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ANTONIO E CLEOPATRA – VALTER MALOSTI

Come un Giano bifronte questo spettacolo del Teatro Stabile di Torino mostra due facce della stessa medaglia che si prestano a molteplici interpretazioni. Abbiamo modernità e antichità che si mescolano nella tragedia storica di Shakespeare, reinterpretata sia in qualità di attore che di regista da Valter Malosti in una visione comica e disincantata, in cui l’Eros non può essere vincitore sulla ragione e il rigore del contesto storico per quanto possa essere passionale e contraddittorio.

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L’ISTRUTTORIA – LEONARDO LIDI

IL TEATRO COME TESTIMONIANZA

Alla  propaganda della bellezza, soprattutto in Italia, siamo esposti fin da piccoli: ci svezzano a pane e bello; e se non è dannoso, ci induce quantomeno a un’errata postura nell’accostarci a oggetti che vanno tutti sotto un unico cappello: “arte”. Così finiamo per osservare un quadro di Giotto, un’icona bizantina e una pittura romantica con le stesse lenti della bellezza, spesso unita a un altro concetto, ugualmente utilizzato a sproposito, logoro:  il concetto di “genio”.

Le icone bizantine, infatti, non sono fatte per la loro bellezza o per leggervi la bravura dell’artista – peraltro, in questo contesto, perlopiù sconosciuto – ma sono uno strumento di preghiera; strumento, come un tavolo, una sedia, un cucchiaio, una forchetta.

È bene tenerlo a mente, perché a forza di interpellare la bellezza, si rischia di perdere una visione della l’arte che dovrebbe rimanere per lo più poliedrica e totipotente.

E il teatro, tra le sue varie funzioni, ha quello di documento, documento storico, ci può aiutare nell’esercizio della memoria; e così come le Stolpersteine (le pietre di inciampo) dell’artista tedesco Gunter Demnig o Shoah di Claude Lanzmann si emancipano dalla loro natura artistica e diventano documento storico, così anche L’istruttoria di Peter Weiss, recitato al Teatro Gobetti  dal 23 al 28 gennaio dagli allievi della scuola per attori del Teatro Stabile di Torino diretti da Leonardo Lidi, testo questo che utilizza i mezzi del teatro per diventare uno strumento del ricordo.

È bene ricordare che non siamo di fronte a una drammaturgia, il testo infatti non forza i confini del dramma, ma si pone in un altro spazio nettamente diverso e separato da un testo drammaturgico. Siamo di fronte a un Oratorio, strutturato in 11 canti (il pensiero va a Dante) composti a partire dagli appunti stilati da Weiss durante le sedute dei processi penali contro un gruppo di SS e di funzionari del Lager di Auschwitz, che si tennero a Francoforte sul Meno tra il 10 dicembre 1963 e il 20 agosto 1965. Questo fu il primo processo voluto dal governo tedesco per giudicare le responsabilità del nazismo nella tragedia dell’olocausto. Nelle 183 giornate di processo vennero ascoltati 409 testimoni, 248 dei quali sopravvissuti al campo di sterminio.

I modi per attivare questo dispositivo della memoria non sono univoci. In Italia ricordiamo due modalità in cui è stato fatto. Nel ’67 Virginio Puecher per il Piccolo Teatro portò questo testo in spazi molto grandi: palazzetti dello sport, palazzi delle esposizioni, usando massicciamente le tecnologie e ibridando materiali eterogenei. Il risultato è quello del corpo di un performer che si dà ma viene continuamente negato annullato, oppresso dai media. Per esempio, vediamo i volti attraverso lo schermo dal momento che danno le spalle al pubblico, pezzi di documentari si alternano al testo di Weiss. (Usiamo la parola performer per la difficoltà qui di adoperare parole come attore o messa in scena; nel tempo che viviamo lo spettacolo tende a fagocitare ogni aspetto, soprattutto a teatro).

 In aggiunta l’impianto scenografico di matrice costruttivista di Josef Svoboda, che crea un setting da studio televisivo, evitando un unico punto focale, accentua lo straniamento, lo spettatore è costretto, pungolato, ad assistere alla testimonianza. Il teatro si pone come strumento efficace di documentazione e memoria perché è un documento incarnato nel presente, opera un corto-circuito tra passato e presente, fa rivivere la storia. Inchioda lo spettatore alla vergogna.

Una foto del lavoro portato nel ’67 da Virginio Puecher

Un’altra via percorribile è quella che sceglie il Collettivo di Parma nell’84 con la regia di Gigi Dall’Aglio.

