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Dialogo con Roberto Tarasco, inventore della scenofonia. «Come un rabdomante trovo le luci e i suoni giusti per la scena»

La mia passione per il lavoro di Gabriele Vacis dura dal 2016, da due lezioni folgoranti, di cui ricordo ogni dettaglio.
Ricordo come entrò nell’aula, attraversando il grande spazio vuoto in silenzio, fino a raggiungere l’unica sedia della stanza, in mano l’Amleto tradotto da Cesare Garboli. Noi seduti per terra, attorno a lui.
Ricordo come ci mostrava le casse armoniche naturali del corpo umano, facendosi passare la voce dal naso, al diaframma e anche dietro nelle spalle. Me lo ricordo illustrarci la differenza tra tono, volume e ritmo, aggiungendo: «e state attenti alla manomissione delle parole. Nei talk show, quando dicono abbassate i toni si riferiscono al volume » e così poi ci dimostra come si può tenere una nota acutissima a un volume bassissimo.
Me lo ricordo citare Aldo Busi – con la veletta – che dice: «La letteratura è ritmo». Me lo ricordo mentre ci fa ascoltare l’Aria dalle Variazioni Goldberg suonata da Glenn Gould, prima negli anni’50, velocissima, e poi più lenta, nell’incisione degli anni ’80. «Glenn Gould» ci dice Vacis «incanta il tempo, quando leggete ad alta voce, avete la possibilità di incantare il tempo».
Me lo ricordo mentre tira fuori Il piccolo principe e parla dei lagami che si possono creare tra chi legge e chi ascolta; me lo ricordo mentre legge l’incipit de Il profumo, di Süskind, e dice: “La lingua è un’orchestra”. Me lo ricordo, il secondo giorno, quando ci ha preparati alla lettura ad alta voce, mostrandoci come si abita lo spazio e il tempo, come si sta in relazione con lo sguardo. Mi ricordo l’emozione, dopo quella lezione, di come abbiamo applaudito con le lacrime agli occhi, mentre lasciava l’aula.
Due lezioni intensissime che non bastavano a contenere il lavoro di una vita; volevo saperne di più.
Così l’ho cercato, e l’ho seguito il più possibile.
La prima cosa che ho imparato è che il suo teatro si declina solo al plurale, dagli esordi con Laboratorio Teatro Settimo, addirittura le regie dei primi lavori sono regie collettive. E se qualcosa ho capito del modo in cui lavora Vacis, un mistero per me rimaneva il processo creativo del suo sodale che lo accompagna dalla prima ora, Roberto Tarasco.
Tarasco si occupa di Scenofonia. Volevo saperne di più, e gli ho proposto di fare una chiacchierata assieme, mentre i PEM si preparano alla ripresa di Antigone e i suoi fratelli, che ha debuttato lo scorso anno alle fonderie Limone.
Tarasco è energico, le frasi sempre vitali, ama raccontare, ma prima centra il cuore della questione, senza troppi giri di parole.

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HANDLE WITH CARE – FUNA

Archivio emotivo di memorie mai vissute

Nell’ambito della seconda edizione del Nice Festival Torino, con una fitta programmazione durante l’intero mese di dicembre, è andata in scena la prima nazionale dello spettacolo Handle with care del collettivo femminile FUNA presso il Café Müller, teatro polivalente nel centro di Torino. Il festival propone una selezione di lavori di artisti e compagnie di calibro internazionale che spaziano dal circo al teatro, fino alla danza e alla musica dal vivo. Il tema di quest’anno è quello dell’identità e delle differenze, che trova nel circo contemporaneo la massima espressione dell’autenticità: concetto molto presente nella ricerca di FUNA. Il collettivo, nato a Napoli nel 2018, si muove tra la danza e il circo contemporaneo, le discipline aeree, la danza verticale e il teatro fisico al fine di ampliare i confini espressivi nel rapporto tra corpo, voce e spazio. Le performance sono spesso concepite per spazi scenici non convenzionali e outdoor come musei, luoghi pubblici, aree ex-industriali.

Dal dialogo con le tre coreografe ed interpreti Maria Anzivino, Ginevra Cecere e Viola Russo, è emerso che questo primo studio è stato concepito e pensato come un site specific per gli spazi del Café Müller a seguito di un problema tecnico che ha ostacolato la messa in scena del progetto precedentemente proposto.

