenico, un tappeto impressionato dal calore del corpo dei ballerini che una volta alzatisi, lasciano un’orma indelebile, quella del loro corpo, un’ombra come in un negativo, come un attimo bloccato per sempre in una fotografia. I corpi dei performers sono ormai immobili, come cadaveri, la cui anima continua a danzare sulle note del dolore, un’intensa emozione che fa da sfondo al sentimento di giustizia. Il tappeto bianco diviene un telo che improvvisamente si innalza sul palcoscenico, la coreografia di luci di ogni tono lascia spazio al buio, poi, i ballerini, uno dopo l’altro, impressionano il telo nuovamente, questa volta con una luce, una piccola torcia. Compare piano piano, con la palpabile fatica dei performer un messaggio: “Tutti i muri cadono”. Quel tessuto dal colore puro diventa un muro, quello di Berlino chissà o forse un muro etico e morale o addirittura una barriera che impedisce alle persone di fuggire in cerca di una vita migliore. Il telo cade, una commemorazione forse, per tutti i muri già caduti ed un augurio, per tutti i muri che ci sono e che, prima o poi, cadranno. 

“Ballate, voi esseri umani pieni di energia, prendete la vostra forza dalla terra stessa, che dai vostri piedi, come radici, possa raggiungere la mente e portarvi finalmente ad abbattere ogni muro. Noi esseri umani, tutti diversi per ricchezza e non per condanna, dovremmo imparare ad amarci, ad essere un’unica squadra, tanto grande da coprire un intero pianeta. Che il sangue che ribolle in ognuno di noi, possa essere lo stesso di chi l’ha perso lottando per la nostra libertà, noi che nel progresso vediamo l’amore prima dell’odio”. Queste parole, mie e mie soltanto, sono frutto della mia coscienza, scossa ancora dalla potente arte dell’accadere che questa volta, agisce sotto il nome di: Carcaça.

Rossella Cutaia

coreografia e direzione artistica Marco da Silva Ferreira
assistenza artistica Catarina Miranda
interpreti André Speedy, Fábio Krayze, Leo Ramos, Marc Oliveras Casas, Marco Da Silva Ferreira, Maria Antunes, Max Makowski, Mélanie Ferreira, Nelson Teunis, Nala Revlon
tecnico del suono João Monteiro
design delle luci Cárin Geada
direzione tecnica Luísa Osório
musica João Pais Filipe (percussionista) e Luís Pestana (musica elettronica)
costumi Aleksandar Protic
scenografia Emanuel Santos
p.ulso | Big Pulse Dance Alliance
con Il sostegno del Programma Creative Europe dell’Unione Europea

La Ragazza sul Divano- Jon Fosse

Coinvolgente, appassionante, struggente, queste sono le parole che vestono perfettamente la pièce teatrale La ragazza sul divano, nata dalla penna del premio Nobel Jon Fosse e portata in teatro da Valerio Binasco. La scenografia è stata sapientemente studiata e disposta in modo da trasportarci, con gli stessi personaggi, nella quotidianità di una donna sola, colma di rimpianti e di rimorsi. Uno spettacolo per questo che permette allo spettatore di muoversi con uno sguardo, nella sottile linea del tempo, tra passato e presente. Il dolore, la paura, la solitudine, sentimenti forti e imponenti, i quali governano la scena senza timore alcuno, risuonando in ogni battuta e in ogni gesto. Il gesto teatrale accompagna perfettamente la drammaturgia, le scene che si susseguono mi appaiono dinamiche e connesse: sono rimasta catturata e assorta da un immenso dolore che ho in qualche modo compreso e che avrei, senza dubbio, voluto consolare. Si tocca la sensibilità dello spettatore, si instaura in esso un’importante consapevolezza, quella che ci permette di prendere atto che tutto passi, la gioventù, gli amori, perfino i legami più forti, tutto finisce e tutto ricomincia, in un circolo continuo, quello della vita, che in questo spettacolo ha le sonorità di You don’t own me di Lesley Gore:

You don’t own me

Don’t try to change me in any way

You don’t own me

Don’t tie me down ‘cause I’d never stay

I don’t tell you what to say

I don’t tell you what to do

So just let me be myself

That’s all I ask of you

I’m young and I love to be young

I’m free and I love to be free

To live my life the way I want

To say and do whatever I please

Il grido di una libertà perduta, storie di scelte sbagliate e anime ingombranti, la storia di una ragazza che tutta la vita ha passato “seduta sul divano”, senza essere capace di reagire alle difficoltà, la cui unica consolazione diventa la pittura dei suoi quadri: “se non stai attenta, si prendono tutto lo spazio, non perché siano belli o brutti ma perchè sono quadri”, tele macchiate di colori che colano come sangue dalle ferite, colori che escono dal loro confine incontrollati, senza senso, come la vita di questa donna a cui non è rimasto NIENTE. Niente è una delle parole chiave di questa pièce teatrale, cos’è il “niente”, cosa significa, perchè niente? Forse si riferisce ad un’anima persa che non sa più come ritrovarsi e che non ha più nessuno che possa aiutarla a farlo. “Tu non mi possiedi” dice la canzone “sono giovane e amo essere giovane, sono libera e amo essere libera, lasciami vivere come voglio”, parole che vibrano nel cuore dello spettatore con la stessa intensità che la voce dell’attrice principale, Pamela Villoresi, esprime nel suo urlo di disperazione finale. Una donna abbandonata e che abbandona, una donna a cui è rimasto un padre la quale unica costanza è stata l’assenza nella sua infanzia, una figura paterna ormai anziana e sola a cui lei stessa si appoggia, in quanto figlia, che seppur adulta,  possiede ancora l’ingenua anima di una bambina, la cui innocenza si riflette nel bisogno di cura, nella ricerca di attenzione, nella volontà di riparare la propria anima rotta, ricominciando da capo, dal suo primo e significativo abbandono, quello del papà. La trasgressione che incoraggia la colonna sonora viene incarnata perfettamente dalla sorella della protagonista, la sua libertà si traduce nella nudità scenica, una nudità ricercata, necessaria? Forse no, ma la mancanza di senso, talvolta, regala attimi di normalità. Tanti sono infatti i momenti imbarazzanti interpretati nelle scene, tanto imbarazzanti da essere realistici, attimi che si sono colorati di uno humor sottile e familiare. Le interpretazioni degli attori evidenziano una coerenza tra un personaggio e l’altro, il file rouge della trama è scorrevole e seppur complesso nella costruzione, di facile comprensione, chiaro ed impattante. Un vinile su un vecchio giradischi suona, sopra di esso un piccolo vasetto con un fiore: scena finale, un’immagine delicata che esprime l’essenza di questo dramma musicale. L’armonia della vita è stata perfettamente rappresentata da un’armonica successione degli eventi, spingendo gli spettatori a riflettere sul proprio passato, sul proprio presente, sulle proprie scelte e soprattutto sul significato del “Niente”.

Rossella Cutaia

VANGELO SECONDO LORENZO

Nel momento in cui ho visto nel programma del Teatro Stabile di Torino questo spettacolo, decisi che dovevo andare assolutamente a vederlo. Fu un desiderio dettato dalla profonda stima che nutro verso la grande persona che fu Don Lorenzo Milani. Ero inoltre molto curiosa di sapere come avrebbero affrontato in palcoscenico una storia come la sua.

E’ stata “colpa” del mio ex insegnante di psicologia del mio liceo se mi sono imbattuta in questo personaggio, che oltre essere stato molto attivo a livello sociale e politico, ha dato un importante contributo alle successive riflessioni sulla didattica scolastica.

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Diario di una Tirocinate – Don Giovanni

Cari lettori, vi scrivo per raccontarvi un’esperienza unica!
Ho la fortuna di fare un tirocinio presso il Teatro Stabile di Torino, e non negli uffici, ma svolgendo un lavoro dall’interno di in uno degli spettacoli che si prospetta tra i più interessanti della stagione: Don Giovanni per la regia di Valerio Binasco. Subito dopo il primo incontro  con Valerio Binasco  in quattro e quattr’otto mi sono ritrovata al tavolo con tutti gli attori il primo giorno di prove.
Ufficialmente alle 14.39 di Lunedì 26 febbraio, si è partiti in q

13/03 Giornata di Memoria per tutti!

uesta avventura. I primi due giorni, siamo stati ospitati al Gobetti in sala Pasolini, perché alle Fonderie Limone faceva troppo freddo e nessuno si deve ammalare! Per me e la mia compagna di avventura ed amica, Giada, i primi giorni ci sono serviti per capire con chi avevamo a che fare, che tipo di lavoro sarebbe stato il nostro. Seppur un pochino spaesate, fin da subito Valerio ci ha integrato in tutto e per tutto nell’organico presentandoci a tutta la compagnia.
A metà settimana poi ci siamo spostati alle Fonderie, ed aspettando che la scenografia fosse pronta, gli attori hanno iniziato ad alzarsi dal tavolino e a provare con movimenti, in sala K.
E’ molto interessante vedere, giorno dopo giorno, come i personaggi prendono vita e ognuno degli attori ci mette se stesso. Binasco è molto attento a non togliere la naturalezza propria di ogni attore, e senza che vi sveli troppo, lo vedrete maggiormente nel secondo atto, che nel caso di alcuni personaggi è stato riscritto in dialetto.
I problemi ci sono stati in queste prime due settimane di lavoro, uno su tutti l’impatto con la scenografia: si tratta di una compagnia che in passato ha lavorato molto a tavolino e in movimento (provando e costruendo le scene in spazi più piccoli e creando insieme una scena collettiva che fosse la stessa nell’immaginario di tutti).
Questo maggiormente si è verificato per il secondo atto, ambientato in un piccolo Bar. Ogni attore vi vedeva un bar differente. Il problema ha trovato la sua soluzione quando gli attori si sono seduti e hanno raccontato cosa fosse per ciascuno quel luogo, spostando gli attrezzi di scena, vivendolo per davvero e affrontando lo spazio, senza paure.
Adesso si sta procedendo in maniera spedita a montare i vari atti, i costumi sono in via di rifinitura, le musiche sono sempre più precise e le luci vanno a scolpire i sentimenti dei personaggi.
Nel frattempo, noi suggeriamo, corriamo a destra e sinistra per fare in modo che non manchi mai nulla e scriviamo i vari rapporti di giornata.
Come sta andando, cosa sta succedendo….? Lo saprete tra una settimana.
Blogger in incognito, Elisa Mina

Re Lear: il trionfo del bene sul male, è utopia o realtà?

