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SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE: UN’INCONSCIA VISIONE DI UNA METAFORA D’ AMORE

Per la seconda volta, a distanza di pochi giorni mi ritrovo ad assistere ad un nuovo spettacolo al Teatro Carignano. Questa volta si tratta di Sogno di una notte di mezza estate diretto da Elena Serra.
Il teatro, sia per Romeo e Giulietta che per Sogno di una notte di mezza estate si è prestato ad un mutamento scenografico, allargando il palco fino a metà spalti e ricoprendolo di erba sintetica, quasi come se fosse una vera e propria scena elisabettiana.
Se con Romeo e Giulietta rimasi entusiasta per la freschezza degli attori nel rendere la tragedia una visione fanciullesca, nel Sogno la compagnia si è superata. Questi giovani attori sono riusciti a dare un qualcosa in più.

Non è la prima volta che assisto alle loro rappresentazioni e man mano, spettacolo dopo spettacolo, emergono nuove sfaccettature del loro modo di lavorare .
Questa volta, quello che mi ha colpita è stata il senso di interezza che sono riusciti a far emergere da una delle più famose commedie di Shakespeare, rendendo le parti uniche nel loro genere. Visto che il testo non ha un unità di tempo o di spazio, la regista ha potuto sfruttare a pieno il palco, utilizzando enormi cuscini dai quali fuoriescono una buona quantità di foglie, inserendo una fontana da cui sgorga acqua dove alcuni attori si siederanno, si bagneranno e si uniranno in un unico corpo ed infine facendo muovere tutti loro in danze ritmicamente nevrotiche con la musica dei Laibach. Inoltre i costumi degli attori passano da una maestosità contemporanea ad una semplicità quasi medievale.
Sicuramente nelle parole di Elena (Annamaria Troisi) un po’ tutte le donne o prima o dopo si sono ritrovate. La sua disperazione per il rifiuto continuo del suo amato Demetrio (Christian Di Filippo), ogni volta che lo rincorrere non fa altro che peggiorare la situazione, mentre la vivacità di Ermia (Barbara Mazzi), il suo essere algida nei suoi confronti lo porta ad innamorarsi di lei ma la giovane Ermia ha occhi solo per Lisandro, il suo unico amore (Marcello Spinetta). Insomma vedremo un bel quartetto in azione.

Ogni attore, in questa rappresentazione ha cercato di creare un siparietto divertente, come quello di Oberon (Vittorio Camarota) insieme al folletto Robin (Raffaele Musella) che oltre ad essere tecnicamente encomiabili sono riusciti ad avere una buona presenza sul palco utilizzando capriole, sbeffeggiamenti e una timbrica maestosa.

Ottima anche Titania (Beatrice Vecchione) che rimarrà fissa sulla fontana ma questo non le impedisce di ammaliare con la sua presenza scenica e con le sue alterazioni vocali proprio come la fata, Fior di Pisello (Giorgia Cipolla) che vedremo addirittura cantare.

Ed il padre di Ermia, Egeo (Alessandro Conti) il quale avrà una voce robotica e sarà posizionato su una “balconata”.
Ed infine i due soldati di Atene Nick Bottom (Angelo Tronca) e Peter Quince (Yury D’Agostino) che hanno creato un siparietto niente male, inscenando all’interno della commedia, la tragedia di Romeo e Giulietta con un’ironia e un sarcasmo che ha coinvolto tutto il pubblico, suscitando impeti di applausi e calorose risate durante la rappresentazione.

Insomma il progetto del “prato inglese” direi che ha dato i suoi frutti, portando in questo caso nel Sogno di una notte di mezza estate il tocco di una donna che ha affrontato la commedia shakesperiana con un’inconscia visione di una metafora d’amore.

di William Shakespeare
con Vittorio Camarota, Giorgia Cipolla, Alessandro Conti, Yuri D’agostino, Christian di Filippo, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Marcello Spinetta, Beatrice Vecchione, Annamaria Troisi, Angelo Tronca
scene e luci Jacopo Valsania
costumi Alessio Rosati, Aurora Damanti

regia Elena Serra
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Recensione di: Alessandra Nunziante

Re Lear: il trionfo del bene sul male, è utopia o realtà?