“Avevamo immaginato di portare tutt’altro, una carrucola umana a una corda in tre, ma trovate nello spazio abbiamo capito che non era realizzabile e ci siamo reinventate facendoci ispirare dallo spazio” (Ginevra Cecere)

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SPETTATORE CONDANNATO A MORTE

La rappresentazione teatrale Spettatore condannato a morte avviene in un luogo suggestivo.  Ci troviamo a San Pietro in Vincoli, un ex cimitero, nello specifico in una chiesa sconsacrata. Ci accoglie un giardino esteso che guida i nostri passi verso la biglietteria: una donna, attenta e gentile, dopo averci dato i nostri biglietti, ci indica un tavolo dove farci servire delle bibite calde e dei dolcetti. L’atmosfera inizialmente fredda, comincia a riscaldarsi, ci sono dei portici, arredati con poltrone, tavolini ed altri arredi domestici; in fondo, il cimitero è una casa per tutti. Un’altra ragazza ci accoglie in un graditissimo tepore, un grembiulino blu le fascia la vita e i suoi capelli ricci, scendono delicatamente sulle spalle. Un biglietto della lotteria finisce nelle nostre mani “non perdetelo, vi servirà dopo per un’estrazione”. I nostri biglietti non hanno segnato il numero del posto, la coda per entrare nella chiesa è lunga e trepidante. Attendiamo. Scattano le 19 in punto. Un ragazzo, alto e dal viso valorizzato da un baffo, ci strappa i biglietti e ci fa entrare. I posti sembrano distribuiti casualmente, eppure, una signorina ci guida attentamente: siamo disposti in semicerchio, ricorda un anfiteatro, come fosse un rimando al teatro antico.

“Che entri il giudice”, siamo in una corte di giustizia e davanti a noi, con toghe nere, passo deciso e voce altisonante si dispongono un procuratore, un cancelliere ed un giudice appunto. Dalla regia di Beppe Rosso nasce il riadattamento del testo di Matei Visniec, un lavoro dagli intrecci notevoli e complessi, interpretato da attori professionisti e da alcuni  partecipanti ad un precedente laboratorio dedicato allo spettacolo, quelli che saranno i testimoni, la donna gentile della biglietteria, la ragazza dal grembiulino blu e dai capelli ricci e lo strappatore di biglietti dal baffo prominente. La performance attoriale è intrisa di improvvisazioni, equivoci e incomprensioni, la risata del pubblico si scatena incontrollata e talvolta quella degli stessi attori. Un dettaglio peró che rompe un po’ la magia della pièce teatrale, distogliendo l’attenzione dal testo e dall’importante messaggio che vuole trasmettere. La scenografia è mobile e dinamica come lo stesso spettacolo, il legno la fa da padrona. Il protagonista è il pubblico ed in particolare uno spettatore che entra nell’occhio del ciclone della performance teatrale. A tutti i costi questo spettatore deve essere condannato a morte, le figure giudiziarie chiedono aiuto al pubblico per poterlo condannare, un pubblico che si manifesterà curioso e silenzioso seppur divertito. Il testo di Visniec vuole raccontare di come la giustizia, spesso, si perda nella delirante ricerca di un colpevole senza restituire la reale importanza della verità.

Quanto è infatti necessario trovare un capro espiatorio nella società odierna? E’ altrettanto importante la scoperta della verità, del movente, di un perché? No, non lo è, l’esigenza umana di attribuire un volto alla rabbia e all’odio è naturale, la verità  è invece una ricerca razionale, tipica di una civiltà intelligente, senza pregiudizi. Noi però siamo chiamati a giudicare e in uno scambio tra testimoni, pulito, veloce e dinamico, osserviamo, senza agire, il compimento di quella che sembrerebbe un’ingiustizia. “Forza uccidetelo, dai, uno di voi, si alzi e prenda questo fucile, uccidetelo”, il pubblico è talvolta confuso, quasi nessuno risponde alle sollecitazioni degli attori: chissà, forse perché sappiamo di essere ad uno spettacolo. L’uomo imputato resta in scena, in un angolo, seduto su una sedia, protagonista consapevole seppur non preparato, complice di un equivoco che spinge il pubblico a chiedersi continuamente se sia attore o spettatore, ebbene, ecco la risposta.