È un Re Lear decisamente più calcato e più “underground” rispetto all’opera originale del bardo, il Re Lear di Giorgio Barberio Corsetti, regista teatrale romano, interpretato da un eccezionale Ennio Fantastichini, fasciato da un completo in velluto rosso. Riscritto in chiave moderna senza azzardare troppo, ripulito da lirismi di marca secentesca sostituti da qualche battuta odierna, l’opera si fa piacevolmente seguire e trascina lo spettatore per l’intera durata dello spettacolo, nonostante la lunghezza – alla quale non siamo più abituati, vista la velocità eccessiva con cui tutto scorre nel nostro tempo- sia non poco impegnativa; merito anche di un cast numeroso e pulsante che conosce davvero il lavoro dell’ attore su stesso.

Re Lear è la storia di padri che fraintendono i figli, e di figli che tradiscono i padri; è una storia intrecciata di legami di sangue infangati da menzogne e sotterfugi per un unico grande desiderio: il potere, che prende forma in svariati modi: nella dominazione, nella supremazia, nel denaro e nella sessualità. Soprattutto, però, è la storia di “animali umani” che dimostrano di essere più istintivi e affamati degli animali stessi, che non uccidono per sussistenza ma per smania di possessione e per egoismo. Ecco infatti, che la storia si ripete: Re Lear non è solamente una tragedia teatrale, ma è un affresco della violenza che domina i nostri telegiornali e i social network, un dipinto del profitto sul più debole e il riflesso di un meccanismo sociale presente fin dagli albori, che premia cioè chi tace e punisce chi parla. L’intero Re Lear è quella sensazione di olio fritto che non si ha digerito, è la nausea di una sbornia triste dopo una felice festa di carnevale all’insegna di brindisi e balli ma che, ad ogni modo, lascia una piccola speranza alle generazioni future.

“A noi spetta gravarci del peso di questo triste tempo, dire quel che si prova, e non quel che si deve”, sono queste, infatti, le ultime parole affidate ad Edgar (un toccante Gabriele Portoghese), unico superstite della tragedia che rappresenta uno spiraglio di speranza e di miglioramento per le generazioni future.

La suddivisione dello spettacolo ricorda molto la Commedia dantesca, concepita però a ritroso. Lo spettacolo si apre nel salone del palazzo del Re, con un modernissimo party colorato con tante luci e tanto spumante, con un sottofondo di musiche composte e eseguite dal vivo da Luca Nostro; un Eden contemporaneo insomma, dove spiccano abiti eleganti e colorati che caratterizzano anche i vari personaggi, e il loro stato d’animo: Lear è caratterizzato dal rosso, la figlia Cordelia ( una delicata Alice Giroldini) dal nero, le spietate sorelle di quest’ultima e i loro mariti (Mariano Pirello e Pierluigi Corallo) , rispettivamente Goneril (un’ irruenta Francesca Ciocchetti) dal blu e Regan (una sensuale Sara Putignano) dal verde. In questa prima parte si svolge il dramma delle due famiglie.

Il primo dramma riguarda Re Lear appunto, un re rinascimentale e barbaro che fa della parola il metro di giudizio dell’amore. Egli ha, infatti, deciso di abdicare e di spartire i territori del suo regno in proporzione all’amore che ogni figlia, con le sue parole, saprà dimostrare al padre. Cordelia sarà l’unica fra le tre figlie, però, che si rifiuterà di adulare il padre in questo modo, poiché fermamente convinta che l’amore puro si dimostri con i fatti e non con parole condite di reverenza; ma d’altronde questo è il dramma in cui è la parola a rivelare l’azione e non viceversa, dunque a venir punita sarà la sincerità, tanto che Cordelia verrà rinnegata come figlia dal padre; sarà, invece, la parola che non sentiamo ma che conviene dire ad avere la meglio.
Sempre in questa prima parte assistiamo a un altro dramma che si sovrappone e si intreccia alla vicenda dei Lear, e cioè quella della famiglia Gloucester composta dal Conte in questione- interpretato da un incisivo Michele Di Mauro che sfodera una straordinaria capacità di far prendere a cuore allo spettatore quella tenerezza e quell’ ingenuità tipica di un padre innamorato dei propri figli, come lo è Gloucester- e dai suoi figli Edgar e Edmund. Quest’ultimo interpretato dall’atletico Francesco Villano che ci regala tutto se stesso, in particolare durante i monologhi che sembrano essere cuciti su di lui, stregando il pubblico con l’ ambiguità feroce e distruttiva del suo personaggio.

