Tutti gli articoli di Nina Margeri

Benji … un’occasione perduta!

“Sono fuori di me e sono in pena, perché non mi vedo tornare”

(Luigi Tenco)

È complicato!

Questo spettacolo è complicato perché nasce come stand-up comica cucito su e per la sua ideatrice Claire Dowie, scrittrice, attrice, poetessa e pioniera dello stand-up theatre, una delle figure più anticonformiste del teatro contemporaneo che viene riadattato a monologo, tradotto e portato in scena da un numero ragguardevole di attrici che si sono cimentate con questo testo ma che non sono Claire Dowie.

Certo questo non vuol dire che chi non sia Claire Dowie non possa portarlo in scena ma… è complicato!

È complicato perché l’attrice, Olivia Manescalchi, è così brava da rendere molto credibile la sua interpretazione, così credibile da creare ancora più forte un cortocircuito con l’allestimento.

È complicato perché il personaggio in questione si rivolge direttamente al pubblico e comincia a raccontare una storia, la sua storia e anche se il personaggio in questione non ha un nome (Benji è il nome del cane della sua vicina e poi diventerà il nome con cui chiamare la sua amica immaginaria) lei rimane un personaggio che non diventa mai un narratore, checché se ne dica.

“Essere un narratore vuol dire un’altra cosa: è la base su cui costruiamo delle stratificazioni di comportamento per arrivare alla condizione di narratori ,che è una condizione stratificata. Non è che uno può improvvisare, prendere un libro e leggere e dice io sto narrando. La narrazione è fatta da una stratificazione dello stato di osservazione artistica. Come dice Benjamin, l’osservazione artistica porta una pulsione interiore in cui c’è l’incontro tra mente, cuore e braccio, che è l’atto del fare che trova uno stato divino in uno stato di consonanza che è stratificato. Non è che nasci così, lo devi accumulare, quando hai accumulato questi livelli di rapporti di consonanza tra il pensiero, il cuore, quindi l’emozione e la mente, allora tu ti muovi dentro una condizione in cui teatralmente è ridicolo parlare di personaggi […] Allora quando io dico narratore dico non interpretare. Prima di tutto, io come narratore ho una voglia, una voglia profonda che è una spinta propulsiva a dire del tutto che incontro…”. (Carla Tatò)

È chiaro che l’intento dello spettacolo di Benji non sia narrare ma interpretare ma ecco allora che ci scontriamo subito con un problema registico non di poco conto. Inoltre non darei così tanto per assodata la doverosa distinzione tra “narrare” e “interpretare”, se proprio legato a questo spettacolo sono stati pubblicati articoli con titoli come (valga uno per tutti): Il teatro di narrazione al teatro Argot Studio. Benji è il dramma della mancanza d’amore e di identità.

Ma perché deve essere, per questo spettacolo, più complicato che per altri?

Palcoscenico a vista completamente spoglio, a vista le quinte fuoriscena con corde e materiali teatrali, al centro del palco vuoto due sedie, una anonima, scura, di quelle pieghevoli e un’altra accanto più piccola rossa, una sedia da bambina. Comincia lo spettacolo e quasi non ce ne accorgiamo, c’è una dissolvenza di luci molto lenta che crea, in concomitanza con il procedere dell’attrice dal fondo buio al centro del palco, un cono di luce molto circoscritto al perimetro delle due sedie che delimiterà tutto lo spazio d’azione dello spettacolo. Uno spazio che dovrebbe essere angusto e claustrofobico, ma che dà anche l’effetto di una lente di ingrandimento, come se il personaggio sin da subito esponesse il suo corpo alla mercè degli spettatori in una sorta di confessione/inquisizione, qui il primo black out.

Quel tipo di confessione sarebbe stata più adatta al divano di uno psicoterapeuta che allo sguardo di un “pubblico”, che sia esso giudice o mero spettatore. Quelle sedie, se da un lato potrebbero persino far pensare a una situazione da gruppo d’ascolto, in realtà al tempo stesso lo contraddicono perché, per quanto anche noi siamo seduti, non ci sentiamo mai parte di un cerchio in intimità con il personaggio. Le sedie in scena del resto sono disposte su una fila retta parallela alla nostra, che crea ancora maggiore separazione tra noi e il mondo del personaggio, come se ci trovassimo su due schiere contrapposte. Quella confessione così intima, così credibile, fatta di micro movimenti nevrotici, dall’uso della sigaretta alla ricerca dei più svariati oggetti nella borsa, avrebbe avuto bisogno di una prossimità diversa. Si sentiva l’esigenza di un rapporto più intimo con quel corpo, che le parole del personaggio, a tratti sussurrate, ricercavano ma che l’impianto spaziale teatrale non consentiva. La stand-up comica di per sé nasce in un contesto di prossimità con il pubblico in un clima di convivialità dove spesso il pubblico beve e chiacchiera amabilmente, fino a quando il comico non cattura la sua attenzione. Qui per catturare la nostra attenzione c’è stato bisogno di una luce occhio di bue a pioggia che mette letteralmente sotto i riflettori l’attrice/personaggio.

Lorenzo Fontana, il regista dello spettacolo, utilizza la luce oltre che per delimitare lo spazio anche per scandire il tempo. Non ci sono particolari annotazioni musicali o effetti sonori, tutto si svolge su quella sedia su quell’unico corpo che viene esposto (al cono di luce) o nascosto (nel buio). Le scene hanno come unico raccordo il fuoco delle sigarette che l’attrice continua ad accendere una dietro l’altra.

C’è un solo momento in cui, e mi piacerebbe romanticamente credere che sia stata l’attrice più che il personaggio a prendere l’iniziativa di fuggire da quell’esposizione del cono di luce, in un moto di rivolta contro il regista che ha così “abusato” del suo corpo. In quella penombra limitrofa vediamo il riappropriarsi di una libertà nella gestione dello spazio, nel decidere cosa mostrare e cosa no, è il momento in cui il personaggio mima la distanza che separa la sua casa di infanzia dalla casa della vicina che aveva un cane che si chiamava Benji. In quel momento di “ribellione” il mio cuore ha avuto un sussulto, ho creduto che qualcosa accadesse, ma non appena l’attrice si è riavvicina a quel maledetto cono di luce, come risucchiata da una maledizione, il suo corpo viene nuovamente incatenato a quella sedia. Non saranno concessi altri momenti di libertà, anzi la scena divine sempre più piccola e il corpo si accartoccia fino a utilizzare come unico spazio esistenziale la seduta della sedia prendendo le distanze persino dal pavimento.

C’è un buon ritmo interno alla recitazione che non trova però una consonanza con il ritmo della regia che pretende di spiegare invece che mostrare, che riesce a essere ridondante nonostante il suo estremo minimalismo. Si può essere soli anche senza essere messi sotto un riflettore, si può avere un’amica immaginaria anche senza una sedia vuota a ricordarmelo.

Alla fine mi sono persa, non ho capito dove mi volessero condurre, ho trovato dissonanti il realismo dell’attrice con il linguaggio simbolico del regista, perché credo che, soprattutto per questo spettacolo, valga molto quanto afferma Carla Tatò:

“Perché spiegano… Se tu spieghi si perde la magia…. il problema è di andare veramente nell’evocazione dove ti perdi, ma sai quante volte io mi perdo e poi devo ritrovarmi […] Quando un attore è narratore invece che interprete per molti non è bravo, perché non ha quelle pause psicologiche, non ci sono, rompi tutto il tempo della descrizione psicologica del personaggio di cui tutti pensano che il pubblico abbia bisogno. Non è vero! Il pubblico non vuole descrizioni psicologiche, il pubblico vuole viaggiare, il pubblico è sensibile, vuole essere portato altrove e c’è una dinamica, c’è una dinamica che devi saper immettere per farlo viaggiare non è importante come finisce la storia, non gliene frega niente”.

Alla fine chi rimane incatenato alla sedia è lo spettatore che come il personaggio vede ridursi il suo spazio vitale sempre di più, sperando in viaggio che non ha mai inizio, che occasione perduta!

Nina Margeri

Al Teatro Astra di Torino Benji di Claire Dowie

con Olivia Manescalchi

regia di Lorenzo Fontana.

L’ORESTEA DI LIVERMORE

– Note intonate di un’orchestrazione imperfetta –

“Io voglio mostrare a cosa può assomigliare un albero quando lo si vede per la prima volta nella vita”. – (Werner Herzog)

“Se siete finiti in un vicolo cieco tornate al punto di origine…” e quale origine può essere migliore del mito?

Gli eroi e i personaggi della mitologia greca, proprio perché eccezionali, sono i più indicati per mostrare sentimenti e valori in forme accentuate e, quindi, più evidenti. Per questo il mito è quasi sempre, sia nell’antichità che nella modernità, materiale per la tragedia.

Ma il mito, nella tragedia, è sempre reinterpretato alla luce dell’attualità, cioè dei problemi culturali, sociali ed esistenziali che chi scrive vuole mettere in luce. Lo spettatore si trova così di fronte a uno specchio deformante di quello che lui stesso potrebbe essere e che a tratti è già.

La tragedia infatti diviene il luogo – letterario e teatrale – in cui si dibattono idee e questioni di carattere universale, affronta le contraddizioni della vita e della civiltà, e spesso è costruita in base a conflitti insanabili, che sono propri di ogni era. Come nel caso dell’Orestea che vede contrapporsi giustizia e vendetta, polis e sfaldamento della società, legge del taglione e giustizia amministrata da un primo tribunale.

Ph. Federico Pitto

L’Orestea di Eschilo, l’unica trilogia integrale arrivata sino a noi da un lontano passato che ci risalda alle nostre origini, è andata in scena al teatro Carignano per la regia di Davide Livermore, in due serate ravvicinate (Agamennone e Coefore/Eumenidi) o proposta anche in un’unica maratona, dando la possibilità agli spettatori più temerari di testare il loro grado di resistenza fisica e mentale.