Come si è sentito?

Beh, sicuramente è stato per me, spiazzante

Sentiva l’impulso di reagire? Se si, perché non lo ha fatto?

Si, sentivo l’impulso di reagire, se non mi avessero detto di non fare nulla, probabilmente mi sarei inventato qualcosa.

E cosa avrebbe fatto?

 Avrei avuto voglia di sparargli.

Il pubblico siede sul liminale tra finzione e realtà, un confine difficile da stabilire, nella vita come in teatro. Quello che mi ha sollecitata mentre le battute scorrevano una dietro l’altra è stata la volontà di scoprire il pensiero degli attori, in particolare quello del giudice, presente in tutte le scene. 

Ti sei divertito?

Si, molto, sarebbe stato un problema fosse stato il contrario.

Come è stato il rapporto con il regista nella costruzione di uno spettacolo dalla sceneggiatura così articolata?

Devo dire difficile, abbiamo però trovato un ottimo compromesso.

Quanto è importante il silenzio del pubblico ?

 In questo spettacolo, come in tanti altri, è fondamentale, scandisce il ritmo, come fosse un’armonia musicale.

Quanto è stata importante l’improvvisazione? 

Fondamentale, direi.

Quando chiedevate reazioni dal pubblico, sapevate già non sarebbero arrivate? Oppure non avete avuto le giuste risposte alle vostre sollecitazioni? 

Si, sapevamo già non sarebbero arrivate, fossero arrivate le avremmo sicuramente gestite con l’improvvisazione ma ritornando sempre alla sceneggiatura originale.

Porre queste domande e avere delle risposte ha chiarito tante mie perplessità nate durante lo svolgimento della pièce teatrale. Uno spettacolo che, a mio avviso, ha un potenziale incredibile, seppur per certi versi ancora latente. C’è però da specificare che questo è uno “spettacolo partecipato”, in cui solo 4 attori sono professionisti, le altre 25 persone intervenute in scena sono invece cittadini, reclutati per il laboratorio condotto da Beppe Rosso e Yuri D’agostino. Mi sento dunque di fare luce su questo “dettaglio” per evidenziare il grande lavoro fatto dalla regia e dall’aiuto regia . La tematica trattata, è infatti, estremamente attuale e ci chiede di osservare noi stessi dall’interno, una piccola società racchiusa in un ex spazio sacro, che ci porta ad una profonda analisi di coscienza, in fondo, come diceva Friedrich Nietzsche “dovremmo chiamare ogni verità falsa, se non la abbiamo accompagnata da almeno una risata”.

Rossella Cutaia


CREDITI

di Matei Visniec
traduzione Debora Milone e Beppe Rosso
Adattamento Beppe Rosso e Lorenzo De Iacovo
aiuto regia Yuri D’Agostino
regia Beppe Rosso
con Lorenzo Bartoli, Francesco Gargiulo, Andrea Triaca, Angelo Tronca e con venticinque cittadini nel ruolo dei testimoni
scene e luci Lucio Diana
riprese video Eleonora Diana
tecnico di compagnia Adriano Antonucci
sound Massimiliano Bressan
costruzione scene Marco Ferrero
produzione A.M.A. Factory

PRIMA NAZIONALE

Spettacolo programmato in collaborazione con Piemonte dal Vivo nell’ambito del progetto Corto Circuito

28° Edizione Festival delle Colline Torinesi – Intervista a Sergio Ariotti

Il 10 Ottobre 2023, con l’anteprima dello spettacolo Come gli Uccelli, che sarà presente nella stagione TPE, ha avuto inizio la 28° edizione del Festival delle Colline Torinesi.
Dal 10 Ottobre al 4 Novembre sarà quindi possibile seguire il Festival.
Il tema, anche quest’anno, sarà Confini e Sconfinamenti.
Èancora molto necessario parlare di questa tematica, così attuale, dolorosa. E politica, nel senso più profondo del termine.