Nella seconda parte, che si può paragonare ad un Purgatorio, si svolge la tempesta che imperversa nella brughiera, il simbolo della follia che Lear farnetica. È proprio qui che l’incubo inizia a farsi avanti, confondendosi con la realtà: ecco che gli abiti perdono la vivacità dei colori che avevano in precedenza e la musica si fa più cupa.
Ed è sempre in questa parte che prende vita un altro tema, quello della strategia che si manifesta nell’ amore opportunista delle sorelle che tradiscono prima il padre e poi i loro mariti, e nel linguaggio colmo di falsità e invidia di Edmund, un Caino invidioso del fratello, che stufo di esser il figlio “bastardo” di Gloucester è disposto a tutto, persino a denunciare il padre come spia e a farlo accecare, pur di raggiungere una posizione elevata e di riscattare la bassa stima del proprio sé .

     

Infine la terza e ultima parte: il girone infernale ovvero la guerra, che porta con sé la dissoluzione finale della stirpe di Lear e della sua famiglia, sotto una scarica di musica rock che rivela i complotti e i tradimenti. Un girone infernale dove però la morte non guarda in faccia nessuno, punendo sia innocenti sia peccatori, ed è proprio a conclusione di questa tragedia che la domanda sorge spontanea: è possibile ancora credere nel trionfo del bene sul male o è solo un’utopia? E ancora, è possibile credere nella giustizia, visto che a pagare sono quasi sempre i puri d’animo?

Siamo invasi oggi da un interessamento su alcuni temi- come quello di farsi o meno giustizia in modo autonomo- da parte degli organi politici, che è solo apparente e che poi, col passare del tempo dimostra falle, trascuratezza e poca serietà; questo è pericoloso e non è da sottovalutare, perché comporta un trionfo di ignoranza- nel vero senso della parola, cioè di non conoscenza- che sfocia in atti ingiustificabili, violenti, fascisti e razzisti (e non solo verso stranieri), che rischia di finire in un’autogestione confusa e pregna di fraintendimenti, dove distinguere poi tra carnefice e vittima diventa difficile se non impossibile. È su questi problemi, quindi, che succedono oggi come succedevano anche ai tempi del drammaturgo inglese, che dovremmo riflettere.
Scritta quattro secoli fa, tra il 1605 e il 1606, Re Lear è, purtroppo e per fortuna, come tutte le opere di Shakespeare, estremamente attuale: quanti dissidi familiari sorgono a causa di eredità? Quante morti innocenti per la spartizione di territori- penso per esempio agli israeliani e ai palestinesi – ci sono state? Quante gare si facevano nel medioevo sulla torre più alta che al giorno d’oggi mi ricorda tanto una gara a chi possiede l’arma da guerra più tossica o devastante? Riflettiamoci, e cerchiamo di affermare un po’ di giustizia nel nostro piccolo mondo: è questo il messaggio di quest’opera. Come dice Edmund nell’ultimo atto, la ruota gira e gira per tutti, e anche se le strade asfaltate che tutti intraprendono sembrano essere le più facili da percorre, non è detto che siano le più convenienti; a volte, inoltrarsi nel sottobosco può essere la strada più giusta e perché no più vantaggiosa.
C’è ancora tanto bisogno delle opere di Shakespeare in questo mondo per le generazioni presenti e per quelle future!

Martina Di Nolfo

 

Re Lear

di William Shakespeare
traduzione Cesare Garboli
con Ennio Fantastichini
e con Michele Di Mauro, Roberto Rustioni, Francesco Villano, Francesca Ciocchetti, Sara Putignano, Alice Giroldini, Mariano Pirrello, Pierluigi Corallo,
Gabriele Portoghese, Andrea Di Casa, Antonio Bannò, Zoe Zolferino
regia e adattamento Giorgio Barberio Corsetti
scene e costumi Francesco Esposito
luci Gianluca Cappelletti
musiche composte e eseguite dal vivo Luca Nostro
ideazione e realizzazione video Igor Renzetti e Lorenzo Bruno
Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Teatro Biondo – Stabile di Palermo

 

C’era una volta Pinocchio

C’era una volta Carmelo Bene, poi Comencini e infine Latella. Antonio Latella e il suo Pinocchio, andato in scena dal 29/11 al 3/12 al Teatro Carignano, una produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa.
Ad accoglierci una scena completamente aperta, col fondo palco a vista e le casse in alto che fanno parte della scenografia, tipico di Latella. Oltre a questo, alcuni elementi che scopriremo più tardi l’utilizzo e un tavolo, sotto il quale si intravedono le gambe incrociate di un personaggio che mima con le mani tutto quello che succede prima di fare il suo ingresso in scena: il futuro Pinocchio, Christian La Rosa.
La storia la conosciamo tutti: il Burattino magico che diventa Bambino. Latella però  non ci mostra la versione che tutti da bambini abbiamo ascoltato. Piuttosto, lavora su Collodi e la sua vita, sulla perdita della sua bambina, sul dover far resuscitare Pinocchio per la stessa ragione capitata a Sir Arthur Conan Doyle con i suo Sherlock Holmes.
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“Mo’ miettete a fa’ ‘o presepe nata vota. Cominciamo da capo tutto”: Natale in casa Cupiello

Martedì 10 Gennaio 2017 debutta al Teatro Carignano di Torino “Natale in Casa Cupiello” di Eduardo De Filippo, con laregia di Antonio Latella.