La tragedia, come abbiamo visto, è per sua stessa natura il genere delle grandi passioni, dei grandi amori e delle grandi atrocità.

Sarà a causa di tutta questa grandiosità che Livermore ci propone una trilogia, organizzata in due “atti”, dalla sfarzosa realizzazione: 40 attori, 2 pianoforti, 50mq di ledwall e una lancia Aprilia 1500 presente per la messa in scena al teatro greco di Siracusa, ma che al chiuso del teatro Carignano ci viene risparmiata.

Ph. Tommaso La Pera

Come da tradizione del mito, Livermore prende la storia degli Atridi e l’attualizza, così l’eco della guerra di Troia diviene, grazie agli splendidi costumi di Gianluca Falaschi e alle accurate acconciature, l’eco della Seconda guerra mondiale, in un’ambientazione che si attesta tra gli anni ’30 e ’40. Il cotesto evocato si rifà però più a un certo immaginario cinematografico, sarà perché non riproduce “l’orrida realtà” ma una realtà edulcorata, “imbellettata come fa il 99% dei film hollywoodiani” per citare Tarantino. E il cinema aleggia su entrambi gli spettacoli, frequenti sono le citazioni, pensiamo fra tutte al fantasma della piccola Ifigenia che apre l’Agamennone e che nel finale si sdoppia, restituendoci l’iconica immagine delle gemelle di Shining.

Ph. Michele Pantano

Se “Il cinema è la scrittura moderna il cui inchiostro è la luce” per dirla con Cocteau allora, come abbiamo anticipato, nella messa in scena di Livermore l’elemento che visivamente connota entrambi gli spettacoli è uno schermo di forma circolare, fatto di luce, un ledwall di 50 mq, sul quale appare una sfera che ruota sul proprio asse (come un globo terrestre) e dentro alla quale prendono forma i video progettati da D-Wok; l’elemento illusionistico è tutto tecnologico e lo riscontriamo soprattutto nella forte tridimensionalità delle immagini.

Il risultato è di impatto “grandioso”, uno strumento dall’enorme potenziale vanificato però da un utilizzo eccessivamente didascalico o che veicola una spicciola morale che disattende l’intento registico che troviamo nel pamphlet di sala:

Ogni volta che realizziamo l’atto umano di ritrovarci a teatro, un atto intimamente più complesso della condivisione, ci troviamo a formulare una riflessione profonda nei confronti della società, una riflessione che, in questo caso diviene concreta in quanto, nell’abbraccio della parete di specchi che delimita il mondo dell’Agamennone, il destino dei personaggi sulla scena si unisce indissolubilmente a quello degli spettatori che, nel riflesso, divengono agenti

Ph. Tommaso Le Pera
Ph. Federico Pitto
Ph. Federico Pitto

Così siamo investiti da occhi giganti, maremoti, incendi, esplosioni, immagini di tragedie umane degli ultimi anni, tra cui persino la Costa Concordia… d’accordo con Andrea Pocosgnich si tratta di un “un campionario di effetti visivi tutt’altro che imprescindibili se non come compendio simbolico e didascalico di certe situazioni: il fuoco e il sangue nominato si riverberano nella sfera amplificando l’immagine già impressa nella parola”.

Quel desiderio di Herzog con cui abbiamo cominciato, mostrare un albero come se lo si vedesse per la prima volta, mi sembra che appartenga in qualche modo anche a Livermore ma la natura delle parole di Eschilo contengono un potere evocativo possente, per stessa ammissione del traduttore Walter Lapini, Eschilo è l’unico dei tre tragediografi greci “a parlare davvero una lingua ancestrale e oscura”. Il suo stile grandioso, solenne, magniloquente, seppur sbiadito nella traduzione, rimane comunque poderoso. Una lingua che come dice Pasolini “si fa strada verso la meta pressando e sfondando” e che proprio per questo non ha bisogno di rafforzi visivi che distraggono e in qualche modo de-potenziano. Soprattutto se si ha a che fare con degli interpreti di indubbio valore come la brava Linda Gennari, Giuseppe Sartori nei credibili panni di un Oreste partigiano o Laura Marinoni con la sua imponente presenza scenica, orchestrati da Livermore all’interno di una precisa partitura ritmica di gesti declamatori e ostentatori che richiamano alcune plasticità tipiche dell’opera lirica. Griglia che risultava a tratti, per alcuni interpreti, persino un po’ stretta, ma che rivela una certa fedeltà alla tragedia antica.

Ph. Federico Pitto

Il teatro di Livermore è un teatro di regia nel senso molto classico del termine. Abbiamo un assoluto rispetto del testo, si esige una fusione degli interpreti che vuol dire star lontano da un teatro che poggia sull’ “esibizionismo” degli attori, sul lusso delle attrici, sulla distinzione dei ruoli, nel senso che anche il più piccolo ruolo ha il suo momento di centralità e declamazione, in maniera molto “democratica”.  Le sfarzose scene che hanno il compito di trasformare poeticamente il dramma di Eschilo, non sempre riescono nell’impresa. Scene e i costumi dovrebbero infatti essere considerati come parti integranti dell’opera poetica, cui è imposto l’obbligo non di fotografare la realtà ma di trasformarla poeticamente secondo lo stile e il carattere del dramma rappresentato a prescindere dalla scelta dell’adattamento. Ma per quanto riguarda la scenografia risulta decisamente poco organica, si ha l’impressione che gli apparati e i materiali scenici predomino e ingombrino. L’attore si trova così costretto nel movimento, a causa di uno spazio sacrificato, lo scenario spesso attrae tutta l’attenzione dello spettatore.

Va detto però che lo spettacolo, come abbiamo già accennato, e come si può vedere dall’immagine di copertina, nasce per essere rappresentato al teatro greco di Siracusa, che è uno spazio fuori misura, rivelando un progetto che forse manca di lungimiranza rispetto alla possibilità di un riadattamento in uno spazio diverso e al chiuso.

Ph. Tommaso Le Pera

Il pubblico è chiamato in causa come parte integrante del dramma ma se in Agamennone non è così chiaro nonostante il monologo di Cassandra che si rivolge direttamente alla platea, del resto quasi tutta l’azione scenica si svolge in proscenio con una prossimità al pubblico che tenta di inglobarlo, ma rimane il dubbio se ci riesca, nel secondo spettacolo, che racchiude Coefore/Eumenidi, il coinvolgimento del pubblico è esplicitato nominandolo come popolo di Atene durante il processo. Il pubblico è infatti invitato a votare sulla colpevolezza o innocenza di Oreste, pura formalità visto che alla fine sarà Atene con il suo voto che vale doppio ad assolvere il matricida.

Gli spettacoli nel loro complesso sono estremamente godibili, ma non assomigliano a “un albero visto per la prima volta”. Quello stupore, quella meraviglia, quello shining che entrambi gli spettacoli hanno, abbaglia, confonde, disorienta, ammicca eccessivamente.

Così alla fine il verso greco non tradotto risveglia ricordi ancestrali e anela rimpiante passeggiate nei boschi, di alberi magari non visti per la prima volta ma che non hanno la pretesa di essere altro da sé.

Less is more

Nina Margeri

CAST E CREDITI COMPLETI

AGAMENNONE

Produzione Teatro Nazionale di Genova, INDA Istituto Nazionale del Dramma Antico

Traduzione Walter Lapini

Regia Davide Livermore

Personaggi e interpreti

Musici | Diego Mingolla, Stefania Visalli
Sentinella | Maria Grazia Solano
Corifea | Gaia Aprea
Coro | Maria Laila Fernandez, Alice Giroldini, Marcello Gravina, Turi Moricca, Valentina Virando
Clitennestra | Laura Marinoni
Messaggero | Olivia Manescalchi
Agamennone | Sax Nicosia
Cassandra | Linda Gennari
Egisto | Stefano Santospago
Spettro di Ifigenia | Aurora Trovatello, Ludovica Iannetti
Vecchi argivi | Davide Pennavaria, Marco Travagli, Alessandro Trequattrini
Oreste bambino |Riccardo Bertoni
Elettra bambina| Anita Torazza

Scene Davide Livermore, Lorenzo Russo Rainaldi

Costumi Gianluca Falaschi

Musiche originali Mario Conte

Luci Marco De Nardi

Video Design D-Wok

Regista assistente Giancarlo Judica Cordiglia

Assistente alla regia Aurora Trovatello

Costumista assistente Anna Missaglia

Cast tecnico

direttore di scena Alberto Giolitti
direttore di palco Michele Borghini
capo macchinista Marco Fieni
macchinista Nathan Copello
macchinista / attrezzista Giulia Chittaro
capo elettricista Toni Martignetti
fonici Edoardo Ambrosio, Umberto Ferro, Stefano Gualtieri
video Luca Nasciuti
trucco e parrucco Barbara Petrolati, Giuseppe Tafuri, Giovanna Molinaro
sartoria Cristina Bandini, Viviana Bartolini

———

COEFORE/EUMENIDI

ProduzioneTeatro Nazionale di Genova, INDA Istituto Nazionale del Dramma Antico

Traduzione Walter Lapini

Regia Davide Livermore

Personaggi e interpreti “Coefore”

Musici | Diego Mingolla, Stefania Visalli
Oreste | Giuseppe Sartori
Pilade | Gabriele Crisafulli
Elettra | Anna Della Rosa
Le Coefore | Gaia Aprea, Alice Giroldini, Valentina Virando, Cecilia Bernini (cantante), Graziana Palazzo (cantante), Silvia Piccollo (cantante)
Voce e immagine di Agamennone | Sax Nicosia
Clitennestra | Laura Marinoni
Cilissa | Maria Grazia Solano
Egisto | Stefano Santospago
Una donna | Nicoletta Cifariello
Le Erinni | Maria Laila Fernandez, Marcello Gravina, Turi Moricca
Guardie | Lorenzo Crovo, Lorenzo Scarpino, Davide Niccolini