È un Re Lear decisamente più calcato e più “underground” rispetto all’opera originale del bardo, il Re Lear di Giorgio Barberio Corsetti, regista teatrale romano, interpretato da un eccezionale Ennio Fantastichini, fasciato da un completo in velluto rosso. Riscritto in chiave moderna senza azzardare troppo, ripulito da lirismi di marca secentesca sostituti da qualche battuta odierna, l’opera si fa piacevolmente seguire e trascina lo spettatore per l’intera durata dello spettacolo, nonostante la lunghezza – alla quale non siamo più abituati, vista la velocità eccessiva con cui tutto scorre nel nostro tempo- sia non poco impegnativa; merito anche di un cast numeroso e pulsante che conosce davvero il lavoro dell’ attore su stesso.

Re Lear è la storia di padri che fraintendono i figli, e di figli che tradiscono i padri; è una storia intrecciata di legami di sangue infangati da menzogne e sotterfugi per un unico grande desiderio: il potere, che prende forma in svariati modi: nella dominazione, nella supremazia, nel denaro e nella sessualità. Soprattutto, però, è la storia di “animali umani” che dimostrano di essere più istintivi e affamati degli animali stessi, che non uccidono per sussistenza ma per smania di possessione e per egoismo. Ecco infatti, che la storia si ripete: Re Lear non è solamente una tragedia teatrale, ma è un affresco della violenza che domina i nostri telegiornali e i social network, un dipinto del profitto sul più debole e il riflesso di un meccanismo sociale presente fin dagli albori, che premia cioè chi tace e punisce chi parla. L’intero Re Lear è quella sensazione di olio fritto che non si ha digerito, è la nausea di una sbornia triste dopo una felice festa di carnevale all’insegna di brindisi e balli ma che, ad ogni modo, lascia una piccola speranza alle generazioni future.

“A noi spetta gravarci del peso di questo triste tempo, dire quel che si prova, e non quel che si deve”, sono queste, infatti, le ultime parole affidate ad Edgar (un toccante Gabriele Portoghese), unico superstite della tragedia che rappresenta uno spiraglio di speranza e di miglioramento per le generazioni future.

La suddivisione dello spettacolo ricorda molto la Commedia dantesca, concepita però a ritroso. Lo spettacolo si apre nel salone del palazzo del Re, con un modernissimo party colorato con tante luci e tanto spumante, con un sottofondo di musiche composte e eseguite dal vivo da Luca Nostro; un Eden contemporaneo insomma, dove spiccano abiti eleganti e colorati che caratterizzano anche i vari personaggi, e il loro stato d’animo: Lear è caratterizzato dal rosso, la figlia Cordelia ( una delicata Alice Giroldini) dal nero, le spietate sorelle di quest’ultima e i loro mariti (Mariano Pirello e Pierluigi Corallo) , rispettivamente Goneril (un’ irruenta Francesca Ciocchetti) dal blu e Regan (una sensuale Sara Putignano) dal verde. In questa prima parte si svolge il dramma delle due famiglie.

Il primo dramma riguarda Re Lear appunto, un re rinascimentale e barbaro che fa della parola il metro di giudizio dell’amore. Egli ha, infatti, deciso di abdicare e di spartire i territori del suo regno in proporzione all’amore che ogni figlia, con le sue parole, saprà dimostrare al padre. Cordelia sarà l’unica fra le tre figlie, però, che si rifiuterà di adulare il padre in questo modo, poiché fermamente convinta che l’amore puro si dimostri con i fatti e non con parole condite di reverenza; ma d’altronde questo è il dramma in cui è la parola a rivelare l’azione e non viceversa, dunque a venir punita sarà la sincerità, tanto che Cordelia verrà rinnegata come figlia dal padre; sarà, invece, la parola che non sentiamo ma che conviene dire ad avere la meglio.
Sempre in questa prima parte assistiamo a un altro dramma che si sovrappone e si intreccia alla vicenda dei Lear, e cioè quella della famiglia Gloucester composta dal Conte in questione- interpretato da un incisivo Michele Di Mauro che sfodera una straordinaria capacità di far prendere a cuore allo spettatore quella tenerezza e quell’ ingenuità tipica di un padre innamorato dei propri figli, come lo è Gloucester- e dai suoi figli Edgar e Edmund. Quest’ultimo interpretato dall’atletico Francesco Villano che ci regala tutto se stesso, in particolare durante i monologhi che sembrano essere cuciti su di lui, stregando il pubblico con l’ ambiguità feroce e distruttiva del suo personaggio.