La tragicommedia è stata scritta nel 1931 e De Filippo la porta in scena con la sua compagnia fino agli anni Settanta, apportando continue modifiche. Attraverso la figura del protagonista Luca Cupiello, che cerca di riunire la famiglia ispirandosi all’ideale del presepe, che diventa per lui quasi un’ossessione, l’autore vuole mettere in evidenza l’impossibilità di ricreare il nucleo familiare, ormai sfasciato, solo durante una ricorrenza annuale come il Natale.

Antonio Latella supera il naturalismo della rappresentazione di De Filippo, rivolgendosi al pubblico attraverso simboli e invitandolo a immaginare il contesto in cui si svolge la storia. Il sipario si apre rivelando una disposizione lineare e simmetrica degli attori, con al centro il protagonista, Luca Cupiello, interpretato da Francesco Manetti, vestito di bianco, diversamente dagli altri personaggi che indossano abiti di tonalità scure e con gli occhi coperti da una mascherina. Al segnale del bastone di Luca, immagine della malattia incombente, tutti i personaggi iniziano a camminare verso il proscenio mentre dietro di loro viene calata una grande stella cometa, che rimanda al presepe tanto amato dal protagonista, e unico oggetto della scenografia presente nel primo atto. Latella utilizza pochi oggetti di scena, ma fortemente simbolici. Infatti ad ogni personaggio nel corso del secondo atto verrà attribuito un “pupazzo” raffigurante un animale che lo rappresenta (ad esempio Nicolino ha un maiale che rimanda ai suoi comportamenti rudi verso la moglie Ninuccia), ad eccezione di Concetta, moglie di Luca, che traina un carro grande quanto il peso delle vicende familiari che ricadono tutte sulle sue spalle. Nel terzo atto invece l’oggetto predominante è una grande culla, all’interno della quale si trova Luca ormai in fin di vita, circondato dai familiari disposti a formare il presepe, che richiama il tanto agognato sogno familiare del protagonista, che a quanto pare può realizzarsi solo in prossimità della morte. È chiaro dunque che Latella riduca la scenografia lavorando su immagini metaforiche che diventano macroscopiche.

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Tornando al primo atto, dopo il posizionamento della stella cometa, gli attori, sempre su segnale del bastone di Luca, iniziano a recitare coralmente e fedelmente le didascalie mentre vediamo Luca che muove la mano come se stesse scrivendo: Latella sembra così voler sottolineare la fedeltà al testo eduardiano immettendo eccessi di teatralità, ad esempio quando gli attori pronunciano, all’interno delle battute, anche gli accenti (gravi, acuti o circonflessi) accompagnandoli con movimenti che ricordano passi di danza. Inoltre Luca “scrive” l’opera mentre si sta compiendo quasi per ricordare al pubblico la presenza dell’autore, poiché la storia dello spettacolo è un patrimonio di confronto che non deve essere dimenticato tanto che, nel secondo atto, risuona costantemente la voce di Eduardo De Filippo “mo’ miettete a fa’ ‘o presepe nata vota. Cominciamo da capo tutto”, per rammentare la sua presenza persistente, mentre gli attori si guardano spaesati attorno, come per cercarlo.

Da segnalare sono sicuramente due aspetti: in primo luogo l’uso sapiente delle luci, statiche per quasi tutto lo spettacolo e che mettono così in risalto l’intensità delle azioni e dei sentimenti, che diventano poi intermittenti e artificiose a metà del secondo atto, dove la tensione accumulata a causa del triangolo amoroso che vede protagonisti Nicolino, Ninuccia e Vittorio, esplode in una danza frenetica durante la quale risuonano versi di animali come in una “giungla” di conflitti familiari. Nel finale le luci tornano a creare un’atmosfera cupa, che rimanda all’incombenza della morte, e forti chiaroscuri che rendono la scena come un dipinto. In secondo luogo, gli attori sono molto abili a passare dall’italiano delle didascalie al dialetto napoletano delle battute e dei dialoghi repentinamente, in particolare possiamo mettere in evidenza la bravura di Monica Piseddu, che interpreta Concetta.