Personaggi e interpreti “Eumenidi”

La Pizia (Profetessa) | Maria Grazia Solano
Apollo | Giancarlo Judica Cordiglia
Le Eumenidi | Maria Laila Fernandez, Marcello Gravina, Turi Moricca
Fantasma di Clitennestra | Laura Marinoni
Statua di Atena | Bianca Mei
Atena
 | Olivia Manescalchi

Scene Davide Livermore, Lorenzo Russo Rainaldi

Costumi Gianluca Falaschi

Musiche originali Andrea Chenna

Luci Marco De Nardi

Video Design D-Wok

Regista assistente Sax Nicosia

Assistente alla regia Aurora Trovatello

Cast tecnico

direttore di scena Alberto Giolitti
direttore di palco Michele Borghini
capo macchinista Marco Fieni
macchinista Nathan Copello
macchinista / attrezzista Giulia Chittaro
capo elettricista Toni Martignetti
fonici Edoardo Ambrosio, Umberto Ferro, Stefano Gualtieri
video Luca Nasciuti
trucco e parrucco Barbara Petrolati, Giuseppe Tafuri, Giovanna Molinaro
sartoria Cristina Bandini, Viviana Bartolini

DALL’UNIVERSO DI TUTTO BRUCIA, ECUBA E CASSANDRA BY MOTUS

TRA CONTRAPPUNTO E DISARMONIA

Occorre sbarazzarsi del cattivo gusto di voler essere in accordo con tutti. Le cose grandi ai grandi, gli abissi ai profondi, le finezze ai sottili, le rarità ai rari

(Friedrich Netzsche)

Come ci suggerisce Marianna Tomasello “L’idea che l’universo sia un tutto ordinato e ben connesso in ogni sua parte è un tratto comune al pensiero cosmologico greco […] La convinzione che l’universo sia strutturato secondo delle regole e proporzioni precise è rintracciabile già nei miti cosmologici che tengono inoltre conto che l’ordine stabilito dal dio sia un ordine opportuno e, accordando ogni elemento al suo interno, sia conveniente e miri a un fine”.

Quest’idea greca del cosmo come “ordinato”, “proporzionato” e “accordato” si organizza attorno a dei modelli che toccano diversi ambiti semantici ma il più diffuso che assume un posto di rilievo per la vastità di letteratura a riguardo è l’ARMONIA intesa in senso musicale.

Ma nel caso specifico della tragedia “la musicalità” dell’universo non è mai rappresentato attraverso l’immagine familiari dell’armonia delle sfere: i termini che la esprimono rimandano piuttosto alla sfera del canto e a quell’idea del potere magico della parola, che trova dimostrazione in quella capacità reificante della parola del dio.

Tomasello prosegue dicendo che nei processi di simbolizzazione, propri del pensiero tardo arcaico, si pongono le basi per una rappresentazione del mondo secondo i termini delle scienze musicali sottolineando questa particolare attenzione al canto.

Questa premessa diventa interessante nel momento in cui ci troviamo ad analizzare i due spettacoli dei Motus: You were nothing but wind e Of the Nightingale I envy the fate che ci propongono l’approfondimento di due importanti figure femminili della tragedia greca che arrivano da quell’universo apocalittico delineato in Tutto Brucia in cui veniva brutalmente mostrato il mondo de Le troiane di Euripide.

I due lavori proposti decidono di indagare ognuno la linea narrativa di un personaggio, approfondendo il mondo interiore di Ecuba in You were nothing but wind e di Cassandra in Of Nightingale I envy the fate.

Partiamo per entrambi gli spettacoli da un assunto comune: il “mondo” dal quale provengono Ecuba e Cassandra è ormai bruciato. Persino il loro legame di madre e figlia è ormai estinto, tanto da doverle indagare separatamente senza più alcun nesso tra loro. Entrambe profanate nel corpo e nello spirito vivono l’impossibilità di un risanamento. Quest’ordine perduto per sempre porta a uno stravolgimento del sé, che si concretizza nell’unico atto possibile: il “suicidio” dell’umano. Questo scenario apocalittico produce un universo disarmonico in cui la parola non solo non è più magica, incapace di reificare, ma perde ogni scopo: in assenza di un dio, in assenza dell’uomo, non è più musica, non è più canto.

Quindi che rimane? Cosa ancora una volta può emergere da quelle ceneri, “pronta a testa bassa a continuare, perché ancora una volta, non era previsto che sopravvivesse”?

La bestialità.

Come si legge nell’Ecuba di Euripide, alla fine la donna accetterà di essere trasformata in una “cagna dagli occhi di fuoco”, sostituendo alle parole/canto dissonanti latrati.

Questo latrato cacofonico stona e risulta sgradevole all’udito, proprio perché rappresenta una trasgressione alle regole sia della prassi musicale che della forma tradizionale del genere poetico. Ma il mancato rispetto di un sistema di riferimento comunemente accettato costituisce un elemento di disturbo che ha l’effetto di risultare estremamente sgradevole e irregolare, esattamente come estremamente sgradevoli e irregolari sono state le vicende vissute da Ecuba. Quindi in questa demoniaca trasformazione in cui l’usurpatore vince persino la natura umana di Ecuba, il suo latrato è un atto di ribellione che vuole apertamente contrapporsi all’ARMONIA di un sistema ingiusto.

Nei testi della letteratura greca il “canto” di Cassandra è spesso paragonato a quello di un usignolo perché come quella dell’uccello anche la sua voce è forte e acuta, non solo per dar sfogo al dolore, ma perché vuole o deve farsi sentire. Nello spettacolo la metamorfosi animalesca fa sì che le parole/canto delle sue profezie vengano tramutate in acuti cinguettii di usignolo. Un usignolo a cui sono state strappate le ali e a cui è impossibile fuggire, condannato a strisciare nella terra come condizione che non gli appartiene. L’acutezza del suono, insieme alla forte emotività che lo connota, è funzionale perciò ai contenuti che si vogliono veicolare, e come per Ecuba questa scelta formale costituisce nello stesso tempo impossibilità di comunicazione verbale che diviene cifra espressiva.

Par ch’abbia entro le fauci e in ogni fibra

rapida rota o turbine veloce.

Sembra la lingua, che si volge e vibra,

spada di schermidor destro e feroce”.

(da Canto dell’usignolo di Giovan Battista Marino)

Nel flyer che accompagna lo spettacolo dedicato a Cassandra si legge che stiamo assistendo a una “performance-grido” che precede l’ingiusta uccisione della giovane. All’interno della sua maledizione di profeta non creduto, il grido di Cassandra diviene non solo contrappunto che si sviluppa come linea melodica indipendente rispetto a ciò che accade, in quanto deve ancora accadere, ma è al contempo un canto funebre, una lamentazione che ella intona per se stessa.

Un altro elemento che accomuna entrambe le performance è la scelta di connotare i personaggi all’interno di una dimensione che evoca antichi rituali sciamanici, come dichiarato nello stesso flyer dello spettacolo su Cassandra:

Un rito sciamanico dove si fondono la stereotipica fragilità femminile e il suo spirito di vendetta infuocato, le funeste visioni del futuro, come la prodezza animale, l’eleganza del gesto e dello sbattere di ciglia […] in dialogo con una luce mobile (d’oltremondo?) che la insegue e la sfida.

In questi scenari post-umani il tentativo di ricorrere ad un tramite sciamanico, che come è noto utilizza spesso nei suoi riti elementi musicali, per risanare l’insanabile, lo ritroviamo anche nello spettacolo dedicato a Ecuba. Pensiamo infatti alla scelta di mettere il pubblico in cerchio attorno a un cumulo di cenere dal quale emerge, non come fenice, ma come animale ferito, relitto, sopravvissuto, la “cagna” Ecuba.

Immaginatevi seduti in un cerchio con gli altri membri della vostra comunità. Vi siete raccolti insieme per sostenere un membro della comunità che sta soffrendo a causa di una esperienza traumatica. Sapete che una persona sta soffrendo e che la malattia va ad influenzare l’intera comunità. Così sei arrivato per aiutare e per mantenere sacro lo spazio, affinché avvenga la guarigione.

(in merito allo sciamanesimo in Recupero dell’Anima. Guarire il Sé Frammentato di Sandra Ingerman)

Ma all’interno di questa circolarità e nonostante il tentativo di Ecuba di avvicinarsi al pubblico con l’illusione di trovarci uno sciamano tramite di guarigione, la salvezza è una chimera. Intanto perché noi non siamo la comunità a cui Ecuba appartiene, comunità che è stata annientata, ed è chiaro il nostro totale disinteresse a farla entrare nel cerchio della nostra comunità. Lei infatti non siede accanto a noi, si pone difronte a noi con le sue ferite esposte, urlante, con quei dissonanti latrati. Non nostro il compito di una sua ipotetica guarigione, né tanto meno vogliamo assumercene la responsabilità.

Al massimo proviamo compassione là dove non sentiamo ribrezzo, per quell’essere intenzionalmente sgradevole che manifesta così il suo ultimo atto di protesta. E l’intervento del deus ex machina arriva come atto risolutivo nei confronti del nostro dramma interiore di spettatori, non per quello di Ecuba, che si è già risolto ancora prima di emergere da quelle ceneri. Il dramma è il nostro ed è in quella battaglia tutta interiore di vincere quel turbamento di dover condividere uno spazio così angusto ed intimo con la sgradevolezza di un reietto. Quel turbamento nell’essere costretti a non poter distogliere lo sguardo da quelle oscene ferite.