Nella seconda parte, che si può paragonare ad un Purgatorio, si svolge la tempesta che imperversa nella brughiera, il simbolo della follia che Lear farnetica. È proprio qui che l’incubo inizia a farsi avanti, confondendosi con la realtà: ecco che gli abiti perdono la vivacità dei colori che avevano in precedenza e la musica si fa più cupa.
Ed è sempre in questa parte che prende vita un altro tema, quello della strategia che si manifesta nell’ amore opportunista delle sorelle che tradiscono prima il padre e poi i loro mariti, e nel linguaggio colmo di falsità e invidia di Edmund, un Caino invidioso del fratello, che stufo di esser il figlio “bastardo” di Gloucester è disposto a tutto, persino a denunciare il padre come spia e a farlo accecare, pur di raggiungere una posizione elevata e di riscattare la bassa stima del proprio sé .

     

Infine la terza e ultima parte: il girone infernale ovvero la guerra, che porta con sé la dissoluzione finale della stirpe di Lear e della sua famiglia, sotto una scarica di musica rock che rivela i complotti e i tradimenti. Un girone infernale dove però la morte non guarda in faccia nessuno, punendo sia innocenti sia peccatori, ed è proprio a conclusione di questa tragedia che la domanda sorge spontanea: è possibile ancora credere nel trionfo del bene sul male o è solo un’utopia? E ancora, è possibile credere nella giustizia, visto che a pagare sono quasi sempre i puri d’animo?

Siamo invasi oggi da un interessamento su alcuni temi- come quello di farsi o meno giustizia in modo autonomo- da parte degli organi politici, che è solo apparente e che poi, col passare del tempo dimostra falle, trascuratezza e poca serietà; questo è pericoloso e non è da sottovalutare, perché comporta un trionfo di ignoranza- nel vero senso della parola, cioè di non conoscenza- che sfocia in atti ingiustificabili, violenti, fascisti e razzisti (e non solo verso stranieri), che rischia di finire in un’autogestione confusa e pregna di fraintendimenti, dove distinguere poi tra carnefice e vittima diventa difficile se non impossibile. È su questi problemi, quindi, che succedono oggi come succedevano anche ai tempi del drammaturgo inglese, che dovremmo riflettere.
Scritta quattro secoli fa, tra il 1605 e il 1606, Re Lear è, purtroppo e per fortuna, come tutte le opere di Shakespeare, estremamente attuale: quanti dissidi familiari sorgono a causa di eredità? Quante morti innocenti per la spartizione di territori- penso per esempio agli israeliani e ai palestinesi – ci sono state? Quante gare si facevano nel medioevo sulla torre più alta che al giorno d’oggi mi ricorda tanto una gara a chi possiede l’arma da guerra più tossica o devastante? Riflettiamoci, e cerchiamo di affermare un po’ di giustizia nel nostro piccolo mondo: è questo il messaggio di quest’opera. Come dice Edmund nell’ultimo atto, la ruota gira e gira per tutti, e anche se le strade asfaltate che tutti intraprendono sembrano essere le più facili da percorre, non è detto che siano le più convenienti; a volte, inoltrarsi nel sottobosco può essere la strada più giusta e perché no più vantaggiosa.
C’è ancora tanto bisogno delle opere di Shakespeare in questo mondo per le generazioni presenti e per quelle future!

