Archivi tag: “in evidenza”

DULAN LA SPOSA – VALERIO BINASCO

Mentre si alza il sipario del Carignano con Il Crogiuolo riportato in scena da Filippo Dini, inaugura la 27esima edizione del Festival delle Colline, anche il Gobetti dà il via alla stagione. 
Il primo titolo in cartellone è Dulan la sposa, testo di Melania Mazzucco, inizialmente nato per la radio, che arriva sulla scena affidato a Valerio Binasco, nella doppia veste di attore e regista.
Lo ha intervistato per noi Federica Mangano, vi invitiamo a leggere l’intervista qui.

Continua la lettura di DULAN LA SPOSA – VALERIO BINASCO

FUNERALE ALL’ITALIANA

Funerale all’italiana mette in scena il rituale per eccellenza, uno dei pochi ad essere sopravvissuto e poi tramandato nei millenni: la cerimonia funebre. Da pagano, diviene nel corso dei secoli un rito il più delle volte religioso, assumendo differenti connotazioni culturali e territoriali.

Lo spettacolo nasce da un’idea autobiografica dell’attrice protagonista, Benedetta Parisi, che cura la drammaturgia con l’aiuto di Alice Senigallia: il lavoro prende vita nell’arco di quasi tre anni, evolvendosi a partire dagli appunti sul funerale della nonna dell’attrice. La Parisi racconta quanto sia stato fondamentale anche il lavoro svolto sull’ improvvisazione a partire dal testo, che porta ad un inevitabile suo ampliamento.

Continua la lettura di FUNERALE ALL’ITALIANA

L’ANGELO DELLA STORIA – INTERVISTA A DANIELE VILLA

Venerdì 14 ottobre, per il Festival delle Colline Torinesi, al Teatro Astra è andato in scena L’angelo della storia, l’ultima creazione del collettivo Sotterraneo. Abbiamo recensito lo spettacolo qui, e colto l’occasione per intervistare Daniele Villa, che ne firma la drammaturgia.

Continua la lettura di L’ANGELO DELLA STORIA – INTERVISTA A DANIELE VILLA

ECLOGA XI – ANAGOOR

Domenica 16 ottobre 2022 la compagnia Anagoor ha portato in scena, al Teatro Astra di Torino, all’interno della programmazione del ventisettesimo Festival delle Colline Torinesi, Ecloga XI

Il lavoro è un’ omaggio alla parola, alla poesia. Un’allusione diretta, senza mezzi termini, ad Andrea Zanzotto  e alla sua opera IX Ecloghe pubblicata nel 1962, presso Arnoldo Mondadori Editore all’interno della Collana “Il Tornasole”.  Non a caso, il titolo principale è seguito dal sottotitolo “un omaggio presuntuoso alla grande ombra di Andrea Zanzotto”, richiamo alla definizione che il poeta diede delle sue composizioni “un omaggio presuntuoso alla grande ombra di Virgilio” 

Continua la lettura di ECLOGA XI – ANAGOOR

SIGUIFIN

IL GRIDO RIBELLE DELL’AFRICA

Se da un lato il balletto classico, cinque volte centenario, continua a stupirci attraverso splendidi interpreti del suo repertorio, dall’altro, nelle pieghe in continuo divenire della danza contemporanea, si fanno largo e prendono corpo forme alternative di espressione che a volte non si riesce a collocare nel pur capiente grembo di Tersicore.

Le contaminazioni continue, agenti sotto forma danzata sembrano aver definitivamente sdoganato il significato che abbiamo sempre dato alla parola Danza. 

Lo spettacolo

La parola, il gesto atletico , il grido dissonante che si mescola a piacevolissime  melodie riportano ai canti degli schiavi, prostrati ma comunque fraternamente uniti in un corteo che è cerimonia di consapevolezza di una  condizione umiliante.