Quindi l’arrivo di un uomo in tuta da lavoro che con una spazzatrice tira via quello che rimaneva delle ceneri e ciò che rimaneva della stessa Ecuba, salva noi dall’imbarazzo. Adesso il campo è sgombro, è finita, possiamo ritornare al nostro ordinato e armonico orticello, ripulito dal putrido fogliame, incapaci come siamo di imparare alcuna lezione, nonostante i recenti avvenimenti. Incapaci di comprendere che dalla “salvezza”, dalla “guarigione” dell’altro dipende anche la nostra.

Destinati all’estinzione perché troppo incivile e selvatico ci appare il talento, in fondo atavico, dello sciamano.

Nina Margeri

Per i riferimenti agli spettacoli si rimanda ai rispettivi link:

You were nothing but windhttps://www.motusonline.com/en/tutto-brucia/you-were-nothing-but-wind/

Of the nightingale i envy the fateOf the nightingale I envy the fate | Motus (motusonline.com)

TRILOGIA DELLE MACCHINE – Chiacchierata in-formale con Giuseppe Stellato e Domenico Riso

Durante la 27esima edizione del Festival delle Colline Torinesi è andata in scena alla Fondazione Merz La trilogia delle Macchine ideata e diretta da Giuseppe Stellato, artista visivo e scenografo.

Lo spettacolo è decisamente interessante per la presenza in scena di “attori” inusuali. Dove nasce l’idea di far raccontare storie a delle macchine?

GS: Prima di tutto da una grande curiosità. Il mio lavoro da scenografo mi ha dato sicuramente la possibilità di vedere le cose da una prospettiva diversa, osservando la meccanica di alcuni oggetti quotidiani dall’interno.

Poi siamo stati invitanti nel 2018 alla Biennale di Venezia che proponeva un tema dal titolo Atto Secondo: Attore/Performer per presentare un’istallazione performativa, e in quell’occasione abbiamo presentato Oblò e Mind the Gap.

Siamo partiti dalla domanda: Cosa succede in teatro se a “raccontare” sono gli oggetti? Ci divertiva molto ragionare sull’idea che una macchina potesse essere allo stesso tempo attore e spazio, o per meglio dire scenografia, luogo, dove accade l’azione.

Ricordiamo che la trilogia è formata da tre quadri che hanno come soggetto tre macchine differenti: una lavatrice, un distributore di snack e bibite e un bancomat ATM. Come mai la scelta di utilizzare proprio questi oggetti?

GS: Il soggetto di Oblò prende spunto da quel video virale di qualche anno fa che girava su YouTube dove alcuni ragazzi mettono un mattone dentro una lavatrice e poi l’azionano, dando vita ad una sorta di autodistruzione che abbiamo trovato di una violenza indicibile. 

Questo spunto ci ha dato la possibilità di riflettere in maniera differente sulla realtà, raccontando, in linea con la violenza del filmato di YouTube, un fatto di cronaca altrettanto violento: il corpo del bambino siriano ritrovato sulla spiaggia.

La foto di quel corpo ha avuto un’eco inimmaginabile su tutti i social globali. Per noi partire da quel soggetto di realtà è stato il pretesto per utilizzare un altro medium, in questo caso la lavatrice, che, come i social, ci costringe a prendere le dovute distanze da fenomeni feroci e cruenti come quello.

Quindi l’uso che fate dell’ironia è un altro strumento che utilizzate per prendere le distanze?

GS: Ah sì!!! Avete davvero colto degli elementi di ironia?!? Ci fa molto piacere, perché temevamo che il soggetto potesse essere troppo drammatico. Effettivamente dei momenti ironici ci sono e siamo contenti che li abbiate notati.  Sono nati dall’improvvisazione e dal nostro genuino divertimento in scena.

Torniamo ai temi tratti dagli altri quadri…

GS: Per Mind the gap, frequentando spesso le stazioni dei treni, mi sono più volte ritrovato a guardare con interesse e stupore il distributore di merendine notandone il potenziale espressivo. Abbiamo cominciato a divertirci studiando i meccanismi interni delle macchine e come potevano essere utilizzati per raccontare delle storie. Abbiamo voluto esplorare la relazione del corpo di un performer che passa nella relazione con la macchina da essere mero spettatore a tecnico che dà il via all’azione.

Nelle prime due storie sono state usate due macchine di uso quotidiano ma una con una funzione privata (la lavatrice) e l’altra con una funzione pubblica (il distributore di merendine).  Il terzo quadro è stato il naturale evolversi di un percorso che si andava via via delineando. Così nel Bancomat troviamo la sintesi delle due funzioni degli oggetti precedenti: un oggetto pubblico che conosce in maniera inquietante il nostro privato.

E tu Domenico, come ti sei trovato ad abitare una scena che era la protagonista assoluta rispetto al tuo agire satellitare?

DR: Va detto che io non sono un attore e in realtà neanche un performer. Io sono un tecnico, e mi sento molto a mio agio come “uomo delle macchine”. Conosco molto bene il loro funzionamento e so bene quello che possono fare. Per esempio molto del lavoro è stato fatto in scena durante improvvisazioni in cui montavamo e smontavamo le macchine scoprendone le varie possibilità comunicative. Interessante ci è apparso sin da subito il loro suono originale che abbiamo mantenuto in presa diretta durante gli spettacoli. Questo ci ha permesso di costruire un linguaggio vero e proprio sopra al quale abbiamo montato altre tracce audio che si andavano in alcuni momenti a sovrapporre e in altri ad affiancarsi istaurando un dialogo vero e proprio. Da questo incontro sono nate suggestioni che ci sembravano avere tanto da raccontare.

Come mai nel terzo quadro l’uomo delle macchine compare pulendo la scena invece che interagendo da subito con la macchina? Qual è il significato del pulire lo spazio? 

Il terzo quadro nasce per completare una trilogia che, come dicevamo, si è andata delineando in maniera naturale e organica; quindi, ci piaceva l’idea di ricominciare ripulendo una scena che nel quadro precedente era stata sporcata da tutti gli oggetti che cadevano giù dal distributore. Inoltre, visto che nei primi due quadri avevamo simbolicamente tracciato delle linee di confine, la linea rossa di Oblò e quella gialla di Mind the gap, con questo gesto abbiamo anche voluto sottolineare la volontà, prima di marcare e poi di cancellare questi confini tra soggetto e oggetto proponendo una soluzione in cui il privato e il pubblico si trovano inglobati su uno stesso piano.

—————-

Quella sera erano presenti allo spettacolo anche gli studenti della scuola del Teatro Stabile di Torino ai quali è stato chiesto come avessero percepito l’assenza di una narrazione umana.

I ragazzi hanno risposto di essere rimasti molto colpiti da come, nonostante l’assenza di un attore in scena, le macchine potessero comunque risultare tanto espressive. L’interesse dei ragazzi è stato catturato non solo dalle tematiche trattate ma in modo particolare dall’originalità della loro messa in scena.

Nina Margeri


Teatro&Arte – Una imagen interior, Ecloga XI e La trilogia delle macchine

Dalla 27° edizione del Festival delle Colline Torinesi suggestioni sui tre spettacoli che all’interno della rassegna rappresentano il filone Teatro&Arte. Un viaggio nella poetica dell’umano attraverso il disfarsi delle comunità, la solitudine del maschile e femminile per una mancata redenzione, il perturbante e assordante silenzioso logos delle macchine. Un filo che unisce l’incanto in un crescendo di disgregazione.

“Vorrei renderti visita
nei tuoi regni longinqui
o tu che sempre
fida ritorni alla mia stanza
dai cieli, luna,
e, siccom’io, sai splendere
unicamente dell’altrui speranza”

(Andrea Zanzotto – IX Ecloghe)

“La luce del fuoco toglie spazio alla notte

e concede loro un tempo addizionale.

Un tempo per l’astrazione”.

(Da Una imagen interior testo teatrale di Pablo Gisbert)

In questo “tempo per l’astrazione” i pensieri si espandono, attraversano “regni longinqui” e poi ritornano come la luna di Zanzotto o come gli amori di Venditti.

In questo tempo addizionale mi ritrovo ad abitare i luoghi geometrici dei pensieri e come la donna vestita di bianco di Una imagen interior “considero me stessa una persona molto cerebrale”, la certezza della morte attraversa anche il mio corpo, per più di un secondo, ma che rimane comunque un tempo insufficiente. 

“È impossibile pensare alla morte quando si ha fretta”.

TST – Aspettando la nuova stagione riflessioni su quella passata

Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo

(da Anna Karenina di Lev Tolstoj)

Nella scorsa stagione del Teatro Stabile di Torino abbiamo assistito a diversi spettacoli che hanno avuto al centro rapporti familiari, ovviamente quasi sempre conflittuali. Del resto si dice che non sia possibile raccontare una buona storia senza un buon “conflitto” e quale contenitore migliore se non quello della famiglia, per generarne di enormi e sorprendenti. Lo avevano capito molto bene i greci che da “divini” conflitti familiari hanno fatto scaturire l’intera esegesi dell’umanità.

Tra i rapporti familiari più complicati, e probabilmente per questo di maggiore interesse, rimane il più ancestrale tra tutti, quello tra genitori e figli. Ed è proprio questa la relazione al centro dei due spettacoli che vorrei provare a mettere a confronto: Da lontano – chiusa sul ripianto monologo/dialogo scritto e diretto da Lucia Calamaro e interpretato dalla brava Isabella Ragonese; e il ben noto testo di Euripide Ifigenia, uno spettacolo corale diretto e interpretato, tra gli altri, da Valerio Binasco nel ruolo di Agamennone.

