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LA SIGNORA DEL MARTEDÌ – PIERPAOLO SEPE

GLI ANGOLI BUI DELLA SOCIETÀ

Quattro bizzarri personaggi accomunati da un infelice fil rouge danno vita a La signora del martedì nella sua prima replica torinese al Teatro Gobetti: sono anime sconfitte, poste ai margini della società a causa di errori personali, sventure o ingiustizie ricevute.

Fantasmi della memoria e un oscuro passato vengono risvegliati nel corso della commedia-thriller rivelando contraddizioni e forti passioni celate. Chi paga rapporti sessuali all’insegna della propria indipendenza, chi ricatta per ossessione, chi si trasforma continuamente per affermare la propria identità, chi tradisce, uccide o si toglie la vita per amore.

L’autore Massimo Carlotto ha scontato anni di carcere per un omicidio che non ha commesso. La drammaturgia attinge dal suo vissuto e descrive alcuni angoli bui della società contemporanea. Affronta il tema della persecuzione attuata dalla stampa, disposta ad alterare la realtà dei fatti pur di servire un prodotto ben confezionato e accattivante ai lettori ingordi. Una caccia alle streghe sempre alla ricerca di un colpevole, anche a costo di trascurare la verità e rovinare l’esistenza degli interessati.

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Ogni martedì alle 15:00 una donna sfuggente (Giuliana De Sio) varca la soglia della Pensione Lisbona per concedersi un’ora di piaceri carnali. Quest’abitudine è diventata negli anni un rituale necessario, Nanà reitera le medesime azioni con sistematica meticolosità. Si mostra risoluta e autorevole, ma nel secondo atto la sua marmorea corazza di ghiaccio andrà in frantumi. Ella compra sessanta minuti di sesso alla settimana per fuggire la realtà della propria vita, l’algida insensibilità è una maschera dietro cui si nasconde.
Al contrario Bonamente, attore porno in declino, agogna disperatamente fama e celebrità. Non riuscendo mai a concretizzare tali aspirazioni, ripiega sul mestiere di gigolò. Egli vive ormai da quindici anni nella pensione Lisbona, è l’unico inquilino.
L’alberghetto decadente è gestito dalla signora Alfredo, un travestito che si occupa del prezioso cliente come fosse il proprio bambino. La proprietaria si rifugia nell’edificio per poter indossare liberamente abiti da donna. In strada porta indumenti maschili al fine di non sconvolgere i passanti, non rinuncia però alle scarpe col tacco, così da rammentare agli sguardi giudicanti la loro colpa nel costringerla a vestirsi diversamente da come vorrebbe.
L’ingresso di un ambiguo vecchio avvezzo all’alcol (Alessandro Haber) rompe la monotona quotidianità dell’albergo riesumando antichi scheletri a lungo tenuti sottochiave. Egli si presenta come un nuovo affittuario senza malizia, ma presto svela di essere un machiavellico giornalista di cronaca la cui psicosi viene somatizzata nella perdita dell’uso delle gambe.

Lo spettacolo è un adattamento teatrale dell’omonimo romanzo di Massimo Carlotto. Il drammaturgo nel trasporre il testo ha lavorato a contatto diretto con gli attori e tale collaborazione ha generato delle modifiche nei personaggi. Ad esempio la costrizione sulla sedia a rotelle della figura del giornalista è una scelta che nasce dall’attuale limitazione fisica dell’interprete Haber.

Nonostante l’utilizzo dei microfoni ad archetto, il testo pronunciato come un torbido fiume di parole è spesso di difficile comprensione.
La prima parte si sviluppa come una breve commedia; a seguire invece gli avvenimenti tendono verso un clima cupo e sofferto. Inaspettatamente all’apice drammatico il registro vira verso una marcata comicità che potrebbe risultare stonata agli occhi dello spettatore.
Per quanto riguarda i movimenti scenici e i cambi di stato degli attori, talvolta questi appaiono macchinosi e poco fluidi.