Martina Di Nolfo

 

Re Lear

di William Shakespeare
traduzione Cesare Garboli
con Ennio Fantastichini
e con Michele Di Mauro, Roberto Rustioni, Francesco Villano, Francesca Ciocchetti, Sara Putignano, Alice Giroldini, Mariano Pirrello, Pierluigi Corallo,
Gabriele Portoghese, Andrea Di Casa, Antonio Bannò, Zoe Zolferino
regia e adattamento Giorgio Barberio Corsetti
scene e costumi Francesco Esposito
luci Gianluca Cappelletti
musiche composte e eseguite dal vivo Luca Nostro
ideazione e realizzazione video Igor Renzetti e Lorenzo Bruno
Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Teatro Biondo – Stabile di Palermo

 

METAmORFOSI: LO SCARAFAGGIO SOCIALE A PANCIA IN SU

All’interno del variegato programma del Torino Fringe Festival 2017 troviamo con diverse repliche  lo spettacolo, vincitore di Maldipalco 2014, METAmORFOSI della compagnia Officina per la scena. La rappresentazione, di e con Luca Busnengo e con la supervisione artistica di Michele Guararldo, si tiene presso l’Unione Culturale Franco Antonicelli, un luogo intimo e raccolto, particolarmente adatto per un tipo di lavoro  quale quello proposto da Busnengo.

Sembra infatti quasi di scendere in un sotterraneo, i soffitti sono a volta e le sedie per accomodarsi poche, situate vicine al palco, che è molto basso. Ed è proprio per questo che quando l’attore fa il suo ingresso e inizia a parlare, non si può fare a meno di sentirsi parte della sua narrazione, di sentire il suo respiro; non c’è distanza tra il pubblico e chi gli si sta rivolgendo, siamo immersi insieme a lui nella storia. L’attore è talmente vicino a noi da farci sentire tutto il dolore del personaggio, e l’empatia cresce sempre di più, mano a mano che lo spettacolo prende vita. Dobbiamo accettare l’idea che assisteremo ad uno spettacolo che non ci vuole passivi, che proveremo emozioni intense,  e che ascolteremo argomenti che forse ci toccheranno nel profondo.
Tutti gli elementi per una forte immedesimazione sembrano quindi essere presenti, ma grazie all’uso della luce, talvolta colorata e psichedelica, e della musica, che vede l’utilizzo di brani di Caparezza o Giorgio Gaber, si crea un’atmosfera straniante che porta lo spettatore a distaccarsi quanto basta per poter ragionare razionalmente sui temi trattati.

Colpisce l’estrema attualità di quello che viene narrato: il disagio che le generazioni provano in questo tempo dove i cambiamenti e le regole della società sono talmente rapidi che per stare al passo non si può far altro che abbandonare la propria identità. Per parlare di questo vediamo sulla scena un personaggio anonimo che racconta cosa succede a coloro che invece non vogliono omologarsi, ma che finiscono con il sentirsi inadeguati alla vita poiché questa società non premia più la diversità come una ricchezza.
Storie comuni di disagi, di suicidi, storie individuali e collettive, di cambiamenti e di trasformazioni, prendono vita attraverso le parole di uno “scarafaggio” che rappresenta tutti e nessuno. Il richiamo a Kafka è chiaro e la capacità di Luca Busnengo di muoversi e modificare la voce per ricordare l’insetto è ammirevole. Lo scarafaggio non è altro che colui che decide di uscire allo scoperto e mostrarsi nella sua particolarità, sicuro di essere protetto dalla sua forte corazza. Ma, come viene detto  nella parte finale del monologo, se lo scarafaggio viene capovolto dalla società e non viene aiutato da nessuno, non può far altro che mostrarsi vulnerabile, soffrire per la sua condizione personale e annegare nelle proprie lacrime. Perché quando viene accesa la luce e non ci sono più le tenebre a nasconderti, non si può più scappare.

Oltre al richiamo letterario a La metamorfosi di Franz Kafka, è presente anche quello a Amleto di William Shakespeare, in particolare al  celebre monologo “Essere o non essere…”, usato nel momento in cui la soluzione di chi soffre sembra essere solo quella del suicidio, ovvero quella di abbandonarsi ad un sonno senza sofferenze che possa anche includere sogni.