Partiamo subito dal riconoscere che entrambi questi spettacoli sono animati da rapporti familiari conflittuali, che sono in realtà il pretesto attraverso il quale si svela una tematica più profonda che è il vero minimo comun denominatore delle due pièce: “la condizione femminile devastata da una società oppressiva e giudicante”, come si legge nella stessa nota dello spettacolo Da lontano. Di particolare interessante è il modo che hanno trovato i due registi di mettere in scena questo tema perché risulta perfettamente identico nella sua specularità. Del resto stiamo parlando di due punti di vista completamente e inevitabilmente diversi, quello maschile di Binasco e quello femminile di Calamaro. In un viaggio che procede dall’interno all’esterno, dal privato al pubblico per quel che riguarda il punto di vista maschile; dall’esterno all’interno, dal pubblico al privato, per quel che riguarda il punto di vista femminile. Dove ragioni pubbliche hanno la meglio sull’animo maschile e ragioni private su quello femminile.

Da lontano – chiusa sul ripianto, nonostante racconti una storia contemporanea, un dramma intimo che riguarda la relazione tra una madre e una figlia, in realtà come abbiamo detto, pone l’accento sulla condizione femminile come qualcosa, come dice lo stesso titolo, che arriva “da lontano”. Un retaggio che troviamo già nei miti greci, in pensatori come Aristotele o in drammaturghi come lo stesso Euripide, ed è proprio in questo che i due spettacoli rivelano un’identica sostanza.  Ma Calamaro parte da un “oggi”, che è ben rappresentato da quel male simbolo della società contemporanea: la depressione, per arrivare a un passato atavico, quel “lontano”, padre di un condizionamento sociale, culturale che è arrivato immutato fino a noi. Un passato che ha avuto come conseguenza estrema l’accettazione, per non dire la pretesa, della sempre totale disponibilità del sacrificio della donna per gli uomini. Nella stessa nota già citata si legge di un “monologo […] sul mondo femminile devastato da una società […] che impone alla donna ruoli limitanti, nei quali ci si sente in trappola fino a non riconoscersi più…”, sottintendendo un andare in pezzi, uno “smembrarsi” o un essere smembrati come atto dovuto (inevitabile non pensare a Ifigenia).

Dal canto suo Binasco proprio nell’Ifigenia procede in maniera inversa, ovvero parte da una storia “lontana”, con il fardello di aspettative formali che una scelta del genere comporta, come scrive lui stesso nella nota di regia, ma “prendendosi la responsabilità” di raccontare, da uomo contemporaneo, con una sensibilità contemporanea, una storia che vuole essere contemporanea. Sempre nella nota di regia si legge infatti:

“Grazie al fatto che sono un uomo del mio tempo che del suo tempo vuole parlare, ho invece ben presente soprattutto la concretezza psicologica contenuta in questa antica favola tragica, e voglio assumermi tutte le responsabilità nel tutelare questa sensibilità contemporanea, essendo in qualche modo certo che la nostra condizione umana è sempre e comunque illuminata dalla rappresentazione mitica…”

Quindi da un lato abbiamo Binasco che mette in atto un processo attraverso il quale tende a smitizzare la “favola tragica”, proponendo, attraverso quella “concretezza psicologica”, non archetipi, modelli, con cui siamo abituati a confrontarci quando ci accostiamo al mito ma complessi esseri umani con tutte e in tutte le loro sfaccettature. Dall’altro in Da lontano avviene il processo inverso grazie al quale, più che ricorrere a una “concretezza psicologica” si ricorre a una “concreta analisi psicologica” che tenta di sciogliere quella complessità dell’essere umano per trarne modelli, archetipi, più facilmente riconoscibili, che possono essere più facilmente compresi, ascoltati e per questo perdonati. Viaggi diametralmente opposti che da un lato portano verso la malattia, la schiavitù, l’impossibilità di liberarsi dalle proprie uniche e specifiche passioni, senza la pretesa di essere un modello, un viaggio anti-catartico da un lato (in questo consiste la demistificazione di Binasco) e dall’altro un viaggio che porta, all’opposto, ad una salvezza, una guarigione che scaturisce proprio dall’analisi di una mente lucida e razionale che guarisce nel momento in cui riesce a liberarsi da quel groviglio di passioni che gravano come ipoteca del passato sul cuore di una donna (intesa come archetipo).

Dal punto di vista della messa in scena anche qui scelte simili, all’insegna della semplicità e del togliere. In entrambi i casi, scene e costumi dalle linee pulite, pochi gli oggetti di scena, pochi i colori e tutti molto tenui e neutri con alcune eccezioni studiate ad hoc, anche se in Binasco assistiamo a un rigore maggiore nella scelta di far persino a meno del palco che se da un lato risulta coerente con quest’ottica della sottrazione, dall’altro è decisamente in linea con secoli di tradizione tragica. L’azione infatti è collocata al centro di un grande spazio rettangolare, il pubblico è distribuito su spalti laterali che costeggiano i lati più lunghi di quello che è a tutti gli effetti un teatro di posa ridotto all’essenza, “spoglio di richiami visivi fini a sé stessi” come dichiarato nella stessa nota di regia. Questo spazio vuoto viene attraversato dai molti personaggi che lo riempiono con i loro stati d’animo che contengono già dall’inizio quel pathos, quel “dolore estremo” in un viaggio che come abbiamo visto procede da uno spazio interno-privato, l’intimo dell’animo di Agamennone, a uno spazio esterno-pubblico che trova la sua massima platealità in quell’urlo silente di madre.

Anche in Da lontano abbiamo la voce silente di una madre, una madre che non vediamo mai ma che incombe più di un personaggio in carne e ossa e che vive in quell’unica figura presente in scena, quella della figlia, che sembra in grado, proprio perché modello/archetipo, di riflettersi e moltiplicarsi. Perché in questo processo di analisi, quell’unico personaggio in scena, per potere essere compreso, e nello stesso tempo per comprendersi, deve essere scomposto. Su questa figlia grava una sorte analoga a quella di Agamennone: vivere “quel dolore estremo” all’infinito, perpetuato dal senso di colpa di non essere riuscita, per motivi del tutto diversi da quelli di Agamennone, a salvare la persona amata. Ma mentre la figlia di Da lontano, in quanto bambina, non aveva né il potere né i mezzi per salvare la madre e una volta che comprende questo si perdona e guarisce, Agamennone al contrario ha sia il potere che i mezzi per salvare Ifigenia ma sceglie di non farlo condannando sé e la sua famiglia alla dannazione eterna.

In entrambe le storie viene sovvertito l’ordine naturale delle cose in cui, almeno fino a un certo punto della vita, dovrebbero essere i genitori ad aiutare e a prendersi cura dei figli fino a che non si arriva ad un momento in cui questi ruoli tendono ad invertirsi.

Inoltre, per tonare al tema più profondo, se è vero che ogni famiglia infelice è infelice a modo suo è altrettanto vero che nonostante il passare dei secoli e i molti diritti conquistati, la donna, ancora oggi, rimane pesantemente e inesorabilmente sacrificabile.

Nina Margeri

IL FILO DI MEZZOGIORNO – Uno spettacolo da dipanare

“- Ho quasi avuto la tentazione di dirglielo, ma non mi avrebbero creduto. – No, non si può comunicare a nessuno questa gioia piena dell’eccitazione vitale di sfidare il tempo in due, d’essere compagni nel dilatarlo, vivendolo il più intensamente possibile prima che scatti l’ora dell’ultima avventura”

(L’arte della gioia – Goliarda Sapienza)

Goliarda Sapienza: attrice, scrittrice, combattente antifascista, femminista.

Nata a Catania nel 1924 da una famiglia particolare, il padre era un famoso avvocato socialista siciliano, Peppino Sapienza, vedovo con 3 figli e la madre lombarda, Maria Giudice, anch’essa vedova con 7 figli, fu sindacalista e prima donna a dirigere la Camera del lavoro di Torino, dirigendo anche Il grido del popolo.

Queste figure così ingombranti determinarono moltissimo la vita di Goliarda, soprattutto quella della madre. Scrive Angelo Pellegrino, attore, scrittore e marito di Goliarda:

“La nobile figura di rivoluzionaria della madre la caricò però di doveri morali e ideali che aggravarono buona parte della sua vita, anche per l’amore e l’ammirazione incondizionati che Goliarda le portò sempre, nonostante il poco affetto ricevuto, che mai Goliarda le rimproverò. La sapeva donna dedita a una causa ideale che non consentiva un amore borghese verso i propri figli. […] Tutto ciò le causò una sorta di buco nero affettivo che si portò dietro per buona parte della sua vita e contro il quale cerco di combattere con tutte le sue forze fino a quando non pervenne al più grande tentativo di suicidio, quello del 1964, perchè il primo fu puramente dimostrativo, come fa dire all’analista de Il filo di mezzogiorno”.

Fu quel tentativo di suicidio che la portò ad essere ricoverata in una clinica psichiatra, destino che anni prima era toccato anche alla madre; durante quel soggiorno in clinica fu sottoposta a numerosi elettroshock. Sarà il suo compagno Citto Maselli che la porterà via a forza dalla clinica. Ma rientrata a casa Goliarda non è più la stessa, non riconosce più nulla, non ricorda più nulla di sé né di ciò che la circonda, così Citto decide di farla seguire da uno psicoterapeuta. Il filo di mezzogiorno è un romanzo autobiografico che narra la relazione che Goliarda intrecciò con il suo analista in quelle 40 sedute che tutti i giorni venivano effettuate nel salotto della sua casa di Roma a mezzogiorno.