A proposito dell’arco narrativo dei soggetti invece, lo sviluppo è facilmente intuibile fin dal loro primo ingresso. In alcune interviste De Sio parla di Nanà come un carattere dal profilo totalmente tragico; Haber spiega che nel romanzo il giornalista è dipinto con le caratteristiche di un sadico crudele, agisce solo per nuocere al prossimo. Egli in quanto artista cerca di dargli una luce diversa nell’opera teatrale, indagando la sua fragilità e disperazione date da un affetto mai ricambiato.
La figura del travestito è un ruolo che rischia facilmente di essere appiattito in una macchietta, ma Paolo Sassanelli ci sorprende con piacevole freschezza e spontaneità.

Inframezzato anche da assoli in cui ogni personaggio canta un classico della musica italiana, lo spettacolo risulta in fin dei conti un pastiche di registri poco armonico. Ne sono un ulteriore segnale i finali di entrambi gli atti che si discostano dal realismo di cui è permeato il resto del lavoro. Nanà nella sua vulnerabilità si libera dagli affanni della vita e danzando crea un’onirica immagine poetica: “Il tango è molto meglio della vita perché se sbagli un passo puoi comunque andare avanti a ballare senza dover rimediare”.

Ariel Ciravegna Thedy

Autore Massimo Carlotto
Con Giuliana De SioAlessandro HaberPaolo SassanelliRiccardo FestaSamuele Fragiacomo
Regia Pierpaolo Sepe
Scene Francesco Ghisu
Costumi Katarina Vukcevic
Produzione Gli Ipocriti Melina BalsamoGoldenart ProductionTeatro della Toscana

Come tutte le ragazze libere – Paola Rota

L’idea per lo spettacolo Come tutte le ragazze libere, andato in scena al Teatro Gobetti dal 21 al 26 febbraio all’interno della stagione teatrale 2022/2023 Out of the blue, nasce da un singolare fatto di cronaca: sette tredicenni, originarie della Bosnia Erzegovina, al ritorno da una gita scolastica scoprono di essere rimaste incinte. La notizia ha un impatto globale, attorno ad esso si crea un dibattito accesso per capire di chi siano le responsabilità di un’educazione sessuale non adeguata, se non addirittura mancante. La scuola e le famiglie scaricano queste responsabilità l’una sulle altre.

Da tutto questo la drammaturga Bosniaca Tanja Sljivar prende l’ispirazione per scrivere, nel 2017, questa pièce teatrale, nella sua versione italiana tradotta da Manuela Orazi e diretta da Paola Rota.

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TST – Aspettando la nuova stagione riflessioni su quella passata

Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo

(da Anna Karenina di Lev Tolstoj)

Nella scorsa stagione del Teatro Stabile di Torino abbiamo assistito a diversi spettacoli che hanno avuto al centro rapporti familiari, ovviamente quasi sempre conflittuali. Del resto si dice che non sia possibile raccontare una buona storia senza un buon “conflitto” e quale contenitore migliore se non quello della famiglia, per generarne di enormi e sorprendenti. Lo avevano capito molto bene i greci che da “divini” conflitti familiari hanno fatto scaturire l’intera esegesi dell’umanità.

Tra i rapporti familiari più complicati, e probabilmente per questo di maggiore interesse, rimane il più ancestrale tra tutti, quello tra genitori e figli. Ed è proprio questa la relazione al centro dei due spettacoli che vorrei provare a mettere a confronto: Da lontano – chiusa sul ripianto monologo/dialogo scritto e diretto da Lucia Calamaro e interpretato dalla brava Isabella Ragonese; e il ben noto testo di Euripide Ifigenia, uno spettacolo corale diretto e interpretato, tra gli altri, da Valerio Binasco nel ruolo di Agamennone.

Partiamo subito dal riconoscere che entrambi questi spettacoli sono animati da rapporti familiari conflittuali, che sono in realtà il pretesto attraverso il quale si svela una tematica più profonda che è il vero minimo comun denominatore delle due pièce: “la condizione femminile devastata da una società oppressiva e giudicante”, come si legge nella stessa nota dello spettacolo Da lontano. Di particolare interessante è il modo che hanno trovato i due registi di mettere in scena questo tema perché risulta perfettamente identico nella sua specularità. Del resto stiamo parlando di due punti di vista completamente e inevitabilmente diversi, quello maschile di Binasco e quello femminile di Calamaro. In un viaggio che procede dall’interno all’esterno, dal privato al pubblico per quel che riguarda il punto di vista maschile; dall’esterno all’interno, dal pubblico al privato, per quel che riguarda il punto di vista femminile. Dove ragioni pubbliche hanno la meglio sull’animo maschile e ragioni private su quello femminile.