Per l’occasione abbiamo intervistato Sergio Ariotti, direttore del Festival delle Colline Torinesi insieme ad Isabella Lagattolla, che riportiamo qui di seguito in modo da poter indagare al meglio ciò che questa nuova edizione del Festival ha da dire al pubblico.


Perché si sente l’urgenza di esplorare nuovamente il tema Confini e Sconfinamenti?
Qual è il messaggio che il Festival si propone di lanciare? Quali sono le aspettative?

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Lazarus – David Bowie, Enda Walsh, tradotto e diretto da Valter Malosti

Lazarus, nella sua versione italiana tradotta e diretta da Valter Malosti, in scena al Teatro Carignano dal 6 al 18 Giugno, è un’opera scritta da David Bowie e Enda Walsh.

Ispirato al libro The Man who fell to Earth di Walter Tevis e all’omonimo film in cui Bowie interpreta l’alieno Newton, lo spettacolo continua a raccontarci la storia di Newton da dove l’avevamo lasciata. Nonostante non appartenga a questo Mondo, egli rimane prigioniero senza poter tornare al pianeta che lui chiama casa. Incapace di vivere, non riesce nemmeno a morire. Un immortale senza spirito vitale.

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NOBODY NOBODY NOBODY. it’s ok not to be ok. – INTERVISTA A DANIELE NINARELLO

NOBODY NOBODY NOBODY. It’s ok not to be ok. Collective experience, è un complesso progetto dove il coreografo e danzatore Daniele Ninarello coniuga sperimentazione laboratoriale e performance. La ricerca artistica di questo lavoro nasce durante i primi mesi di restrizione dovuta alla situazione pandemica da Covid-19. L’autore indaga il movimento, inteso come azione di protesta contro i dispositivi di potere, la mascolinità tossica e il bullismo. NOBODY NOBODY NOBODY rappresenta un modo per potersi esporre alla propria vulnerabilità, agendo di conseguenza la propria rivoluzione nella maniera più libera possibile. Un attento processo, costituito da diverse residenze artistiche, che il coreografo ha già condiviso e che continuerà a condividere con gli studenti di diverse scuole, affiancato dalla sociologa Mariella Popolla. 

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Pompea Santoro e la nuova produzione della Eko Dance Project

Anche se la danza nel nostro paese deve farsi riconoscere e soprattutto sopravvivere a suon di grands battements, c’è chi tiene duro e percorre sentieri a volte impervi pur di onorare la Musa Tersicore. Il caso di Pompea Santoro è emblematico e traccia un percorso che è tutto rivolto alle new generation di danzatori e coreografi che trovano nel progetto EDP quelle possibilità che spesso vengono negate dalle istituzioni preposte a causa del ginepraio di una burocrazia contorta, spesso condizionata da ingerenze pseudopolitiche. Lei, forte della sua esperienza internazionale che l’ha vista protagonista di grandi produzioni, si pone come filtro rigenerativo e catartico, proponendo una forma di laboratorio che è allo stesso tempo fucina di produzione e messa in scena, e lo fa con sempre rinnovato entusiasmo.

Come nasce Eko Dance Project ?