Ritmico calpestio sincronico e una scena buia che ne risalta la sonorità invita immediatamente lo spettatore ad affacciarsi in terra d’Africa, successivamente una tiepida luce sagoma gentilmente i corpi che procedono a ritmo sincopato scandendo gli accenti con stamp energici e decisi. Una corposa voce femminile canta una melodia difficile da tradurre ma comunque efficace e diretta interprete dell’azione coreografica.

Così esordisce con il suo ensemble di artisti lo spettacolo Siguifin del coreografo Amala Dianor, andato in scena il 14 ottobre alle Fonderie Limone per la rassegna Torinodanza.

Sin dall’inizio si comprende subito, o almeno lo si crede, l’atmosfera e il logos, tuttavia quella forma di rituale che ci si aspetta generi e successivamente sviluppi un tema tutt’altro che astratto, sembra non arrivare. Il susseguirsi di situazioni in cui stili di danza, dal tribale all’Hip-hop dalla Breakdance al Jazz primitivo e accenni di Capoeira   si mescolano e interagiscono, sembrano elementi di un puzzle che stenta a completarsi. La palese assenza, fatta eccezione per alcuni casi, di un disegno coreografico efficace e coerente, sembra volerci distogliere dalla ricerca di un punto focale sul quale concentrare la nostra attenzione, di conseguenza ci costringe a seguire la performance di un danzatore  rispetto ad un trio che agisce in prossimità del fondale o di una coppia che dialoga in proscenio. Con questo modus si va avanti in attesa che qualcosa accada ed anche se il gesto atletico, che ormai ha completamente sostituito l’azione danzata, è di notevole efficacia il ritmo dello spettacolo si stabilizza su una linea continua e prevedibile, che non lascia spazio ne’ all’immaginazione tantomeno all’emozione. La musica, nella maggior parte dei  casi è fondamentalmente generata da percussioni di origine elettronica a volte accompagnata da un sottofondo mono accordo di tastiera anch’essa elettronica, ripetuto come un mantra. Molto più efficaci i suoni prodotti dagli stessi artisti così come i cori e gli assolo vocali sempre dal vivo. Lodevole la cantante solista che riesce a mantenere limpida e legata la voce nonostante i movimenti energici. Piccola annotazione sui costumi che richiamano le pitture di Piet Mondrian, si presume debbano rappresentare la complessa forma neoplastica che ingloba l’anima selvaggia e libera dagli schemi precostituiti, ma qui ognuno è libero di vederci quel che vuole.

Giuseppe Paolo Cianfoni

Creazione coreografia Alioune Diagne, NaomiFall, LadjiKonè, Amala Dianor

Luci Nicolas Tallec

Costumi Laurence Chalou

Musiche Awir Leon

L’ANGELO DELLA STORIA – SOTTERRANEO

A spasso nel tempo, un viaggio nel paradosso

Il Festival delle Colline Torinesi, alla sua ventisettesima edizione, prova a fare i conti con la Storia, con lo spettacolo dell’affiatata compagnia fiorentina Sotterraneo, che consegna al pubblico una creazione originale a partire da una suggestione di Walter Benjamin: un angelo che vola con lo sguardo rivolto al passato, dando le spalle verso il futuro. Un angelo che vorrebbe fermarsi per riparare i disastri provocati dall’uomo, che invece è costretto a continuare la sua corsa spinto da una tempesta chiamata progresso.

Continua la lettura di L’ANGELO DELLA STORIA – SOTTERRANEO

TST – Aspettando la nuova stagione riflessioni su quella passata

Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo

(da Anna Karenina di Lev Tolstoj)

Nella scorsa stagione del Teatro Stabile di Torino abbiamo assistito a diversi spettacoli che hanno avuto al centro rapporti familiari, ovviamente quasi sempre conflittuali. Del resto si dice che non sia possibile raccontare una buona storia senza un buon “conflitto” e quale contenitore migliore se non quello della famiglia, per generarne di enormi e sorprendenti. Lo avevano capito molto bene i greci che da “divini” conflitti familiari hanno fatto scaturire l’intera esegesi dell’umanità.