Da lontano – chiusa sul ripianto, nonostante racconti una storia contemporanea, un dramma intimo che riguarda la relazione tra una madre e una figlia, in realtà come abbiamo detto, pone l’accento sulla condizione femminile come qualcosa, come dice lo stesso titolo, che arriva “da lontano”. Un retaggio che troviamo già nei miti greci, in pensatori come Aristotele o in drammaturghi come lo stesso Euripide, ed è proprio in questo che i due spettacoli rivelano un’identica sostanza.  Ma Calamaro parte da un “oggi”, che è ben rappresentato da quel male simbolo della società contemporanea: la depressione, per arrivare a un passato atavico, quel “lontano”, padre di un condizionamento sociale, culturale che è arrivato immutato fino a noi. Un passato che ha avuto come conseguenza estrema l’accettazione, per non dire la pretesa, della sempre totale disponibilità del sacrificio della donna per gli uomini. Nella stessa nota già citata si legge di un “monologo […] sul mondo femminile devastato da una società […] che impone alla donna ruoli limitanti, nei quali ci si sente in trappola fino a non riconoscersi più…”, sottintendendo un andare in pezzi, uno “smembrarsi” o un essere smembrati come atto dovuto (inevitabile non pensare a Ifigenia).

Dal canto suo Binasco proprio nell’Ifigenia procede in maniera inversa, ovvero parte da una storia “lontana”, con il fardello di aspettative formali che una scelta del genere comporta, come scrive lui stesso nella nota di regia, ma “prendendosi la responsabilità” di raccontare, da uomo contemporaneo, con una sensibilità contemporanea, una storia che vuole essere contemporanea. Sempre nella nota di regia si legge infatti:

“Grazie al fatto che sono un uomo del mio tempo che del suo tempo vuole parlare, ho invece ben presente soprattutto la concretezza psicologica contenuta in questa antica favola tragica, e voglio assumermi tutte le responsabilità nel tutelare questa sensibilità contemporanea, essendo in qualche modo certo che la nostra condizione umana è sempre e comunque illuminata dalla rappresentazione mitica…”

Quindi da un lato abbiamo Binasco che mette in atto un processo attraverso il quale tende a smitizzare la “favola tragica”, proponendo, attraverso quella “concretezza psicologica”, non archetipi, modelli, con cui siamo abituati a confrontarci quando ci accostiamo al mito ma complessi esseri umani con tutte e in tutte le loro sfaccettature. Dall’altro in Da lontano avviene il processo inverso grazie al quale, più che ricorrere a una “concretezza psicologica” si ricorre a una “concreta analisi psicologica” che tenta di sciogliere quella complessità dell’essere umano per trarne modelli, archetipi, più facilmente riconoscibili, che possono essere più facilmente compresi, ascoltati e per questo perdonati. Viaggi diametralmente opposti che da un lato portano verso la malattia, la schiavitù, l’impossibilità di liberarsi dalle proprie uniche e specifiche passioni, senza la pretesa di essere un modello, un viaggio anti-catartico da un lato (in questo consiste la demistificazione di Binasco) e dall’altro un viaggio che porta, all’opposto, ad una salvezza, una guarigione che scaturisce proprio dall’analisi di una mente lucida e razionale che guarisce nel momento in cui riesce a liberarsi da quel groviglio di passioni che gravano come ipoteca del passato sul cuore di una donna (intesa come archetipo).

Dal punto di vista della messa in scena anche qui scelte simili, all’insegna della semplicità e del togliere. In entrambi i casi, scene e costumi dalle linee pulite, pochi gli oggetti di scena, pochi i colori e tutti molto tenui e neutri con alcune eccezioni studiate ad hoc, anche se in Binasco assistiamo a un rigore maggiore nella scelta di far persino a meno del palco che se da un lato risulta coerente con quest’ottica della sottrazione, dall’altro è decisamente in linea con secoli di tradizione tragica. L’azione infatti è collocata al centro di un grande spazio rettangolare, il pubblico è distribuito su spalti laterali che costeggiano i lati più lunghi di quello che è a tutti gli effetti un teatro di posa ridotto all’essenza, “spoglio di richiami visivi fini a sé stessi” come dichiarato nella stessa nota di regia. Questo spazio vuoto viene attraversato dai molti personaggi che lo riempiono con i loro stati d’animo che contengono già dall’inizio quel pathos, quel “dolore estremo” in un viaggio che come abbiamo visto procede da uno spazio interno-privato, l’intimo dell’animo di Agamennone, a uno spazio esterno-pubblico che trova la sua massima platealità in quell’urlo silente di madre.