La scenografia è composta da uno sgabello nero e anche i costumi usati dall’attore sono scuri, eccezion fatta per la camicia bianca, che viene però coperta per la maggior parte del tempo da un cappotto. Non siamo quindi di fronte ad un’ambientazione naturalistica e questo non può far altro che attivare l’immaginazione del pubblico, che cerca di dare un luogo e un tempo nella sua mente alle storie narrate. L’unico oggetto colorato che viene usato come un simbolo è una mela verde, bellissima e perfetta, in grado proprio per questo di adattarsi ad ogni situazione, esattamente come le regole sociali vorrebbero che fosse ogni individuo.

di Alice Del Mutolo

di e con Luca Busnengo
supervisione artistica Michele Guaraldo
spettacolo vincitore MALDIPALCO 2014
Tangram Teatro

 

 

“MINETTI: LA FOLLIA NELL’ARTE”

Lo scorso martedì 4 Aprile ha debuttato al Teatro Carignano “Minetti”, un testo di Thomas Bernhard, con Roberto Herlitzka, in scena per la stagione teatrale 2016/2017 del Teatro Stabile di Torino.

Il testo è quasi un lungo monologo, inframmezzato solo da qualche battuta di alcuni personaggi che compaiono all’interno dell’albergo dove è ambientata la storia.
Siamo ad Ostenda, città sulla costa del Belgio, durante la notte di San Silvestro. Giunge in albergo un anziano signore con una pesante valigia da cui non si separa mai, Minetti, che annuncia di avere appuntamento con il direttore del teatro per portare in scena, dopo trent’anni di inattività, il Re Lear di Shakespeare.
Durante l’attesa, così prolungata da infondere il dubbio che in realtà l’incontro sia frutto dell’immaginazione dell’attore, Minetti racconta della sua vita e riflette sul teatro e sul mestiere di attore. Un personaggio che porta con sé la tristezza per essere stato esiliato dalla città dove era direttore del teatro, per essersi negato alla letteratura classica e che per trent’anni, nella soffitta della sorella, non ha fatto altro che ripetere il Re Lear di Shakespeare con la maschera che aveva creato per lui il celebre Ensor.

Per misurarsi con un personaggio così definito e per interpretare un testo tanto forte e complesso, ci vuole sicuramente una certa capacità e esperienza, attributi che chiaramente l’attore protagonista Roberto Herlitzka può vantare. Con grande intelligenza Herlitzka riesce a rendere il personaggio ironico nella sua follia, nonostante la drammaticità di una vita vissuta  esiliato dalla società. Molto dinamico in scena, non lascia mai l’occhio dello spettatore fisso in un punto e, comunicando con tutto il corpo, rende chiaro il messaggio e mantiene alta l’attenzione verso un testo che richiede per sua natura di essere seguito parola per parola.
Grazie ad un approccio intimo al personaggio, coinvolge lo spettatore a tal punto da indurlo a riflettere sulle questioni da lui affrontate. Questo aspetto viene sottolineato anche da alcune battute registrate con voce soffiata, che sembrano quasi svelare al pubblico le riflessioni personali di Minetti sull’arte.

Il protagonista si confronta principalmente con due personaggi, la cui presenza è per lui il pretesto per esporre le proprie idee: il primo è una signora, ospite ogni anno dell’albergo per passare il Capodanno sola con una maschera da scimmia e qualche bottiglia di champagne. Può essere vista come l’alter ego di Minetti, poiché entrambi vivono in una triste solitudine e sentono il bisogno di “recitare”  una parte nascosti dietro una maschera.
Il secondo personaggio è quello di una ragazza giovanissima che aspetta il fidanzato per andare a una festa mentre ascolta musica da una radiolina. Un po’ timida, scambia qualche parola con Minetti provando forse nei suoi confronti una certa tenerezza. Essa è chiaramente un contrasto con la sua situazione, è una giovane donna che ha ancora tutta la vita davanti e alla quale l’attore augura di non commettere errori.

La vicenda è interrotta qua e là da figure mascherate che entrano ed escono dall’albergo: si muovono lentamente, hanno maschere inquietanti e la loro presenza determina una situazione surreale che contrasta con il tono ironico e grottesco del racconto di Minetti. Si tratta di figure allusive che sembrano quasi uscire dalla mente del protagonista, come fantasmi del suo passato, delle sue paure e dei tormenti che alimentano la sua follia.

La scenografia ha un tratto naturalistico ed è ben curata in ogni dettaglio, come anche la musica e i vari suoni, ad esempio quello esterno del mare o quello dell’ascensore all’interno dell’albergo.
Le luci cambiano repentinamente a seconda dei momenti dello spettacolo per sottolineare ora l’introspezione del racconto, ora l’atmosfera quasi onirica dovuta alla presenza dei personaggi mascherati.