Tra i rapporti familiari più complicati, e probabilmente per questo di maggiore interesse, rimane il più ancestrale tra tutti, quello tra genitori e figli. Ed è proprio questa la relazione al centro dei due spettacoli che vorrei provare a mettere a confronto: Da lontano – chiusa sul ripianto monologo/dialogo scritto e diretto da Lucia Calamaro e interpretato dalla brava Isabella Ragonese; e il ben noto testo di Euripide Ifigenia, uno spettacolo corale diretto e interpretato, tra gli altri, da Valerio Binasco nel ruolo di Agamennone.

Partiamo subito dal riconoscere che entrambi questi spettacoli sono animati da rapporti familiari conflittuali, che sono in realtà il pretesto attraverso il quale si svela una tematica più profonda che è il vero minimo comun denominatore delle due pièce: “la condizione femminile devastata da una società oppressiva e giudicante”, come si legge nella stessa nota dello spettacolo Da lontano. Di particolare interessante è il modo che hanno trovato i due registi di mettere in scena questo tema perché risulta perfettamente identico nella sua specularità. Del resto stiamo parlando di due punti di vista completamente e inevitabilmente diversi, quello maschile di Binasco e quello femminile di Calamaro. In un viaggio che procede dall’interno all’esterno, dal privato al pubblico per quel che riguarda il punto di vista maschile; dall’esterno all’interno, dal pubblico al privato, per quel che riguarda il punto di vista femminile. Dove ragioni pubbliche hanno la meglio sull’animo maschile e ragioni private su quello femminile.

Da lontano – chiusa sul ripianto, nonostante racconti una storia contemporanea, un dramma intimo che riguarda la relazione tra una madre e una figlia, in realtà come abbiamo detto, pone l’accento sulla condizione femminile come qualcosa, come dice lo stesso titolo, che arriva “da lontano”. Un retaggio che troviamo già nei miti greci, in pensatori come Aristotele o in drammaturghi come lo stesso Euripide, ed è proprio in questo che i due spettacoli rivelano un’identica sostanza.  Ma Calamaro parte da un “oggi”, che è ben rappresentato da quel male simbolo della società contemporanea: la depressione, per arrivare a un passato atavico, quel “lontano”, padre di un condizionamento sociale, culturale che è arrivato immutato fino a noi. Un passato che ha avuto come conseguenza estrema l’accettazione, per non dire la pretesa, della sempre totale disponibilità del sacrificio della donna per gli uomini. Nella stessa nota già citata si legge di un “monologo […] sul mondo femminile devastato da una società […] che impone alla donna ruoli limitanti, nei quali ci si sente in trappola fino a non riconoscersi più…”, sottintendendo un andare in pezzi, uno “smembrarsi” o un essere smembrati come atto dovuto (inevitabile non pensare a Ifigenia).

Dal canto suo Binasco proprio nell’Ifigenia procede in maniera inversa, ovvero parte da una storia “lontana”, con il fardello di aspettative formali che una scelta del genere comporta, come scrive lui stesso nella nota di regia, ma “prendendosi la responsabilità” di raccontare, da uomo contemporaneo, con una sensibilità contemporanea, una storia che vuole essere contemporanea. Sempre nella nota di regia si legge infatti:

“Grazie al fatto che sono un uomo del mio tempo che del suo tempo vuole parlare, ho invece ben presente soprattutto la concretezza psicologica contenuta in questa antica favola tragica, e voglio assumermi tutte le responsabilità nel tutelare questa sensibilità contemporanea, essendo in qualche modo certo che la nostra condizione umana è sempre e comunque illuminata dalla rappresentazione mitica…”