Anche in Da lontano abbiamo la voce silente di una madre, una madre che non vediamo mai ma che incombe più di un personaggio in carne e ossa e che vive in quell’unica figura presente in scena, quella della figlia, che sembra in grado, proprio perché modello/archetipo, di riflettersi e moltiplicarsi. Perché in questo processo di analisi, quell’unico personaggio in scena, per potere essere compreso, e nello stesso tempo per comprendersi, deve essere scomposto. Su questa figlia grava una sorte analoga a quella di Agamennone: vivere “quel dolore estremo” all’infinito, perpetuato dal senso di colpa di non essere riuscita, per motivi del tutto diversi da quelli di Agamennone, a salvare la persona amata. Ma mentre la figlia di Da lontano, in quanto bambina, non aveva né il potere né i mezzi per salvare la madre e una volta che comprende questo si perdona e guarisce, Agamennone al contrario ha sia il potere che i mezzi per salvare Ifigenia ma sceglie di non farlo condannando sé e la sua famiglia alla dannazione eterna.

In entrambe le storie viene sovvertito l’ordine naturale delle cose in cui, almeno fino a un certo punto della vita, dovrebbero essere i genitori ad aiutare e a prendersi cura dei figli fino a che non si arriva ad un momento in cui questi ruoli tendono ad invertirsi.

Inoltre, per tonare al tema più profondo, se è vero che ogni famiglia infelice è infelice a modo suo è altrettanto vero che nonostante il passare dei secoli e i molti diritti conquistati, la donna, ancora oggi, rimane pesantemente e inesorabilmente sacrificabile.

Nina Margeri

SU ALDA MERINI – DUE SPETTACOLI A CONFRONTO

Galeotte furono le rose rosse e le sigarette.

“I poeti lavorano di notte

quando il tempo non urge su di loro,

quando tace il rumore della folla

e termina il linciaggio delle ore.”

(Alda Merini)

“Non è facile accostarsi a un Mito” si legge nella nota dello spettacolo Alda Merini. Una storia diversa, in programma al TPE di Torino. Sebbene comprenda il motivo per cui ci si possa accostare a una donna “scomodamente immensa” come la Merini come a un mito, quest’associazione lascia qualche dubbio, proprio perché come scrive lei stessa di sé

E se diventi farfalla nessuno pensa più a ciò che è stato quando strisciavi per terra e non volevi le ali” – (Alda Merini)

È in quello strisciare “per terra” che nasce la poesia e la donna Alda Merini, piuttosto che dalle “altezze” del mito. Mitizzarla sarebbe come snaturarla, con il rischio, come è accaduto, di renderla icona bidimensionale, perdendo quella dimensione carnale che è stata per lei motivo di vita, nel vero senso della parola.

Alda Merini. Una storia diversa e Alda. Diario di una diversa sono due spettacoli omaggio alla poetessa milanese scomparsa nel 2009 che per dodici anni ha vissuto in manicomio, in un periodo in cui si praticava ancora l’elettroshock.  I due spettacoli parlano della stessa storia, usano gli stessi riferimenti testuali e hanno persino (o quasi) lo stesso titolo ma sono paradossalmente agli antipodi.

Perché?

Alda. Diario di una diversa andato in scena al Gobetti di Torino è uno spettacolo compiuto, che striscia nella polvere ma che sa innalzarsi su vette altissime senza perdere mai il peso dei corpi, capaci di ripiombare rovinosamente a terra anche dopo aver raggiunto altezze considerevoli, proprio come lei.

Alda Merini. Una storia diversa è fondamentalmente un reading, una voce senza corpo, uno spettacolo persino forse stucchevole con momenti di ridondante e didascalica banalità.