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È rilevante il cambiamento apportato da Latella al finale: il figlio Tommasino uccide, soffocandolo con un cuscino, Luca, con l’approvazione di tutti i presenti, ponendo così fine alle sue sofferenze. Da un lato questo può essere considerato un gesto di amore e pietà nei confronti del padre, nonostante per tutta la vicenda Tommasino si sia dimostrato ingrato e scansafatiche, dall’altro potrebbe anche essere uno spunto del regista per esortare le nuove generazioni a fare tesoro dell’insegnamento della tradizione ma, al contempo, a superarla, rinnovando e sperimentando, facendo così rinascere il teatro.

Alice Del Mutolo
Stefania Pero

NATALE IN CASA CUPIELLO
di Eduardo De Filippo
regia Antonio Latella
con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone,
Emilio Vacca, Alessandra Borgia
drammaturga del progetto Linda Dalisi
scene Simone Mannino, Simona D’Amico
costumi Fabio Sonnino – luci Simone De Angelis – musiche Franco Visioli
Teatro di Roma

 

Lo specchio di Edith

Non si è mai vista una bella donna che non facesse smorfie davanti a uno specchio (William Shakespeare)


ph. Luigi Ceccon
ph. Luigi Ceccon

Ogni specchio – si sa – è in grado di trattenere frazioni microscopiche del nostro animo: sguardi, smorfie, corrucci, pensieri. Ma che cosa ci attrae di più? L’epifania virtuale di noi stessi (che giunge puntuale, ad ogni successiva riflessione), oppure l’oggetto in sé, quel vetro “narciso” che ci dischiude mondi bislacchi, templi di illusioni rovesciate?

E più ci avviciniamo alla superficie del miraglio, più ci chiudiamo in noi stessi, più smarriamo quel senno che ci rende “ordinari”. Che ci rende, cioè, parte di un mondo “civilizzato”, fatto di altri. Ma nel podere selvaggio e viscerale di Big e Little Edie non c’è spazio per nessun altro. Qualsiasi evasione, qualsiasi pretesa (e pretendente), qualsiasi tentativo di fuga debbono essere arginati. Al di là dei loro corpi – l’uno più spigoloso e teso, l’altro più morbido e fanciullesco –  non c’è (più) nessuno: resta soltanto la “casa romita”. Che le incornicia, come una pala d’altare acuminata. E una ringhiera, che le imprigiona.

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ph. Luigi Ceccon

C’è un breve istante, nello spettacolo di Chiara Cardea ed Elena Serra, in cui la giovane Edith si guarda allo specchio. Spalle al pubblico, Madre di fronte. Entrambe sono ferme, protette dalle asfittiche mura di Grey Gardens. È solo un attimo, sia pur di intensa ambiguità: chi è, davvero, la bella del (quondam) reame che appare sull’orlo traslucido di quella delicata suppellettile? È la donna dai soavi turbanti o quella dalla pungente lascivia, che ne è – in fondo – doppione e contrario?

L’allestimento – che rievoca la relazione morbosa delle parenti reiette di Jackie O’, Edith Ewing Bouvier Beale e figlia  –  trasuda di decadentismo, con un’ottima costruzione delle cromie e della dimensione ottica. Di fine pregio è la palafitta mobile al centro del palco (realizzata da Jacopo Valsania), di color azzurro cielo: la porta, che sbatte fragorosamente ad ogni passaggio delle protagoniste, scandisce il ritmo della rappresentazione. L’abitazione viene presentata al pubblico sotto vari punti di vista, o meglio inquadrata da varie angolature (forse in onore degli antichi “natali cinematografici” di questo plot).

I costumi, cavati da due belle boutique torinesi e curati da Anna Filosa, hanno un’importanza strutturale nell’economia del racconto: essi rimangono tali per l’intero svolgimento dell’azione; restano cioè costumi di scena, conservando la propria essenza mimetica senza mai degradarsi in vestiti dozzinali. Tra pizzi rococò e vestaglie da belle epoque, le due Edie strisciano, ora sinuose ora scomposte, nei propri simulacri di tessuto. La giovane li sfoggia come ultimo lacerto di una carriera declinata (e forse mai cominciata davvero), l’anziana li sfrutta per deprezzare e “denudare” l’high society statunitense che, di quegli abiti, aveva fatto uno status symbol.

foto EDITH
ph. Luigi Ceccon

«Cercavamo un testo capace di indagare la coppia femminile», racconta Elena Serra/Big Edie, spiegando la genesi di questo lavoro. «Volevamo però al tempo stesso ampliare il nostro orizzonte di indagine, oltre il panorama drammaturgico tradizionale: da teatranti, infatti, pecchiamo spesso di auto-referenzialità. Parliamo tra di noi e con il nostro mondo di riferimento. Ma che cosa, chi c’è al di là?».

Dopo un infruttuoso avvio con le Serve di Genet, arriva l’illuminazione: «Un giorno, un amico ci mostrò Grey Gardens, docufilm del ’75 di Albert e David Maysles sulla vita delle Bouvier Beale, zia e cugina di Jacqueline Kennedy. Fu amore a prima vista: rimasi folgorata dalla naturalezza con cui queste due donne gestivano la propria femminilità. Non si limitavano a subire il proprio corpo, bensì lo ponevano continuamente in scena. Recuperare un rapporto sincero con la propria fisicità è molto complesso, soprattutto per le giovani attrici: me ne rendo conto da tempo, lavorando al fianco di Valter Malosti in Accademia».