E veniamo allo spettacolo teatrale. Come dice la stessa Ippolita di Majo che trae dal romanzo l’adattamento per lo spettacolo e affianca come assistente alla regia Mario Martone:

“Nel filo di mezzogiorno quasi tutto accade nel presente continuo del mondo interno di Goliarda, secondo un modo di raccontare e un uso della dimensione temporale che assomiglia a quella del cinema. Il luogo dell’azione è il tempo dell’analisi, un tempo fatto di mondo interno, di vivi e di morti, di fantasmi, di desideri, di emozioni segrete e alle volte indicibili. […] Sul piano della scrittura questo si traduce nella compresenza di diversi registri temporali: c’è la presente dell’analisi e quello della regressione, ma c’è anche il tempo del racconto dell’analisi al lettore, il presente della scrittura del romanzo. Nell’adattare il testo alla scena, ho immaginato che l’azione si potesse svolgere in due zone del palcoscenico che sono due ‘zone’ del mondo interno di Goliarda.”

Una è lo spazio inconscio e onirico e l’altra è il mondo esterno. Così Martone raccoglie questo input e ci restituisce sul palcoscenico due “zone” che non sono altro che il raddoppiamento speculare dello stesso luogo in rappresentanza di quel presente continuo di cui parla Ippolita di Majo. Se in quegli anni la psicanalista Luciana Niassim Momigliano definì l’analisi come “due persone che parlano in una stanza”, Martone raddoppia il concetto restituendoci 2 persone che parlano in 2 stanze. Il risultato in un primo momento è spiazzante, poi disturbante e in fine molto cerebrale e farraginoso, a tratti persino fin troppo didascalico con il suono della “rottura” del vetro/specchio che separa l’asse su cui ruota l’immagine speculare e permette ai personaggi di sconfinare liberamente in quei due mondi interiori che professionalmente e terapeuticamente avrebbero dovuto restare separati. Così anche l’analisi di sdoppia e i ruoli di paziente e medico si invertono, a tratti confondono, fino al compimento di un vero e proprio transfert e contro transfer che anziché portare a una liberazione del paziente dall’analista porta a un’insana dipendenza dell’analista verso il suo paziente.

La messa in scena perciò ha due grandi centralità. Da una parte un testo che cerca di rimanere fedele al racconto di Goliarda, ma che risulta molto lungo e faticoso, difficile da seguire nonostante l’intensa e credibile interpretazione di una splendida Donatella Finocchiaro e un altrettanto bravo Roberto De Francesco. Dall’altra parte queste due stanze gemelle, che come godessero di vita propria si muovono, avanzano, indietreggiano, si innalzano e si abbassano. Cambi di luce repentini con altrettanti rapidi cambi di abiti per sottolineare un tempo che cambia.

Ma proprio in questo cambio ci saremmo aspettati un osare maggiore, un rompere maggiormente quella linearità temporale che in realtà rimane. Perché se è vero che durante l’analisi i ricordi di Goliarda riaffiorano in maniera disordinata rispetto alla cronologia della sua vita, le sedute con il suo psicoterapeuta rimangono su un asse temporale lineare in cui vediamo chiaramente nel personaggio dello psicoterapeuta il suo arco di trasformazione cronologico che si risolve in un crescendo prima di interesse professionale e poi sempre più privato e personale verso Goliarda. La linea temporale lineare la vediamo anche in Goliarda se non in quello che racconta nei suoi dress-code. Dapprima in camicia da notte rannicchiata su di sé come un debole animaletto ferito e man mano sempre con maggiore cura e attenzione ai suoi abiti che di volta in volta, andando avanti nel processo di guarigione, verranno impreziositi da accessori a sottolineare un ritrovato tentativo di prendersi cura di sé.

Ma se la matassa da dipanare è Goliarda e le due stanze sono due zone della sua psiche, una in relazione con se stessa e l’altra in relazione con l’esterno, ci si sarebbe aspettato un maggiore spiazzamento, forse si sarebbe potuto sfruttare meglio questo “doppio” in maniera maggiormente onirica.

Sono andata a vedere lo spettacolo perché amo Goliarda Sapienza. Perché se decidi di fare uno spettacolo su di lei è perché hai avuto nella vita la fortuna di “incrociare” la sua esistenza anche solo con una frase e ne sei rimasto folgorato. Perché è questo l’effetto che fa Goliarda, lei è perturbante, sconvolgente, ti scuote dentro fin nelle viscere e ti tocca così nel profondo che la tua vita non può più essere la stessa dopo. Ma il suo capolavoro più grande resta la sua vita, fatta di grandi contraddizioni, grandi vette e terribili cadute, grandi ricchezze e feroci povertà, libertà e prigionia, misticismo e scetticismo, vitalità e oblio, ma sempre, sempre, mossa dalla passione, una passione carnale, incapace com’era di abbandonarsi totalmente all’amore a cui non era stata abituata.  

Quello che mi aspettavo di trovare quindi era uno spettacolo d’amore, uno spettacolo nato dall’amore per Goliarda che potesse suscitare nello spettatore un altrettanto reverenziale sentimento. Ma qualcosa è andato storto.

Ce lo dimostra un programma di sala che troviamo all’ingresso del teatro, 16 pagine che spiegano il progetto dello spettacolo, come se lo spettacolo da solo non fosse “sufficiente”, come se ci fosse un’inconscia consapevolezza che il “processo” che ha portato a quel risultato possa essere più interessante del prodotto finito. La promessa d’amore per Goliarda, che sicuramente traspare dalle parole di Ippolita di Majo, viene però tradita in scena.

Perché in definitiva questo è uno spettacolo sull’amore, ma è come se quelle due stanze apparentemente identiche ci raccontassero di due “amori” distinti e separati che rimangono tali anche quando sentiamo l’infrangersi di quel vetro immaginario che le separava. Da una parte abbiamo l’amore di Ippolita di Majo per Goliarda e dall’altra quella di Martone per la psicoanalisi, o meglio per la relazione psicoanalitica. Lui stesso racconta nelle note di regia un episodio personale riguardante una seduta dal suo analista e scrive che è stato forse quel ricordo che gli ha fatto scaturire l’idea di sdoppiare la stanza di Goliarda: “…non lo so, se sia stato questo episodio. Quello che so e che ho amato molto il mio analista [..] e che alla sua memoria dedico oggi questo spettacolo”.

Quindi due “amori” che vorrebbero incontrarsi e che coesistono ne Il filo di mezzogiorno forse in questo sdoppiamento restano separati, laddove il romanzo invece li amalgama in maniera struggente e poetica.

“E poi c’è una cosa che mi rassicura, una cosa che ho sperimentato molte volte nella vita: so che quelli di voi che si sono annoiati di seguire questo mio sproloquio avranno già distolto lo sguardo. Si resta sempre in pochi.”

(Lettera Aperta – Goliarda Sapienza)

Nina Margeri

di Goliarda Sapienza

adattamento Ippolita di Majo

regia Mario Martone

con Donatella Finocchiaro, Roberto De Francesco

scene Carmine Guarino

costumi Ortensia De Francesco

luci Cesare Accetta

aiuto regia Ippolita di Majo

assistente alla regia Sharon Amato

assistente scene Mauro Rea

assistente costumi e sarta Federica Del Gaudio

direttore di scena Teresa Cibelli

capo macchinista Enzo Palmieri

macchinista e attrezzista Domenico Riso

datore luci Francesco Adinolfi

fonico Paolo Vitale

elettricista Angelo Grieco

amministratrice di compagnia Chiara Cucca

foto di scena Mario Spada

Il filo di mezzogiorno è pubblicato da La nave di Teseo

Teatro di Napoli – Teatro Nazionale

Teatro Stabile di Catania

Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Teatro di Roma – Teatro Nazionale

MASSIMILIANO CIVICA – “SCAMPOLI” E NON SOLO…

“Saper dosare la banalità e il paradosso:  è tutta qui l’arte del frammento.” (Emil Cioran)

scampolo
[scàm-po-lo] s.m.

Parte residua di una pezza di tessuto, generalmente venduta sottocosto: uno s. di stoffa, di tela, di seta, di velluto.

2 estens., fig. Avanzo, residuo, rimasuglio, piccola quantità di qualcosa: ho parecchi scampoli di carta da parati inutilizzabilinegli scampoli di tempo riordino i miei appunti
|| scherz., spreg. Uno scampolo d’uomo, di donna, alludendo alla corporatura mingherlina
SIN. ritaglio
‖ dim. scampolétto; scampolìno; scampolùccio

Copyright © Hoepli 2018

Quando ho “incontrato” Massimiliano Civica per la prima volta, durante il seminario tenuto il 23 marzo all’interno del progetto Lavorare con gli attori organizzato dai professori Maria Paola Pierini e Armando Petrini, mi è venuto in mente un libro che tengo sdraiato in orizzontale nella mia libreria, sopra un’ordinata fila di altri libri tenuti in posizione verticale. Quella posizione inusuale, non perché la mia libreria sia perfettamente ordinata, tutt’altro, ma perché nella mia mente, che ha un suo modo unico e particolare di archiviare e catalogare le cose, quel libro in quella precaria posizione orizzontale, in bilico tra libri che hanno altezze differenti, che sporge più di altri, mi ricorda che dovrà essere il prossimo ad essere letto, almeno così vorrebbe la mia parte razionale.

Ma di recente ho calcolato che nella mia vita (fino a questo momento) ho fatto 12 traslochi in 8 città differenti e che questo libro mi accompagna da almeno 6 traslochi. E vi assicuro che in questo lasso di tempo ne ho letti di libri, anche se sempre con un senso di oppressione che ora mi appare più chiara. Perché sullo scaffale di una qualche improvvisata libreria, di (a volte) altrettante improvvisate abitazioni, di una città più o meno sperduta del mondo, lui era sempre lì, in bilico, con il suo sporgente, egocentrico, esibizionismo che mi ricordava che “doveva essere lui” il prossimo ad essere letto.

Vi chiederete cosa c’entri tutto questo con Massimiliano Civica.