“Rosse rosse” dice l’attrice indicando con la mano delle rose rosse per terra sul palco. “E fumavo, fumavo” legge l’attrice mentre con le dita mima il gesto del fumare. Fino ad arrivare alla scomparsa definitiva di un corpo già inconsistente, per dare spazio a immagini statiche che si alternano sulla parete di fondo sulle note di brani ben noti che fanno l’occhiolino a un facile sentimentalismo.

Rose rosse per terra, un baule e un leggio. L’eco di una voce.

Così si può riassumere lo spettacolo Alda Merini. Una storia diversa con una frase che non è una frase, proprio perché lo spettacolo non è uno spettacolo. Il motivo per cui non possiamo definire “frase” la successione di parole sopracitate è per l’assenza della parte fondamentale di ogni preposizione: il verbo. L’assenza del verbo implica la mancanza di un’azione e di conseguenza di un “senso”, così che le parole private della possibilità di organizzarsi attorno ad esso rimangono un mero elenco. Ed è esattamente quello che accade durante lo spettacolo, la mancanza di “azione” che si limita allo spostamento dell’attrice da un luogo deputato a un altro (il leggio, le rose rosse e il baule) dove principalmente vengono letti brani e poesie scritti dalla stessa Merini pongono una scelta stilistica che si concentra principalmente sulla parola piuttosto che sul corpo. Anche nel breve monologo centrale, durante il quale le parole, seppur non lette, vengono comunque declamate, non assistiamo a una vera e propria interpretazione. L’attrice nonostante pronunci parole in prima persona, così come sono state scritte dalla Merini, non ci dà mai l’impressione di trovarci davanti a un personaggio ma al massimo a un narratore che ci sta leggendo una favola.

In Alda. Diario di una diversa si apre il sipario e vediamo tutto il palco ricoperto di sabbia, con un cumulo sullo sfondo a sinistra a formare una piccola sommità. Adagiati alla base e sul pendio di questa piccola vetta dei corpi inanimati, quattro donne e un uomo, appaiono come “cose” dimenticate. Troviamo due sedie sparse e un praticabile sulla destra, dal lato opposto della piccola altura, anche queste conficcate nella sabbia. Una donna avanza dal fondo verso una sedia in proscenio con indosso un cappotto e un abito che si intravede, come a volerci restituirci vagamente il sentore di un’epoca. Indossa scarpe scure con dei tacchetti bassi che affondano nella sabbia. Un corpo ingombrante, la fatica dello spostamento verso la sedia a causa della sabbia ma, seppur differente nelle sembianze, appare, dapprima con pudicizia e poi sempre più sfacciatamente, il personaggio di Alda Merini che lascia le pagine dei suoi scritti per prendere nuovamente vita in tutta la sua carnalità, come carnali saranno i suoi ricordi che in quei corpi adagiati troveranno presto nuova vita.

La bellezza di un corpo che manifesta la qualità della danza rende ancora più sublime questo confine tra realtà e finzione non solo inteso come soglia tra gli interpreti e gli spettatori ma come soglia tra il dentro e il fuori della donna, dell’amante, della madre, della poetessa Alda Merini.

Sulle sabbie del tempo i ricordi prendono corpo e la stessa spaventosa meraviglia della vita rifiorisce attraverso il gioco del teatro. Così cornici e altalene calano dal soffitto, sedute capovolte svelano nuovi utilizzi, cambi di abiti a vista, cambi di peso, ciò che è leggero appare pesante e viceversa, il fremito di una magia come stupore infantile che prende campo e il baratro di una solitudine che non ci abbandona mai. Su tutto e dentro tutto nuvole di sabbia, montagne da scalare, mani che tastano e afferrano la vita con violenza, trucco sbavato che accarezza.

La sigaretta non è un gesto mimato distrattamente tra una parola e l’altra è fuoco che arde e brucia è fumo tra le dita che va a confondersi con le nuvole di polvere diventando un tutt’uno. Le rose rosse non sono macchie per terra da indicare ma un mazzo dal gambo lungo di metallo che come giavellotti vengono lanciati e conficcati nella sabbia ad ogni passo che Pier compie per avvicinarsi ad Alda, come dardi piantati nel cuore.