Due donne; sociopatia q.b.; rapporto atipico con la drammaturgia. Gli ingredienti necessari per un delicato bignè ci sono tutti. Per quanto concerne l’aspetto testuale, Edith nasce – come detto – da una pellicola, che al di là della conduzione “in presa diretta”, resta pur sempre un film, fatto perciò di montaggi e discorsi sconnessi. Le due attrici-registe hanno così proceduto dapprima con l’estrapolazione di segmenti dialogici, traducendoli in italiano, dopodiché li hanno riordinati tematicamente, privilegiando tre nuclei diegetici: la vita di Little Edie e il desiderio di tornare in città, il passato della famiglia (e dei suoi uomini, presenti solo a mo’ di spettri vocali) e infine il rapporto con la casa. Non mancano le interpolazioni, significative per la biografia artistica delle due attrici: fra gli altri, il “Domani, e domani, e poi domani” di Macbeth.

Il progetto, nel complesso assai pregevole, merita di essere segnalato anche per l’attento studio storico e psicologico condotto dalle interpreti/outsiders: oltre all’obbligata full immersion fra i libri di storia americana, le due Edith non hanno trascurato l’allestimento di eventi collaterali, utili – spiega la Serra – «per sperimentare la vita del patriziato: abbiamo così ricostruito al Circolo dei lettori (grazie a Terre Spezzate, leader nella creazione di GdR) il party di debutto di Little Edie in società. Tre ore per provare a immaginare che cosa avessero perso».

ph. Luigi Ceccon
ph. Luigi Ceccon

L’abitazione, alla fine, urta la protagonista, distesa sul palco come morta. Si compie così quel profetare antico: “vanitas vanitatum et omnia vanitas”. E Yorick – lo specchietto a mano, per intenderci – resta lì sepolto, tra procioni e bellettame.

 

EDITH
di e con Chiara Cardea ed Elena Serra
voci off Michele Di Mauro, Vittorio Camarota e Matteo Baiardi
regia Elena Serra
progetto sonoro Alessio Foglia
scena e luci Jacopo Valsania
costumi e trucco Anna Filosa
assistente alla regia Davide Barbato
direzione tecnica Loris Spanu
artwork Donato Sansone aka Donny Sansuca | foto Luigi Ceccon
produzione Serra/Cardea | produzione esecutiva Teatro della Caduta
coordinamento e organizzazione Davide Barbato | ufficio stampa Giulia Taglienti
con il sostegno di Renaise – abiti d’Altra moda | Tiramisù alle Fragole | Lumeria
progetto realizzato in collaborazione con Terre Spezzate | Arca Studios | il Circolo dei lettori | Il Piccolo Cinema
prima nazionale 14 gennaio 2016 (Torino, Teatro Gobetti)

Finta felicità, per la signorina Felicita

Ha debuttato martedì 18 ottobre, e sarà in scena fino al 30 ottobre,  il primo spettacolo della stagione del Teatro Gobetti: LA SIGNORINA FELICITA OVVERO LA FELICITA’ . Uno spettacolo di  e con Lorena Senestro, che vede la collaborazione tra il Teatro Stabile di Torino e il Teatro della Caduta.

A cent’anni dalla morte dell’autore, Guido Gozzano, Loredana senestro porta in scena una versione molto personale della breve e malinconica biografia dello scrittore piemontese. Tutto in una rappresentazione dall’ambienatazione onirica e che richiama il mondo delle meraviglie di Alice. Un tavolo sproporzionato sotto cui Felicita ci passa come fanno i bambini, un pianoforte, cornici sospese, un01_foto-prove-la-signorina-felicita_ph-andrea-macchiaa sedia alta giusta per arrivare al tavolo, tazzine e tazze in frammenti. Tutto sinonimo di un’esistenza passata nell’illusione di una promessa di vita, al fianco di un Guido malato, che non potrà mantenere le sue promesse. Una signorina che invecchia, pur mantenendo l’innocenza e la felicità di una bambina. Vediamo i problemi, gli intrighi amorosi, il rapporto col padre di Felicita che crescono ma rimangono sempre con un qualcosa di infantile, sottolineato dalla scenografia.

Ad accompaganre tutto lo spettacolo sono le musiche suonate in scena al pianoforte da Andrea Gattico,pianista da tabarin torinese, che incarna il Padre di Felicita, ma più con la voce che con il corpo.
I tre lunghi teli riescono a trasportarci in quel mondo “…un po’ ammuffito di una vecchia casa di 100 anni…”.
La Senestro è molto convincente nella sua interpretazione, più nei momenti di sconforto e di semi-pazzia che nei momenti di pura realtà. Appare molto felice nei momenti di discussione tra Felicita e il Padre. Unica pecca, che fa calare a tratti l’attenzione di chi assiste, sono le poche variazioni di voce che a tratti caratterizzano i monologhi per la monotonalità.
Molto intenso è il finale, che crea una sorta di girotondo mai destinato a finire, e piuttosto a ripetere il continuo scorrere del tempo bloccato nei ricordi. Un’attesa della stessa Felicita che non si rassegna al passare del tempo e alla sua solitudine.