Non è mai stato nelle mie intenzioni, nemmeno nei mie programmi e neppure nei miei desideri, io lavoravo principalmente per Mats Ek, mi sono trasferita in Italia e giravo nei teatri per rimontare le sue coreografie, ad un certo punto mi hanno chiesto di insegnare, ho sempre amato l’insegnamento fin da molto giovane è una cosa che sentivo tanto mia e quindi questa opportunità l’ho accolta con molto entusiasmo. Ho iniziato con la compagnia di Paolo Mohovich, poi ho continuato con la scuola di Loredana Furno ed anche per la sua compagnia. Mi sono ritrovata alle Lavanderie a vapore con una decina di ragazze che al mattino venivano a prendere lezione regolarmente, tutte intorno ai diciannove vent’anni.  Sempre Loredana mi propone di preparare qualcosa con queste giovani in occasione dello spettacolo della scuola. Premetto che avevo iniziato un po’ per gioco a insegnare loro Giselle secondo atto di Mats Ek e Loredana mi propose di presentare il lavoro a scopo educativo e  così abbiamo fatto. La combinazione ha voluto che fosse presente allo spettacolo Claudia Allasia la quale tornò anche la seconda sera assieme a Piero Ragionieri , mancato nel 2021, che allora era Direttore della Fondazione Piemonte dal Vivo. Lui ne fu entusiasta al puto da chiedermi di iniziare qualcosa a Torino e così feci, era verso la fine del 2012 quando fondai l’associazione Eko Dance Project. Non ho mai fatto audizioni, i ragazzi arrivavano spontaneamente, tra i primi ci furono il danzatore e coreografo Andrea Zardi che successivamente ha conseguito il Dottorato di ricerca presso l’Università di Torino nell’ambito del rapporto Studi di  Danza e Neuroestetica e Giorgia Bonetto mia assistente, danzatrice e  insegnante, lei è ancora con me sin dall’inizio del progetto. Spesso sono colleghe che hanno accademie sparse in tutta Italia a mandarmi i loro allievi, per fare esperienza ed esplorare quello che c’è oltre lo studio accademico. Questo non significa che alla Eko si abbandona la tecnica classica che ritengo sia fondamentale e imprescindibile. La danza accademica deve essere sempre al servizio di qualsiasi stile si affronti, poi ovviamente ci possono essere stili in cui la tecnica devi completamente dimenticarla, ma se un danzatore è aperto e duttile fa in fretta ad adeguarsi, cosa impossibile se invece un danzatore non possiede una solida tecnica accademica.

Mi stai dicendo in sintesi che la tecnica classica è la base indispensabile per affrontare le coreografie di Matz EK

È così, non è una opinione è come la matematica, e non solo per Matz Ek ma anche per altri stili di danza contemporanei. Credo che ancora si fa troppa distinzione tra il balletto classico e quello contemporaneo, per me non è così, per me una si sposa con l’altra, un danzatore si forma con la tecnica classica, la tecnica è qualcosa che ti permette di conoscere il tuo corpo a fondo, ti permette di muoverlo perché ti rende consapevole, ti ha permesso di sentire e gestire il tuo corpo.

Più tecnica hai più libero sei di gestire i movimenti a prescindere dallo stile di danza.

Io mi sono allenata con la tecnica classica tutte le mattine per tutta la mia vita ma poi non ho usato quel materiale per esprimermi, ma la tecnica mi ha permesso di danzare quello che mi veniva chiesto, potevo guidare il mio corpo senza problemi perché la tecnica mi permetteva di aver accesso e guidarlo come desideravo. Continuo a pensarla così e la Eko Dance si basa proprio su questo pensiero. Infatti i miei ragazzi tutte le mattine si allenano e si preparano con la lezione di classico.

Ci sono altri direttori di compagnie che come te hanno dato spazio a giovani coreografi nel nostro paese ?

Mi viene in mente Cristina Bozzolini con il Balletto di Toscana, con lei sono nati tanti coreografi, poi c’è da dire che per le compagnie è più rischioso mentre nel mio caso, essendo il mio un progetto di alta formazione, si colloca in modo naturale nelle sue finalità principali.

Credo che un giovane coreografo così come un danzatore abbia bisogno di una guida ed è qui che trova il materiale di cui necessita. Spesso i giovani coreografi si trovano soli ad affrontare il difficile percorso artistico, non hanno una guida esperta che li consigli indicando loro soluzioni adatte al loro scopo, soluzioni date soprattutto da artisti che hanno avuto una grande esperienza nel settore.

Cose pensi della situazione danza in Italia ?

In Italia di possibilità ce ne sono pari a zero, a parte l’Aterballetto che comunque fa un repertorio vasto  le  altre sono quasi tutte compagnie d’autore dove prevalentemente si mettono in scena coreografie degli stessi direttori e  poi ci sono compagnie come il Balletto di Torino, il Balletto di Roma ma certo la produzione nazionale è abbastanza scarsa. Spesso ci sono giovani talenti che trovano spazio all’estero e non in Italia. Certo anche per me è un rischio mettere in scena lavori inediti creati da autori sconosciuti ma credo che l’opera artistica sia da sempre soggetta alla critica, una coreografia può piacere o non piacere ma questo non deve rappresentare un deterrente, l’importante è che il livello dei danzatori sia sempre al top, il pubblico può non apprezzare il lavoro coreografico ma sarà sempre pronto ad applaudire danzatori preparati.