La sigaretta non è un gesto mimato distrattamente tra una parola e l’altra è fuoco che arde e brucia è fumo tra le dita che va a confondersi con le nuvole di polvere diventando un tutt’uno. Le rose rosse non sono macchie per terra da indicare ma un mazzo dal gambo lungo di metallo che come giavellotti vengono lanciati e conficcati nella sabbia ad ogni passo che Pier compie per avvicinarsi ad Alda, come dardi piantati nel cuore.

In entrambi gli spettacoli gli spettatori erano entusiasti ma mentre in uno parlavano della bravura degli interpreti, della perfomance e sì anche di Alda Merini, nell’altro parlavano dei manicomi e della legge Basaglia e questo mi ha portato nuovamente a interrogarmi su che cos’è Teatro? Che cosa è Arte? Quale funzione deve assolvere uno spettacolo? Sempre che debba assolvere necessariamente funzioni diverse dal mero estetismo. Può anche uno spettacolo non riuscito sollevare riflessioni e porre accenti su aspetti che se no sarebbero forse dimenticati? Possiamo accettare per un fine più alto che anche l’approssimazione e la mancanza di profondità, di cura, di “bellezza”, possano svolgere una loro funzione educativa o morale? O è stata proprio questa accondiscendenza, questa tolleranza di un “all’incirca”, “quasi”, “ma va bene così perché tanto quello che conta è il cuore” l’inizio di una deriva inarrestabile?

In onestà non ho una risposta ma, nonostante mi senta un po’ “idiota”, continuo fermamente a credere che “la bellezza salverà il mondo”.

Nina Margeri

Alda Merini. Una storia diversa

scritto e diretto da Ivana Ferri – con Lucilla Giagnoni – voce fuori scena Michele Di Mauro – musiche di Don Backy, Lucio Dalla, Gianluca Misiti – luci e scene Lucio Diana – montaggio video Gianni De Matteis – coordinamento tecnico Massimiliano Bressan – organizzazione Roberta Savian – produzione Tangram Teatro Torino – con il sostegno di Ministero della Cultura e Regione Piemonte

Alda. Diario di una diversa

Da Alda Merini adattamento teatrale di “L’altra verità. Diario di una diversa di Alda Merini – Drammaturgia e regia Giorgio Gallione – con Milva Marigliano – e con i danzatori di Deos Danse Ensemble Opera Studio: Luca Alberti, Angela Babuin, Eleonora Chiocchini, Noemi Valente, Francesca Zaccaria – Coreografia Giovanni Di Ciccio – Scene Marcello Chiarenza – Costumi Francesca Marsella – Luci Aldo Mantovani

GHIACCIO – FILIPPO DINI

“Fondamentalmente io sono un pezzo di ghiaccio”, apre così lo spettacolo il personaggio di Ralph, interpretato da Filippo Dini. Il ghiaccio in questa pièce è ovunque: si viene avvolti da un’atmosfera gelida, immobile, già dall’ingresso in platea del pubblico, quando le luci di sala sono spente e si vede solo grazie a un’illuminazione di ghiaccio che arriva dalle luci di scena.

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INTERVISTA A PAOLO NANI

Paolo Nani, attore, regista e trainer teatrale, classe 1956. Originario di Ferrara, stabilitosi poi in Danimarca, da anni gira il mondo con i suoi spettacoli: tra i quali ricordiamo La Lettera, L’Arte di Morire e Jekyll on Ice.

A cavallo tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, Paolo Nani torna in scena a Torino, al Teatro Gobetti, proprio con il più rodato dei suoi capolavori: La Lettera. Una splendida occasione per vedere dal vivo questo attore, molto attivo anche sui canali social, e per potergli fare qualche domanda.

Organizziamo dunque un’intervista telefonica per il 23 dicembre. Mentre il telefono squilla, il registratore è pronto a fermare ogni attimo della conversazione, e l’emozione è alle stelle. Non capita tutti i giorni di avere a che fare con un attore che si è esibito in oltre 40 paesi diversi con così tanto successo. Soprattutto quando la sera precedente si ha avuto la fortuna di assistere al suo spettacolo, di cui potete trovare anche la recensione su questo blog.

Di seguito riporto la trascrizione della nostra conversazione.