Massimo Betti Merlin e Lorena Senestro sono gli animatori di una delle più interessanti esperienze off nazionali, il Caffè della Caduta, un piccolo spazio teatrale dove pubblico e artisti si incontrano prima e dopo gli spettacoli, condividendo informalmente lo spirito del teatro.

Elisa Mina

LA SIGNORINA FELICTA OVVERO LA FELICITA’
regia
Massimo Betti Merlin
spettacolo di Lorena Senestro
con Lorena Senestro e Andrea Gattico(Pianoforte)
scenografia Massimo Betti Merlin, Francesco dell’Elba
luci Francesco dell’Elba

AFTER SHAKESPEARE: SALVATE DESDEMONA di Lidia Ravera

he fine hanno fatto gli eroi narrati dal calamo Shakespeariano?

Ce lo raccontano sei autori (Nicola Fano curatore del progetto “After Shakespeare”, Lidia Ravera, Alberto Gozzi, Lia Tomatis, Sergio Pierattini, Donatella Musso) che con sei spettacoli in progress dal 26 febbraio al 22 aprile in prima assoluta, presso il Teatro Astra, portano in scena i frutti di un lungo laboratorio di scritture e analisi critiche per celebrare i quattrocento anni dalla morte del bardo.

Salvate Desdemona per la regia di Alberto Gozzi, è il secondo di questi imperdibili appuntamenti. Ambientato durante gli anni di piombo, in piena esplosione del femminismo militante, tra collettivi politici, occupazioni, manifestazioni e picchetti fuori dalle fabbriche, Gozzi insieme a Lidia Ravera, porta in scena una mise en abîme dell’ Otello del drammaturgo inglese, che conserva un’incredibile attualità a distanza di secoli.

Shakespeare infatti fu uno dei primi autori del tempo a comprendere il ruolo di vittima della donna, cercando di spiegarne la causa. Impossibile dunque, citando un’opera del genere, non parlare di femminicidio, ancora oggi ampiamente praticato. Lo spettatore è dunque invitato a riflettere su un tema ancora molto caldo e irrisolto, quello della violenza sulle donne.

Nella sceneggiatura della Ravera, Desdemona è una ragazza colta, amante del teatro e politicamente impegnata, che ha rinunciato ai suoi agi per vivere con il suo sposo Otello, un operaio burbero, che ha abbandonato il caldo sud Italia per trasferirsi nel capoluogo piemontese, dove lavora come operaio della Fiat.

Il loro rapporto è però minato da un’esasperante gelosia, “mostro dagli occhi verdi che dileggia la carne di cui si nutre”. Otello è infatti convinto che sua moglie lo tradisca, prova ne sarebbe un fazzoletto, sostituito per questo riadattamento con un cd, tanto caro ad Otello perché donatogli dalla madre appassionata di lirica, che Desdemona impresta a Cassio.

Il vaso di Pandora si apre: accecato dalla rabbia, ebbro di una follia quasi ariostesca, Otello si trasforma in una bestia che tenta di affondare i suoi artigli nel candido collo di Desdemona, la situazione quindi precipita sempre di più. Riuscirà la nostra protagonista a destabilizzare il furore omicida del marito, mettendo in salvo la propria vita?

SALVATE DESDEMONA

È la giovane Selene Baiano, membro dell’equipe artistica della Fondazione Teatro ragazzi e giovani di Torino, a vestire i panni di Desdemona, Otello è invece interpretato da un graffiante Alessandro Lussiana, diplomato nel 2006 presso la Scuola di recitazione del Teatro Stabile di Torino (impegnato anche nel cinema, nella televisione e nel doppiaggio), che per alcuni tratti sembra reincarnare una personalità rude e incisiva alla Gian Maria Volonté ne La classe operaia va in paradiso di Elio Petri.

Per chi fosse interessato e non avesse avuto il tempo di andare a teatro, il 23 e 24 aprile, nella prestigiosa sede del Circolo dei Lettori di Torino, verranno riprodotte in due mini-maratone sceniche, a partire dalle ore 19, tutte e sei le rappresentazioni. Il 23 aprile La signora di Shakespeare, Il sogno di Bottom e Lady M; il 24 aprile Salvate Desdemona, Puck e l’allodola, e A losing suit.

AFTER SHAKESPEARE/ Salvate Desdemona

Di Lidia Ravera

Con Selene Baiano e Alessandro Lussiana

Scene e costumi: Barbara Tomada

Luci: Mauro Panizza

Regia di Alberto Gozzi

FONDAZIONE TEATRO PIEMONTE EUROPA

Martina Di Nolfo