Parlaci di questa nuova produzione

Il tema di questo spettacolo è volare oltre, quindi ho pensato di trattare uno degli argomenti più caldi che è questa identità di genere, il femminile il maschile. Ho pensato subito una cosa : “ facciamo che i ballerini li vestiamo tutti uguali, tutti, uomini e donne avranno lo stesso costume in tutte le coreografie”, quindi non abbiamo la donna con la gonna e il maschio col pantalone, niente ruoli . Certo fisicamente nasciamo uomo e donna poi nella vita si è liberi di essere ciò che si vuole. Per tornare allo spettacolo ogni pezzo ha un tema preciso come: l’amore, la passione, le relazioni umane, la resilienza e la speranza . Il mio lavoro è stato quello di assistere i coreografi ed aiutarli nel lavoro di costruzione, spesso stimolandoli alla riflessione sul concetto di significato del movimento.

Ci saranno repliche di questo spettacolo ?

Guarda qui andiamo a toccare un tasto dolente perché quando si va a proporre uno spettacolo nei teatri sono tutti alla ricerca del titolone e si perdono delle occasioni per mettere in cartellone degli ottimi spettacoli, per esempio noi abbiamo riempito il teatro per ben tre serate, c’era anche l’Assessore alla cultura, il Professor Pontremoli che è rimasto affascinato dalla serata, mi chiedo perché il direttore di un teatro non rischi un pochino e affianchi al titolone anche spettacoli nuovi, fatti da giovani di talento. 

MADE4YOU.EU

Stili diversi con un unico obbiettivo, eliminare le barriere tra uomo e donna, tra quello che è femminile e maschile.

IL TUO VENTO

Coreografia di Eva Calanni
Assistente: Giorgia Bonetto
Musica: “Neo” C. Loffler, “Nil” di C. Loffler, “Only the wind” O. Arnalds Arcadia di Apparat Interpreti: Andrea Carozzi, Isabelle Zabot, Francesco Polese, Francesca Raballo.

Il tuo vento vuole esprimere quella forza dentro ognuno di noi, in grado di farci volare oltre le barriere della vita. Quel segreto che abbiamo dentro, che nel momento in cui viene liberato, riesce a farci sentire liberi di essere, semplicemente, noi stessi.

HIGHER GROUND

Coreografia: Pedro Lozano Gomez
Assistente: Giorgia Bonetto
Musica: Fabian Reimair and Pyotr Ilyich Tchaikovsky
Luci: Mauro Panizza
Interpreti: Gaia Triacca, Jennifer Mauri, Arianna Reggio, Enrico Benedet, Isabelle Zabot.

La linea è sottile tra il trattenere e il sapere, mille miglia tra correre e crescere. Sarà la luce dietro questo caos a guidarmi? Vorrei che fosse il coraggio a trovarmi, a poco a poco da questa dannazione costruiremo una nazione più forte.

DEMOISELLES

Coreografia: Giovanni Insaudo
Assistente: Giorgia Bonetto
Musica: Matthew Herbert- the wonder/credits, Davidson Jaconello a midnight’s summer dream (musica inedita), Woodkid-otto
Costumi: Giovanni Insaudo
Luci: Mauro Panizza
Interpreti: Andrea Carozzi, Gaia Triacca, Francesco Polese, Isabelle Zabot, Francesca Raballo, Chiara Colombo, Cecilia Napoli.

La narrazione trae ispirazione dal dipinto di Pablo Picasso “Les Demoiselles d’Avignone”. I personaggi nel dipinto prendono vita, sviluppano nuove relazioni tra esse e ci lasciano scorgere diverse visioni dell’interpretazione personale che il coreografo ha voluto dare interpretando il dipinto e trasformandolo da tela piatta a pittura in rilievo. Si racconta della donna, degli esseri umani, delle loro vulnerabilità e delle loro libertà di genere, allo stesso tempo si racconta dell’unicità di ognuno dei caratteri che prendono vita all’interno del pezzo.