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LA LETTERA – PAOLO NANI

Torna in scena al teatro Gobetti di Torino, dal 21 dicembre 2021 al 9 gennaio 2022, Paolo Nani. Quest’anno con il suo spettacolo storico La Lettera, divenuto ormai un vero e proprio classico della risata.

La trama è semplice: un uomo si siede a un tavolo, beve un sorso di vino e scrive una lettera. Dopodiché la scena si ripete, ma in mille modi diversi. L’opera è ispirata al noto libro Esercizi di stile di Raymond Queneau, uscito nel 1947.

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I DUE GEMELLI

Natalino Balasso, in questo adattamento di Goldoni, si serve degli stessi
meccanismi comici della commedia del 1747, per rileggerla in chiave
contemporanea. La nuova avventura dei gemelli veneziani è ambientata
negli anni Settanta del Novecento.

C’era una curiosa gemellarità nei giovani di quegli anni, i movimenti di protesta, gli studenti, i giovani operai si erano polarizzati su due fronti opposti: comunisti e fascisti, rossi e neri.

Tale operazione ha come scopo quello di rivolgersi alla nostra epoca,
riavvicinando il pubblico alle vicende e alle tematiche goldoniane, non
limitandosi a una semplice spolverata linguistica, ma a un vero e proprio
spostamento dei personaggi e dell’ ambientazione storica. Quella offerta
da Balasso pertanto non è una mera attualizzazione di un testo del passato ma una riflessione critica sulla nostra storia recente.

I 7 attori in scena sono impegnati in più ruoli, come nel caso di Ferrini che interpreta i due gemelli, rendendo molto bene i 16 personaggi del testo di Goldoni. Ciononostante è evidente fin da subito che i personaggi sono lontani anni luce dalla concezione delle maschere tipiche della commedia dell’arte, stereotipate e stilizzate. In questo caso, rispetto all’opera di Goldoni, siamo di fronte a personalità complesse, umane e fragili che mutano nel corso della vicenda. Caratteristica che si riflette anche nei costumi, non più quelli tipici appunto delle maschere ma un abbigliamento casual e moderno perfettamente adatto a queste nuove personalità.

Non è la prima volta che Ferrini si confronta con un testo di Goldoni, già nel 2012 aveva interpretato Siora Felice ne I Rusteghi prodotto dallo Stabile di Torino, che aveva visto anche lo stesso Natalino Balasso tra gli interpreti. Sicuramente la qualità recitativa di Ferrini spicca fra quella degli altri attori sulla scena, soprattutto per il modo disinvolto e naturale con cui spesso rompe la quarta parete per rivolgersi direttamente al pubblico.

Nonostante la scenografia sia piuttosto scarna e in generale poco illuminata, la frenesia e la recitazione piuttosto movimentata degli
attori riempiono lo spazio della scena senza creare o lasciare vuoti, sia fisici che narrativi.

Nel complesso il risultato finale è quello di uno spettacolo comico,
divertente e di piacevole ascolto. Impossibile uscire dalla sala senza aver
riso almeno una volta!

Irene Merendelli

Da I due gemelli veneziani di Carlo Goldoni

con Jurij Ferrini, Francesco Gargiulo, Maria Rita Lo Destro, Federico Palumeri, Andrea Peron, Marta Zito, Stefano Paradisi

regia Jurij Ferrini 

costumi Paola Caterina D’Arienzo

scenografia Eleonora Diana

luci e suono Gian Andrea Francescutti

assistente alla regia Elisa Mina

promozione e distribuzione Chiara Attorre

produzione esecutiva Wilma Sciutto

Progetto U.R.T. in collaborazione con 53 festival Teatrale di Borgio Verezzi

Lo spettacolo è realizzato in collaborazione con Servizi Teatrali srl di Casarsa della Delizia (PN)

e con la fondazione Dravelli di Moncalieri (TO)

DOLORE SOTTO CHIAVE / SIK SIK, L’ARTEFICE MAGICO – CARLO CECCHI

Attore formidabile e regista scrupoloso, Carlo Cecchi porta a Torino Dolore sotto chiave e Sik Sik, l’artefice magico, due testi di Eduardo De Filippo, riuniti da lui in un unico spettacolo.

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