Lo spettacolo che sono andata a vedere dopo aver ascoltato il seminario a Palazzo Nuovo e aver partecipato al laboratorio teatrale per attori tenuto dallo stesso Civica, è stato proprio Scampoli: uno spettacolo conferenza che racconta di teatro e quindi di vita. Civica con la sua “lezione/spettacolo” si cuce, attraverso “scampoli” di racconti/ricordi, una veste che gli calza a pennello. Restituendoci, attraverso lampi di ritratti di altri uomini di teatro, il suo personale ritratto di “uomo” di teatro, offrendoci una magistrale testimonianza di cosa sia il Teatro. Durante lo spettacolo veniamo perciò presi da episodi più o meno inediti di grandi personalità che se non hanno necessariamente tracciato una rotta nella vita di Civica, hanno almeno lasciato un segno, tanto da renderlo quello che oggi è. Compresa un’inaspettata prof. di Italiano del liceo in combutta con un sempiterno Dante Alighieri. Nella scelta del titolo c’è l’essenza dello spettacolo, come una cosa di poco conto possa in realtà essere così preziosa da determinare un’intera esistenza.

Ci sono vari modi per “incontrare” dei maestri nella vita, uno di questi può essere un libro. Accostare Civica che, nonostante il breve tempo in cui ci siamo “incontrati”, ha lasciato un segno in me, con l’autore di un libro che, nonostante non l’abbia “ancora” letto, ha lasciato così tanto in me da diventare un modello per interpretare la “realtà”, mi sembrava “poetico” nel vero senso della parola. Come un libro che non ho letto possa avermi suggerito in qualche modo una strada, sarebbe troppo lungo da spiegare, ma forse si capirà meglio quando dirò che il libro in questione è La tentazione di esistere di Emil Cioran.

Nella copertina del libro si legge qualcosa che ho immediatamente rivisto in Civica:

“Maestro attuale di quell’arte del «pensare contro se stessi» che si era già dispiegata in Nietzsche, Baudelaire e Dostoevskij, questo scrittore rumeno […] appartiene per vocazione alla schiera dei condannati alla lucidità. Che la lucidità sia una condanna, oltre che un dono, nessuno sa mostrarcelo, con altrettanta precisione, con altrettanta inventiva, quasi da camuffato romanziere. E si tratta di una lucidità macerata dal tempo, dall’eredità di tutta la nostra cultura. Se «c’è un “odore” del tempo», e così anche «della storia», Cioran è, fra gli animali metafisici, il più addestrato nel riconoscerlo, nell’inseguirlo…”.

Solo per capire cos’altro di Cioran ho rivisto in Civica basta aprire l’indice e rivedere nei titoli di alcuni paragrafi del libro il cristallizzarsi di alcuni concetti espressi da Civica:

Su una civiltà esausta – Lettere su alcune impasses – Frequentando i mistici – Rabbie e rassegnazioni.

Durante il laboratorio teatrale tenuto da Civica, siamo stati invitati a piccoli gruppi a oltrepassare una linea immaginaria, che da quel momento avremo convenzionalmente ritenuto come la soglia che divideva lo spazio tra platea e palco. In altre parole siamo stati invitati a dividerci tra guardanti e guardati, tra spettatori e attori, senza accorgerci in realtà di lui che, rimanendo sulla soglia, da buon maieuta, osservava entrambi i gruppi facendoci diventare tutti “attori”, più o meno consapevoli.

Alla richiesta di far ridere il compagno in scena, tutti, anche i più “allenati” all’arte scenica, sono andati in crisi e non è stata roba da poco riuscire a risolvere l’impasse. Ci sono volute oltre 3 ore passate insieme e l’indicazione di rompere quella quarta parete, quel tabù dell’essere guardato, per riuscire a tirare fuori in maniera “sincera” il lato comico che è umanamente in ogni essere umano. Mettendoci a nostro agio Civica ci ha chiesto di raccontare un episodio comico della nostra vita che di solito raccontiamo agli amici al bar. Il risultato è stato esilarante e gli esiti più riusciti sono emersi proprio da quelle persone che non ti saresti mai aspettato.

Perché come dice Cioran: “Agire è una cosa; sapere di agire è un’altra”.

Il Teatro come insegna Civica è nella vita di tutti i giorni, in quella naturale e sincera vocazione dell’uomo di raccontare storie nel suo modo “unico” di farlo.

“Così si può essere coscienti della propria azione, oppure agire senza coscienza, senza non solo sapere quello che si fa, ma anche senza sapere che si sta agendo […] Com’è difficile dissolversi nell’essere” (Emil Cioran – La Tentazione di esistere).

Nina Margeri

Scampoli di e con Massimiliano Civica

STAGIONE TEATRALE 21/22 “OVER THE RAINBOW” – Fertili Terreni

SU ALDA MERINI – DUE SPETTACOLI A CONFRONTO

Galeotte furono le rose rosse e le sigarette.

“I poeti lavorano di notte

quando il tempo non urge su di loro,

quando tace il rumore della folla

e termina il linciaggio delle ore.”

(Alda Merini)

“Non è facile accostarsi a un Mito” si legge nella nota dello spettacolo Alda Merini. Una storia diversa, in programma al TPE di Torino. Sebbene comprenda il motivo per cui ci si possa accostare a una donna “scomodamente immensa” come la Merini come a un mito, quest’associazione lascia qualche dubbio, proprio perché come scrive lei stessa di sé

E se diventi farfalla nessuno pensa più a ciò che è stato quando strisciavi per terra e non volevi le ali” – (Alda Merini)

È in quello strisciare “per terra” che nasce la poesia e la donna Alda Merini, piuttosto che dalle “altezze” del mito. Mitizzarla sarebbe come snaturarla, con il rischio, come è accaduto, di renderla icona bidimensionale, perdendo quella dimensione carnale che è stata per lei motivo di vita, nel vero senso della parola.

Alda Merini. Una storia diversa e Alda. Diario di una diversa sono due spettacoli omaggio alla poetessa milanese scomparsa nel 2009 che per dodici anni ha vissuto in manicomio, in un periodo in cui si praticava ancora l’elettroshock.  I due spettacoli parlano della stessa storia, usano gli stessi riferimenti testuali e hanno persino (o quasi) lo stesso titolo ma sono paradossalmente agli antipodi.

Perché?

Alda. Diario di una diversa andato in scena al Gobetti di Torino è uno spettacolo compiuto, che striscia nella polvere ma che sa innalzarsi su vette altissime senza perdere mai il peso dei corpi, capaci di ripiombare rovinosamente a terra anche dopo aver raggiunto altezze considerevoli, proprio come lei.

Alda Merini. Una storia diversa è fondamentalmente un reading, una voce senza corpo, uno spettacolo persino forse stucchevole con momenti di ridondante e didascalica banalità.

“Rosse rosse” dice l’attrice indicando con la mano delle rose rosse per terra sul palco. “E fumavo, fumavo” legge l’attrice mentre con le dita mima il gesto del fumare. Fino ad arrivare alla scomparsa definitiva di un corpo già inconsistente, per dare spazio a immagini statiche che si alternano sulla parete di fondo sulle note di brani ben noti che fanno l’occhiolino a un facile sentimentalismo.

Rose rosse per terra, un baule e un leggio. L’eco di una voce.

Così si può riassumere lo spettacolo Alda Merini. Una storia diversa con una frase che non è una frase, proprio perché lo spettacolo non è uno spettacolo. Il motivo per cui non possiamo definire “frase” la successione di parole sopracitate è per l’assenza della parte fondamentale di ogni preposizione: il verbo. L’assenza del verbo implica la mancanza di un’azione e di conseguenza di un “senso”, così che le parole private della possibilità di organizzarsi attorno ad esso rimangono un mero elenco. Ed è esattamente quello che accade durante lo spettacolo, la mancanza di “azione” che si limita allo spostamento dell’attrice da un luogo deputato a un altro (il leggio, le rose rosse e il baule) dove principalmente vengono letti brani e poesie scritti dalla stessa Merini pongono una scelta stilistica che si concentra principalmente sulla parola piuttosto che sul corpo. Anche nel breve monologo centrale, durante il quale le parole, seppur non lette, vengono comunque declamate, non assistiamo a una vera e propria interpretazione. L’attrice nonostante pronunci parole in prima persona, così come sono state scritte dalla Merini, non ci dà mai l’impressione di trovarci davanti a un personaggio ma al massimo a un narratore che ci sta leggendo una favola.

In Alda. Diario di una diversa si apre il sipario e vediamo tutto il palco ricoperto di sabbia, con un cumulo sullo sfondo a sinistra a formare una piccola sommità. Adagiati alla base e sul pendio di questa piccola vetta dei corpi inanimati, quattro donne e un uomo, appaiono come “cose” dimenticate. Troviamo due sedie sparse e un praticabile sulla destra, dal lato opposto della piccola altura, anche queste conficcate nella sabbia. Una donna avanza dal fondo verso una sedia in proscenio con indosso un cappotto e un abito che si intravede, come a volerci restituirci vagamente il sentore di un’epoca. Indossa scarpe scure con dei tacchetti bassi che affondano nella sabbia. Un corpo ingombrante, la fatica dello spostamento verso la sedia a causa della sabbia ma, seppur differente nelle sembianze, appare, dapprima con pudicizia e poi sempre più sfacciatamente, il personaggio di Alda Merini che lascia le pagine dei suoi scritti per prendere nuovamente vita in tutta la sua carnalità, come carnali saranno i suoi ricordi che in quei corpi adagiati troveranno presto nuova vita.

La bellezza di un corpo che manifesta la qualità della danza rende ancora più sublime questo confine tra realtà e finzione non solo inteso come soglia tra gli interpreti e gli spettatori ma come soglia tra il dentro e il fuori della donna, dell’amante, della madre, della poetessa Alda Merini.