Importante è il ruolo delle maschere: quella della signora, quella di Re Lear di Ensor dalla quale Minetti non si separa mai e quelle indossate da chi festeggia San Silvestro. Maschera come rifugio dalla realtà e come unica possibilità per essere liberi.

Proprio perché la scenografia è così naturalistica, risulta forse un po’ stridente il finale, che secondo il testo dovrebbe essere ambientato all’esterno su una panchina mentre la neve cade su Minetti. In questo caso, il fondo della scenografia cambia, ma il contesto dell’albergo, così visivamente ben curato, rimane.
Inoltre, gli attori erano muniti di microfono, aspetto che può lasciare perplessi, perché una delle caratteristiche del teatro è per esempio poter notare negli attori un cambio di tonalità vocale a seconda della posizione del corpo nello spazio.
In ogni caso la recitazione del protagonista è riuscita a catturare con molto efficacia l’attenzione del pubblico, sia per la sua dinamicità, sia per l’ironia con cui si è approcciato al personaggio.

Un testo che parla della vita, della società, dell’arte e che vede nell’attore colui che è in grado di vivere fino in fondo tutte le emozioni e perciò anche la frustrazione che porta inevitabilmente alla follia. Come afferma lo stesso Minetti, l’arte è “orrenda” e l’attore è “mostruoso” poiché è l’unico in grado di portare di fronte al pubblico la dura realtà. Ma proprio perché non viene compreso dalla società, l’attore è destinato a fallire sia nell’arte che nell’esistenza.

di Alice Del Mutolo

di Thomas Bernhard
traduzione Umberto Gandini
con Roberto Herlitzka
e con Pierluigi Corallo, Verdiana Costanzo, Matteo Francomano, Roberta Sferzi, Vincenzo Pasquariello
regia Roberto Andò
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Gianni Carluccio, Daniela Cernigliaro
suono Hubert Westkemper
Teatro Biondo Palermo

AmletOne! : una fiammata

La prima stagione del teatro Marcidofilm è stata inaugurata lo scorso anno, in onore dei trent’anni della compagnia Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa. La scelta del primo lavoro è ricaduta sul AmletOne! Dopo il successo della scorsa stagione, lo spettacolo è stato riproposto anche nel calendario di quest’anno, dal 9 al 13 novembre.

Come l’apertura del nuovo teatro, anche l’inizio dello spettacolo è stato prorompente. Il telo che a prima vista poteva parere semplicemente un eccentrico sipario viene trapassato all’improvviso da dei lunghi tubi. Le voci corali, inconfondibile caratteristica della compagnia, rompono il silenzio attraverso i loro strani megafoni trattando subito uno degli argomenti simbolo dell’Amleto di Shakespeare, una meditazione sull’essere. Da dietro la tela ci viene narrato una specie di prologo e una considerazione sull’opera. Compaiono quindi delle ombre in movimento ed è così che vedremo per la prima volta i personaggi. Poi i buchi che sono stati fatti sulla tela rimangono vuoti e ciò che segue sarà un intero minuto di totale buio accompagnato da forti rumori. L’effetto che si crea nel buio improvviso, utilizzato poi anche in una successiva scena, è davvero efficace e viene distrutto e fortificato da ciò che ci troviamo davanti alla riaccensione delle luci: una vera e propria fiammata.

Ora il palco è visibile, la scenografia è composta da strutture regolari e da scale, ma ciò che non ci si aspetta sono i colori. Dominante è il giallo fosforescente e lo stridente contrasto con il rosso, il nero e il bianco. I colori sono presenti tutti assieme su ogni struttura e sopratutto, in forme diverse, su ogni tuta e sui volti dei personaggi che attendono fermi guardando il pubblico. Ci viene presentata subito la corte e i vari personaggi circondano i due troni centrali su cui sono seduti Gertrude e Claudio, interpretati da Maria Luisa Abate e Marco Isidori, anche autore e regista di questa personalissima versione dell’Amleto.