INTERMEZZO

Coreografia: Marco Prete
Musica: Phoria, “Current”
Luci: Mauro Panizza
Interpreti: Anna Del Bel Belluz, Bianca Cintelli, Celeste Olei, Alessia Coda Zabetta

DesOrder

Coreografia: Ken Ossola
Musica: Polle van Genechten
Testo: Martino Muller
Voce: Martijn Verhagen
Interpreti: Eko Dance Alta Formazione, Eko Dance Compagnia.

Prima collaborazione con Eko dance Project e con il talentuoso compositore olandese Polle van Genechten.
All’inizio i danzatori sono controllati da fili come delle marionette che si muovono per spingersi oltre i confini, verso la ricerca di un senso di libertà, fisicamente e spiritualmente.

Fidati del destino e lasciati andare per trovare il vero significato della vita.

Giuseppe Paolo Cianfoni

Intervista a Fabrizio Falco

“Irrequieto”

Attore e regista teatrale, Fabrizio Falco invade la città di Torino portando il suo Closer durante la stagione Out Of The Blue del Teatro Stabile di Torino al Teatro Gobetti, dal 14 al 19 febbraio, con Davide Cirri, Eletta Del Castillo e Paola Francesca Frasca; ma lo troviamo anche dal 2 marzo al cinema come protagonista del film La Memoria Del Mondo di Mirko Locatelli e, infine, al Circolo Dei Lettori con il suo monologo Molière Uanmensció (O Come Volete Voi), il 13 marzo

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INTERVISTA A METTE INGVARTSEN

The Dancing Public

Venerdì 29 e sabato 30 ottobre 2022 alla 27esima edizione del Festival delle colline torinesi abbiamo potuto vivere l’esperienza immersiva e coinvolgente di The dancing public, il nuovo lavoro di Mette Ingvartsen. Già dal momento della nostra entrata in sala, l’artista ha voluto accoglierci personalmente e spiegarci come si sarebbe svolta la performance, rendendoci liberi di danzare con lei e interagire con chi ci circondasse, lasciandoci andare alla voglia irrefrenabile di danzare liberamente senza vincoli, senza freni e senza pregiudizi. Tutti aspetti che di recente, o negli ultimi tre anni almeno, sono stati soffocati e messi da parte a causa delle restrizioni. Ed è proprio per la scelta di portare uno spettacolo del genere in un momento come questo che abbiamo voluto intervistare Mette, che ci ha gentilmente concesso il suo tempo subito prima di iniziare il suo allenamento pre-spettacolo.

[l’intervista è stata svolta in lingua inglese e successivamente tradotta e adattata]

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TRILOGIA DELLE MACCHINE – Chiacchierata in-formale con Giuseppe Stellato e Domenico Riso

Durante la 27esima edizione del Festival delle Colline Torinesi è andata in scena alla Fondazione Merz La trilogia delle Macchine ideata e diretta da Giuseppe Stellato, artista visivo e scenografo.

Lo spettacolo è decisamente interessante per la presenza in scena di “attori” inusuali. Dove nasce l’idea di far raccontare storie a delle macchine?

GS: Prima di tutto da una grande curiosità. Il mio lavoro da scenografo mi ha dato sicuramente la possibilità di vedere le cose da una prospettiva diversa, osservando la meccanica di alcuni oggetti quotidiani dall’interno.

Poi siamo stati invitanti nel 2018 alla Biennale di Venezia che proponeva un tema dal titolo Atto Secondo: Attore/Performer per presentare un’istallazione performativa, e in quell’occasione abbiamo presentato Oblò e Mind the Gap.

Siamo partiti dalla domanda: Cosa succede in teatro se a “raccontare” sono gli oggetti? Ci divertiva molto ragionare sull’idea che una macchina potesse essere allo stesso tempo attore e spazio, o per meglio dire scenografia, luogo, dove accade l’azione.

Ricordiamo che la trilogia è formata da tre quadri che hanno come soggetto tre macchine differenti: una lavatrice, un distributore di snack e bibite e un bancomat ATM. Come mai la scelta di utilizzare proprio questi oggetti?

GS: Il soggetto di Oblò prende spunto da quel video virale di qualche anno fa che girava su YouTube dove alcuni ragazzi mettono un mattone dentro una lavatrice e poi l’azionano, dando vita ad una sorta di autodistruzione che abbiamo trovato di una violenza indicibile. 