Quindi da un lato abbiamo Binasco che mette in atto un processo attraverso il quale tende a smitizzare la “favola tragica”, proponendo, attraverso quella “concretezza psicologica”, non archetipi, modelli, con cui siamo abituati a confrontarci quando ci accostiamo al mito ma complessi esseri umani con tutte e in tutte le loro sfaccettature. Dall’altro in Da lontano avviene il processo inverso grazie al quale, più che ricorrere a una “concretezza psicologica” si ricorre a una “concreta analisi psicologica” che tenta di sciogliere quella complessità dell’essere umano per trarne modelli, archetipi, più facilmente riconoscibili, che possono essere più facilmente compresi, ascoltati e per questo perdonati. Viaggi diametralmente opposti che da un lato portano verso la malattia, la schiavitù, l’impossibilità di liberarsi dalle proprie uniche e specifiche passioni, senza la pretesa di essere un modello, un viaggio anti-catartico da un lato (in questo consiste la demistificazione di Binasco) e dall’altro un viaggio che porta, all’opposto, ad una salvezza, una guarigione che scaturisce proprio dall’analisi di una mente lucida e razionale che guarisce nel momento in cui riesce a liberarsi da quel groviglio di passioni che gravano come ipoteca del passato sul cuore di una donna (intesa come archetipo).

Dal punto di vista della messa in scena anche qui scelte simili, all’insegna della semplicità e del togliere. In entrambi i casi, scene e costumi dalle linee pulite, pochi gli oggetti di scena, pochi i colori e tutti molto tenui e neutri con alcune eccezioni studiate ad hoc, anche se in Binasco assistiamo a un rigore maggiore nella scelta di far persino a meno del palco che se da un lato risulta coerente con quest’ottica della sottrazione, dall’altro è decisamente in linea con secoli di tradizione tragica. L’azione infatti è collocata al centro di un grande spazio rettangolare, il pubblico è distribuito su spalti laterali che costeggiano i lati più lunghi di quello che è a tutti gli effetti un teatro di posa ridotto all’essenza, “spoglio di richiami visivi fini a sé stessi” come dichiarato nella stessa nota di regia. Questo spazio vuoto viene attraversato dai molti personaggi che lo riempiono con i loro stati d’animo che contengono già dall’inizio quel pathos, quel “dolore estremo” in un viaggio che come abbiamo visto procede da uno spazio interno-privato, l’intimo dell’animo di Agamennone, a uno spazio esterno-pubblico che trova la sua massima platealità in quell’urlo silente di madre.

Anche in Da lontano abbiamo la voce silente di una madre, una madre che non vediamo mai ma che incombe più di un personaggio in carne e ossa e che vive in quell’unica figura presente in scena, quella della figlia, che sembra in grado, proprio perché modello/archetipo, di riflettersi e moltiplicarsi. Perché in questo processo di analisi, quell’unico personaggio in scena, per potere essere compreso, e nello stesso tempo per comprendersi, deve essere scomposto. Su questa figlia grava una sorte analoga a quella di Agamennone: vivere “quel dolore estremo” all’infinito, perpetuato dal senso di colpa di non essere riuscita, per motivi del tutto diversi da quelli di Agamennone, a salvare la persona amata. Ma mentre la figlia di Da lontano, in quanto bambina, non aveva né il potere né i mezzi per salvare la madre e una volta che comprende questo si perdona e guarisce, Agamennone al contrario ha sia il potere che i mezzi per salvare Ifigenia ma sceglie di non farlo condannando sé e la sua famiglia alla dannazione eterna.

In entrambe le storie viene sovvertito l’ordine naturale delle cose in cui, almeno fino a un certo punto della vita, dovrebbero essere i genitori ad aiutare e a prendersi cura dei figli fino a che non si arriva ad un momento in cui questi ruoli tendono ad invertirsi.

Inoltre, per tonare al tema più profondo, se è vero che ogni famiglia infelice è infelice a modo suo è altrettanto vero che nonostante il passare dei secoli e i molti diritti conquistati, la donna, ancora oggi, rimane pesantemente e inesorabilmente sacrificabile.