Ogni personaggio è caratterizzato in maniera differente. Gertrude e Claudio hanno il viso tirato con dello scotch rosso cosicché le loro espressioni ci paiano quasi falsate e il loro ghigno evidenziato. Ofelia, simbolo dell’amore nell’opera, ha un cuore bianco bordato di rosso sull’intero volto giallo e la sua femminilità è rafforzata da un costume rigonfio che le evidenzia i fianchi. Polonio è invece un uomo stabile e sembra un consigliere retto e giusto, i decori del suo costume sono infatti simmetrici e sulla fronte presenta un cerchio rosso mentre il volto è interamente bianco. Laerte ha disegnata sul volto una figura spigolosa a scale che forse vuole simboleggiare il cambiamento che durante l’opera ha nei confronti dello stesso Amleto.

Scelta molto particolare è invece il teschio raffigurato in testa a Orazio. Esso può simboleggiare sia il rapporto che il personaggio ha con gli spettri e quindi con la morte o essere semplicemente un divertente escamotage per rendere in scena l’ormai simbolica immagine di Amleto pensieroso con in mano il teschio.

Il protagonista è la figura che ha maggior risalto e a differenza degli altri personaggi non presenta alcun tono sgargiante, è l’unico che veste interamente di nero con linee a saetta argentate. Paolo Oricco, che ne dà una forte interpretazione, ha il volto interamente bianco con gli occhi cerchiati di nero e i capelli sottilissimi e molto chiari seguono i movimenti dati dalla sua pazzia. In tal modo viene anche evidenziata una certa fragilità del personaggio, oltre all’ovvio dualismo, grazie al gioco di bianco e nero.

La simmetria presente nelle scenografie e negli spostamenti degli attori accentua la totale sregolatezza che mano a mano si impossessa in primo luogo di Amleto, poi di Ofelia e per come si atteggiano in scena anche degli altri protagonisti.

Come al solito le scenografie di Daniela del Cin si trasformano presto anche in macchine teatrali, cosicché nei cambi di scena a vista, realizzati dagli stessi personaggi, gli attori possano fare ampio uso delle variazioni d’ambiente che si creano. In questo modo le varie figure divengono un tutt’uno con il palco e le situazioni ci sembrano, nonostante le esagerazioni o modifiche dei Marcido Marcidorjs, perfettamente legate alla scena. Avremo quindi Amleto e Ofelia che dialogano in bilico su una sbarra portata sul proscenio e lo squilibrio di entrambi si accentuerà, ed é in questo momento che viene appena citato il monologo dell'<essere o non essere>.

Un altro gioco divertente è stato fatto grazie alla scena del teatro nel teatro presente anche nell’opera originale. In questo modo le varie voci dei personaggi ed il monologo di Amleto elogiano la stessa “finzione amica” e rendono lo spettacolo a corte un discorso meta-teatrale.

“Lo spettacolo” spiega Maria Luisa Abate in un’intervista “parte come una specie di ingranaggio e poi monta. Più gli oggetti vengono sparpagliati, più si allontanano dal centro della scena e più l’azione si fa forte!” . È infatti questo che vediamo: uno smontarsi e rimontarsi della scena che è perfettamente in linea con la storia e con l’evoluzione dei personaggi.

“Fino ad arrivare all’assoluto niente, a tutto nero” e vediamo quindi svolgersi lo scontro finale con poca luce e senza più evidenza dei colori sgargianti. Amleto e Laerte saranno sospesi con dei cavi e sorretti dagli altri attori, mentre il resto della scenografia sarà quasi scomparsa.

Marco Isidori ha preso il testo e ha fatto in modo di renderlo suo e adatto ai nostri giorni, e come ha detto la stessa Abate ha tentato di “riportare quello che ci può ancora interessare di queste parole, di questa tradizione, nella modernità”

“Una fiammata” lo descrive Paolo Oricco, poiché ai nostri giorni non vi é motivo di presentare al pubblico l’Amleto originale. I tempi e i temi devono quindi seguire e soddisfare il pubblico, il quale deve comprendere e sentirsi vicino a ciò che viene rappresentato. Vengono per questo citati Trappola per Topi di Agatha Christie e sentiamo nel finale una canzone di Sergio Endrigo. Veniamo trasportati ai giorni nostri insieme a questo Amletone molto scherzoso.