Questo spunto ci ha dato la possibilità di riflettere in maniera differente sulla realtà, raccontando, in linea con la violenza del filmato di YouTube, un fatto di cronaca altrettanto violento: il corpo del bambino siriano ritrovato sulla spiaggia.

La foto di quel corpo ha avuto un’eco inimmaginabile su tutti i social globali. Per noi partire da quel soggetto di realtà è stato il pretesto per utilizzare un altro medium, in questo caso la lavatrice, che, come i social, ci costringe a prendere le dovute distanze da fenomeni feroci e cruenti come quello.

Quindi l’uso che fate dell’ironia è un altro strumento che utilizzate per prendere le distanze?

GS: Ah sì!!! Avete davvero colto degli elementi di ironia?!? Ci fa molto piacere, perché temevamo che il soggetto potesse essere troppo drammatico. Effettivamente dei momenti ironici ci sono e siamo contenti che li abbiate notati.  Sono nati dall’improvvisazione e dal nostro genuino divertimento in scena.

Torniamo ai temi tratti dagli altri quadri…

GS: Per Mind the gap, frequentando spesso le stazioni dei treni, mi sono più volte ritrovato a guardare con interesse e stupore il distributore di merendine notandone il potenziale espressivo. Abbiamo cominciato a divertirci studiando i meccanismi interni delle macchine e come potevano essere utilizzati per raccontare delle storie. Abbiamo voluto esplorare la relazione del corpo di un performer che passa nella relazione con la macchina da essere mero spettatore a tecnico che dà il via all’azione.

Nelle prime due storie sono state usate due macchine di uso quotidiano ma una con una funzione privata (la lavatrice) e l’altra con una funzione pubblica (il distributore di merendine).  Il terzo quadro è stato il naturale evolversi di un percorso che si andava via via delineando. Così nel Bancomat troviamo la sintesi delle due funzioni degli oggetti precedenti: un oggetto pubblico che conosce in maniera inquietante il nostro privato.

E tu Domenico, come ti sei trovato ad abitare una scena che era la protagonista assoluta rispetto al tuo agire satellitare?

DR: Va detto che io non sono un attore e in realtà neanche un performer. Io sono un tecnico, e mi sento molto a mio agio come “uomo delle macchine”. Conosco molto bene il loro funzionamento e so bene quello che possono fare. Per esempio molto del lavoro è stato fatto in scena durante improvvisazioni in cui montavamo e smontavamo le macchine scoprendone le varie possibilità comunicative. Interessante ci è apparso sin da subito il loro suono originale che abbiamo mantenuto in presa diretta durante gli spettacoli. Questo ci ha permesso di costruire un linguaggio vero e proprio sopra al quale abbiamo montato altre tracce audio che si andavano in alcuni momenti a sovrapporre e in altri ad affiancarsi istaurando un dialogo vero e proprio. Da questo incontro sono nate suggestioni che ci sembravano avere tanto da raccontare.

Come mai nel terzo quadro l’uomo delle macchine compare pulendo la scena invece che interagendo da subito con la macchina? Qual è il significato del pulire lo spazio? 

Il terzo quadro nasce per completare una trilogia che, come dicevamo, si è andata delineando in maniera naturale e organica; quindi, ci piaceva l’idea di ricominciare ripulendo una scena che nel quadro precedente era stata sporcata da tutti gli oggetti che cadevano giù dal distributore. Inoltre, visto che nei primi due quadri avevamo simbolicamente tracciato delle linee di confine, la linea rossa di Oblò e quella gialla di Mind the gap, con questo gesto abbiamo anche voluto sottolineare la volontà, prima di marcare e poi di cancellare questi confini tra soggetto e oggetto proponendo una soluzione in cui il privato e il pubblico si trovano inglobati su uno stesso piano.

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Quella sera erano presenti allo spettacolo anche gli studenti della scuola del Teatro Stabile di Torino ai quali è stato chiesto come avessero percepito l’assenza di una narrazione umana.

I ragazzi hanno risposto di essere rimasti molto colpiti da come, nonostante l’assenza di un attore in scena, le macchine potessero comunque risultare tanto espressive. L’interesse dei ragazzi è stato catturato non solo dalle tematiche trattate ma in modo particolare dall’originalità della loro messa in scena.

Nina Margeri