Nina Margeri

IL MISANTROPO

È SOLO L’AMORE CHE CI SALVA DALLA FERITA DEL MONDO

È domenica, metà maggio. Le braccia e le gambe cominciano a scoprirsi, ed è faticoso continuare a indossare la mascherina.
Ciò nonostante, il pubblico sciama in cerca del proprio posto al Teatro Carignano. Stavolta non sono il solo della redazione del blog: arrivano anche altri amici.
Mentre ritiro l’accredito, avvisto anche qualche professore del DAMS. Quando uno di loro ci saluta, scherza, condensando in una battuta tutta la teoria del teatro da Aristotele a Claudio Morganti: al cinema si augura buona visione, a teatro buona fortuna.
Ma perché si mosso tutto il DAMS? Strappato dai divani, ché ventilatore acceso, Morandini alla mano ti vien fuori la domenica perfetta.
E invece siamo nel foyer del Carignano, e la ragione è più che valida: assisteremo all’ultimo allestimento di Leonardo Lidi che, mette in scena Il Misantropo, in occasione dei quattrocento anni dalla nascita di Jean-Baptiste Poquelin, alias Molière.

PH. Luigi De Palma

Suona la campanella e procediamo in fila indiana, all’ingresso una maschera mi dà il foglio di sala. In copertina c’è un cuore anatomico in una campana di vetro. Un cuore che ricorda lo stile di Jeff Koons. Ha una targhetta nera appesa, con le parole Je t’aime.
È il visionario Bovary a fare gli spazi in cui si consuma questa commedia di carattere. A terra c’è la sabbia, sembra di stare sulla Luna. Il campo di azione è ampio, ma dà ugualmente la sensazione di ambiente angusto, forse per via dell’enorme struttura in ferro che lo delimita. Gli attori accedono in scena da un’apertura in basso sul fondo di questa enorme parete, per entrare devono chinarsi. E qui, come in un laboratorio che Lidi analizza, seziona le passioni umani. I temi sono parecchi: amore non corrisposto, amore tossico, lotta all’ipocrisia, paura della vecchiaia, società malata.

Evitando di riassumere la trama e gli intrighi, diremo che Lidi decide di raccontarci le vicende di Alceste, Calimene, Orionte ed Eliante in una messa in scena rigorosa. Se l’ambientazione è contemporanea, il rispetto del testo è altissimo. Si sentono gli echi di Antonio Latella nel teatro lidiano, un teatro dal passo contemplativo, che fugge tempi esagitati e schizofrenici. Il ritmo lento (forse a tratti un po’ eccessivamente lento, ma mai noioso; si noti: è un teatro più detto che agito), sempre denso è tenuto il vita da Alfonso De Vreese, che, chitarra alla mano, conduce le fila della storia.
E poi fiore all’occhiello dello spettacolo: ci sono gli allievi della scuola per attore dello Stabile. Non li vediamo in volto: sono coperti da un passamontagna nero. Rappresentano la società, gli occhi degli altri, che da sempre imprimono una forma alle nostre vite. E poi di tanto in tanto, questi uomini neri – è un bambino a farmelo notare – diventano il correlativo oggettivo delle passioni vissute sulla scena.

Ne vien fuori una commedia nel pieno della tradizione, in cui però i personaggi tendono alla tridimensione, a slabbrare i bordi del carattere tratteggiato da Molière. Questo fa sì che riusciamo ad abitare lo spettacolo, ci specchiamo, obbligati a prendere atto che, solo attraverso l’apertura verso l’altro si può medicare la piaga mai sanata dello stare al mondo. Non è un caso che un grande misantropo come Guido Ceronetti scrivesse:

Amarsi
è scambiarsi
le ferite:
più sono,
più grande
è l’amore.

di Molière
con (in ordine alfabetico) Alfonso De Vreese, Christian La Rosa,
Marta Malvestiti, Francesca Mazza, Riccardo Micheletti,
Orietta Notari, Giuliana Vigogna
regia Leonardo Lidi
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Dario Felli
assistente regia Riccardo Micheletti
adattamento Leonardo Lidi
assistente drammaturgia Diego Pleuteri
il sonetto di Oronte è composto da Nicolò Tomassini
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

NB: la citazione del titolo è tratta dalla canzone Mantieni il bacio di Michele Bravi

Giuseppe Rabita