Sulle sabbie del tempo i ricordi prendono corpo e la stessa spaventosa meraviglia della vita rifiorisce attraverso il gioco del teatro. Così cornici e altalene calano dal soffitto, sedute capovolte svelano nuovi utilizzi, cambi di abiti a vista, cambi di peso, ciò che è leggero appare pesante e viceversa, il fremito di una magia come stupore infantile che prende campo e il baratro di una solitudine che non ci abbandona mai. Su tutto e dentro tutto nuvole di sabbia, montagne da scalare, mani che tastano e afferrano la vita con violenza, trucco sbavato che accarezza.

La sigaretta non è un gesto mimato distrattamente tra una parola e l’altra è fuoco che arde e brucia è fumo tra le dita che va a confondersi con le nuvole di polvere diventando un tutt’uno. Le rose rosse non sono macchie per terra da indicare ma un mazzo dal gambo lungo di metallo che come giavellotti vengono lanciati e conficcati nella sabbia ad ogni passo che Pier compie per avvicinarsi ad Alda, come dardi piantati nel cuore.

La sigaretta non è un gesto mimato distrattamente tra una parola e l’altra è fuoco che arde e brucia è fumo tra le dita che va a confondersi con le nuvole di polvere diventando un tutt’uno. Le rose rosse non sono macchie per terra da indicare ma un mazzo dal gambo lungo di metallo che come giavellotti vengono lanciati e conficcati nella sabbia ad ogni passo che Pier compie per avvicinarsi ad Alda, come dardi piantati nel cuore.

In entrambi gli spettacoli gli spettatori erano entusiasti ma mentre in uno parlavano della bravura degli interpreti, della perfomance e sì anche di Alda Merini, nell’altro parlavano dei manicomi e della legge Basaglia e questo mi ha portato nuovamente a interrogarmi su che cos’è Teatro? Che cosa è Arte? Quale funzione deve assolvere uno spettacolo? Sempre che debba assolvere necessariamente funzioni diverse dal mero estetismo. Può anche uno spettacolo non riuscito sollevare riflessioni e porre accenti su aspetti che se no sarebbero forse dimenticati? Possiamo accettare per un fine più alto che anche l’approssimazione e la mancanza di profondità, di cura, di “bellezza”, possano svolgere una loro funzione educativa o morale? O è stata proprio questa accondiscendenza, questa tolleranza di un “all’incirca”, “quasi”, “ma va bene così perché tanto quello che conta è il cuore” l’inizio di una deriva inarrestabile?

In onestà non ho una risposta ma, nonostante mi senta un po’ “idiota”, continuo fermamente a credere che “la bellezza salverà il mondo”.

Nina Margeri

Alda Merini. Una storia diversa

scritto e diretto da Ivana Ferri – con Lucilla Giagnoni – voce fuori scena Michele Di Mauro – musiche di Don Backy, Lucio Dalla, Gianluca Misiti – luci e scene Lucio Diana – montaggio video Gianni De Matteis – coordinamento tecnico Massimiliano Bressan – organizzazione Roberta Savian – produzione Tangram Teatro Torino – con il sostegno di Ministero della Cultura e Regione Piemonte

Alda. Diario di una diversa

Da Alda Merini adattamento teatrale di “L’altra verità. Diario di una diversa di Alda Merini – Drammaturgia e regia Giorgio Gallione – con Milva Marigliano – e con i danzatori di Deos Danse Ensemble Opera Studio: Luca Alberti, Angela Babuin, Eleonora Chiocchini, Noemi Valente, Francesca Zaccaria – Coreografia Giovanni Di Ciccio – Scene Marcello Chiarenza – Costumi Francesca Marsella – Luci Aldo Mantovani

SORELLE

Parole, parole, parole, parole, parole soltanto parole, parole tra noi

(Parole Parole – Fierro, Chiosso, Del re)

Le parole diventano flusso di coscienza, denso come magma che lentamente investe e rapidamente brucia senza lasciare niente.

Lo spazio scenico è completamente aperto, non c’è un palco, non ci sono quinte, la macchina teatrale è a vista. Per terra un enorme cerata bianca crea un quadrato che lascia fuori un perimetro non troppo grande che conduce alla parete di fondo e alle pareti laterali dove sono ubicate le porte delle uscite di sicurezza, sia a destra che a sinistra. Sul quadrato bianco pende dalle traverse superiori un secondo quadrato fatto di luci al neon, linee parallele come trattini bianchi e freddi. Pile di sedie colorate fuori nel perimetro esterno, un carrello appendiabiti con dei vestiti e un pulpito bianco su rotelle anche quelli fuori dal quadrato bianco. Il pubblico in sala sta ancora parlando e quando le due attrici entrano da dietro le scalinate, dove sono seduti gli spettatori, l’assenza del cambio di luci disorienta un po’ e ci vogliono alcuni istanti prima di rendersi conto che lo spettacolo è già cominciato. Del resto l’energia con cui entrano le due attrici forse non è del tutto efficace e si vede che devono far ricorso ad una parte di “mestiere” per tenere su un momento che sarebbe dovuto partire probabilmente con maggiore mordente.

Aprire la scena con un conflitto in atto non è mai semplice. Si capisce subito che sarà uno spettacolo impegnativo per le due attrici visto che è previsto un atto unico di più di un’ora e mezza. Dal punto di vista drammaturgico il conflitto iniziale fa presagire una parabola evolutiva che porterà inevitabilmente alla frattura definitiva di un già così fragile equilibrio tra due sorelle, queste due donne in bilico tra l’accettazione di sé e l’accettazione dell’altra, capaci di definirsi solo come alterità dall’altra. La scena più che un ring, come molti l’hanno definita, appare piuttosto come un foglio bianco che attende di essere riempito.

Perché questo, in fondo, è uno spettacolo sull’attesa. Si attende di comprendere le ragioni del conflitto, si attende di vedere quando e come si raggiungerà il culmine del contrasto tra le due sorelle, si attende di vedere a cosa servono e come verranno usati gli oggetti che sono a vista fuori dal foglio bianco ma evidentemente in relazione con la scena, si attende che tutte le sedie colorate vengano disposte all’interno dello spazio bianco. Quando poi all’interno della diatriba verbale tra le due donne entrano in gioco visioni di conflitti geopolitici, l’estinzione delle api con accenni a problemi ecologici, ecco che si attende di capire dove si voglia andare a parare e quando si capisce che non si vuole andare a parare da nessuna parte a quel punto, si attende che tutto finisca.

Lo spettacolo senza dubbio denota la bravura delle due attrici ma questo forse è uno di quegli spettacoli più interessanti da interpretare che belli da vedere. Eppure c’è molto potenziale (“bello da vedere”) che rimane insondato. Gli oggetti di scena poco utilizzati in alcuni casi quasi per nulla esplorati, messi lì a giustificare un contesto che viene ampiamente spiegato con le parole. L’unico interessante movimento che compie una delle sorelle, disporre in maniera ordinata le file di sedie colorate all’interno di quella chiazza bianca, viene giustificata ribadendo la necessità di allestire la sala per una conferenza che si svolgerà di lì a poco. Così non appena la mente prova a fare dei panegirici immaginativi riguardo a quel colore (quello delle sedie) che comincia finalmente ad animare quel foglio bianco, le parole castrano ogni possibilità creativa, obbligandoti con una perentoria spiegazione a prendere quell’azione per quello che è, vincolandoti ad immagini incastonate su montature precostituite, riportandoci su percorsi rigidamente prestabiliti, su binari difficili da scardinare. Ma la natura di quello spazio, quei colori che prepotentemente riempiono il bianco della scena sono mille volte più evocative di quelle infinite, inarrestabili parole che continuano a pronunciare senza sosta le due attrici. Perché il teatro è azione che accade qui ed ora.

Le parole lontane dall’essere evocative sono descrittive, non evocano veri vissuti ma foto in banco e nero, realtà filtrate da un mondo emotivo confuso e non risolto. Niente è lasciato all’immaginazione, tutto è giustificato. Ci si sarebbe aspettato qualcosa di più da un coreografo come Pascal Rambert soprattutto avendo a disposizione uno spazio con un potenziale così interessante, con tutti quegli oggetti che rimangono sterili e inutilizzati, con due attrici dalla grande energia che rimane compressa e anche quella mai pienamente utilizzata. Il vero problema è che in scena non accade nulla, tutto quello che ci viene raccontato è già accaduto e noi non assistiamo a nulla, il conflitto rimane verbale, l’energia implode entro ognuna di loro anziché esplodere l’una sull’altra come ci saremmo aspettati.

L’autore non sembra credere abbastanza al dramma familiare come materia sufficiente per la messa in scena e il racconto diventa il resoconto di una famiglia radical chic usato come pretesto per accennare a parlare di geopolitica, inquinamento, escatologia della parola, insomma di tanto altro, di troppo altro.

E nonostante tutta quella energia sprigionata a tratti ma non vissuta, tutti quegli oggetti che vengono solo spostati da un punto a un altro ma non utilizzati, di tutta questa materia quello che resta è ancora quel foglio bianco.

Così ora che lo spettacolo è finito, lontano da quel forzato orientamento dato dalle parole, posso ritornare con la mente alle sedie colorate disposte su quel foglio bianco che come i chiodini conficcati nei fori di una lavagnetta bianca come quella con cui giocano i bambini, le due donne/bambine in scena avrebbero potuto disegnare, con la stessa disarmante semplicità dei bambini, il loro vissuto interiore. Allora penso che il dramma familiare sarebbe stato più che sufficiente, se gli fosse stata data la possibilità di “essere” nel qui ed ora della scena.

Nina Margeri

Testo, messa in scena e spazio scenico di Pascal Rambert

Con Sara Bertelà e Anna Della Rosa

Traduzione italiana di Chiara Elefante

Produzione TPE – Teatro Piemonte Europa, FOG Triennale Milano Performing Arts