“Abbiamo voluto che questo Amleto fosse un Amleto-Marcido, che fosse quindi esagerato, potente ma che allo stesso tempo il pubblico riconoscesse l’Amleto che si aspetta”

AFTER SHAKESPEARE: SALVATE DESDEMONA di Lidia Ravera

he fine hanno fatto gli eroi narrati dal calamo Shakespeariano?

Ce lo raccontano sei autori (Nicola Fano curatore del progetto “After Shakespeare”, Lidia Ravera, Alberto Gozzi, Lia Tomatis, Sergio Pierattini, Donatella Musso) che con sei spettacoli in progress dal 26 febbraio al 22 aprile in prima assoluta, presso il Teatro Astra, portano in scena i frutti di un lungo laboratorio di scritture e analisi critiche per celebrare i quattrocento anni dalla morte del bardo.

Salvate Desdemona per la regia di Alberto Gozzi, è il secondo di questi imperdibili appuntamenti. Ambientato durante gli anni di piombo, in piena esplosione del femminismo militante, tra collettivi politici, occupazioni, manifestazioni e picchetti fuori dalle fabbriche, Gozzi insieme a Lidia Ravera, porta in scena una mise en abîme dell’ Otello del drammaturgo inglese, che conserva un’incredibile attualità a distanza di secoli.

Shakespeare infatti fu uno dei primi autori del tempo a comprendere il ruolo di vittima della donna, cercando di spiegarne la causa. Impossibile dunque, citando un’opera del genere, non parlare di femminicidio, ancora oggi ampiamente praticato. Lo spettatore è dunque invitato a riflettere su un tema ancora molto caldo e irrisolto, quello della violenza sulle donne.

Nella sceneggiatura della Ravera, Desdemona è una ragazza colta, amante del teatro e politicamente impegnata, che ha rinunciato ai suoi agi per vivere con il suo sposo Otello, un operaio burbero, che ha abbandonato il caldo sud Italia per trasferirsi nel capoluogo piemontese, dove lavora come operaio della Fiat.

Il loro rapporto è però minato da un’esasperante gelosia, “mostro dagli occhi verdi che dileggia la carne di cui si nutre”. Otello è infatti convinto che sua moglie lo tradisca, prova ne sarebbe un fazzoletto, sostituito per questo riadattamento con un cd, tanto caro ad Otello perché donatogli dalla madre appassionata di lirica, che Desdemona impresta a Cassio.

Il vaso di Pandora si apre: accecato dalla rabbia, ebbro di una follia quasi ariostesca, Otello si trasforma in una bestia che tenta di affondare i suoi artigli nel candido collo di Desdemona, la situazione quindi precipita sempre di più. Riuscirà la nostra protagonista a destabilizzare il furore omicida del marito, mettendo in salvo la propria vita?

SALVATE DESDEMONA

È la giovane Selene Baiano, membro dell’equipe artistica della Fondazione Teatro ragazzi e giovani di Torino, a vestire i panni di Desdemona, Otello è invece interpretato da un graffiante Alessandro Lussiana, diplomato nel 2006 presso la Scuola di recitazione del Teatro Stabile di Torino (impegnato anche nel cinema, nella televisione e nel doppiaggio), che per alcuni tratti sembra reincarnare una personalità rude e incisiva alla Gian Maria Volonté ne La classe operaia va in paradiso di Elio Petri.

Per chi fosse interessato e non avesse avuto il tempo di andare a teatro, il 23 e 24 aprile, nella prestigiosa sede del Circolo dei Lettori di Torino, verranno riprodotte in due mini-maratone sceniche, a partire dalle ore 19, tutte e sei le rappresentazioni. Il 23 aprile La signora di Shakespeare, Il sogno di Bottom e Lady M; il 24 aprile Salvate Desdemona, Puck e l’allodola, e A losing suit.

AFTER SHAKESPEARE/ Salvate Desdemona

Di Lidia Ravera

Con Selene Baiano e Alessandro Lussiana

Scene e costumi: Barbara Tomada

Luci: Mauro Panizza

Regia di Alberto Gozzi

FONDAZIONE TEATRO PIEMONTE EUROPA

Martina Di Nolfo