 Un’esecuzione intima, quasi un rito, altrettanto ustorio: in un ambiente nero, lo spettatore è costretto a sostare in piedi in diversi spazi, per tutta la durata del primo canto. Gli oggetti che vediamo possiedono un grande potere evocativo, come nel secondo canto: mentre si racconta dell’espoliazione delle vittime, un uomo e una donna con le loro valigie sono portati al centro e fatti spogliare, le loro valigie vuotate, e gli oggetti disposti con cura davanti a loro. Sul finale, il piccolo spazio scenico è inondato di fumo e forti luci, per cercare di evocare l’orrore delle camere a gas.

Questo rito laico è in repertorio e viene riproposto a Parma ogni anno.

L’istruttoria a Parma per la regia di Gigi Dall’Aglio

Il lavoro curato da Leonardo Lidi a cui abbiamo assistito adotta invece un’impronta estremamente minimale. Nel voler portare a teatro il racconto delle vittime e dei carnefici di Auschwitz l’intento di Lidi, assieme agli allievi della scuola per attori del Teatro Stabile, sembra quello di voler spogliare di ogni orpello il rito della recita, lasciando la nuda testimonianza unica vera protagonista. Scrive infatti Lidi nel programma di sala che “l’importante non fosse creare un vero e proprio spettacolo, ma un momento di sincera condivisione sociale assieme alle persone venute per ascoltare ma anche per partecipare ad una giornata di grande importanza”. È per creare un’atmosfera di condivisione, dunque, che il pubblico entra in sala trovando già presenti gli interpreti sparpagliati per la platea, quasi come entrassero in una piazza, e che le luci rimangono accese fino agli ultimissimi istanti della performance. Il pubblico vede gli interpreti, gli interpreti vedono il pubblico. Sul palco l’impianto scenico è asettico, composto unicamente da una struttura a gradoni bianchi. I performer, in giacca nera e camicia bianca (eccezion fatta per i carnefici, in sola camicia bianca), una volta presa posizione su di essi restano quasi esclusivamente fermi sul posto, alzandosi solo per parlare. Il movimento più presente è quello dei microfoni, passati di mano in mano per far parlare i vari testimoni. La testimonianza viene trasmessa in maniera diretta, pronunciando il testo senza particolare inflessione, senza lasciar trasparire alcun sentimento di troppo. Sarebbe stato fin troppo facile lasciarsi andare ad un’interpretazione emotiva del testo, lasciarsi trasportare dall’orrore delle immagini da esso evocate. Troppo spesso le opere che trattano questo argomento tendono a scadere nel sentimentalismo, nella riproposizione patetica degli eventi, andando così a minare il messaggio di fondo: “è accaduto. Può accadere ancora. Non dobbiamo lasciare che accada”. In questo senso Lidi e gli allievi dello Stabile operano invece un rigoroso esercizio di sottrazione, e le poche emozioni che traspaiono dai volti dei performer sappiamo essere autentiche, uno scorcio nei loro pensieri che ci è dato vedere quasi per sbaglio, non simulate o evocate per la scena. Lo stesso non si può dire di alcuni individui del pubblico, che forse perché illuminati per tutto il tempo e dunque presi nell’insieme tendono talvolta a dimostrare platealmente con ampi movimenti della testa il proprio sdegno per gli eventi descritti. Questo lavoro porta all’estreme conseguenze l’atto del vedere insito nel teatro sin dal suo etimo, mentre guardiamo, da una parte il racconto è talmente insostenibile che dobbiamo abbassare lo sguardo, dall’altra è una mano che ci fa alzare la testa e ci riporta al dovere della memoria. Il dolore dell’olocausto, che poi è dolore dell’umanità tutta perché è il fallimento per antonomasia dell’umanità, traspare in tutta la sua violenza dalle semplici parole, dalla pulizia con cui vengono enunciate. In un terreno d’indagine in cui ogni cosa, anche dare e ricevere applausi, rischia di apparire irrispettoso o non adatto, un approccio come quello qui messo in atto mostra una qualità di giudizio lodevole da parte di Lidi e degli interpreti. Tutto è sottratto per lasciare posto all’evidenza di ciò che è stato. “È fondamentale” scrive sempre Lidi nel foglio di sala “evitare il più possibile il rischio inopportuno di spettacolarizzazione del dolore, una trappola frequente che dovremmo combattere proprio a fianco delle nuove generazioni”.  

E se qualcuno ahimè quest’anno volesse mettere in discussione la legittimità di ricordare la shoah, bisogna ricordare che la memoria della shoah è di tutti, come scrive Anna Foa: “In questo terribile conflitto, in cui due estremismi opposti si combattono nel dolore delle vittime di entrambe le parti, ora l’importante è fermare l’operazione bellica che sta distruggendo Gaza e che sempre più precisa come suo obiettivo l’annessione dei territori occupati a formare una grande Israele. Vedremo risorgere, con tutti i suoi limiti, ma anche con le sue aperture e le sue speranze, l’antica Israele dei suoi padri fondatori, e vedremo i palestinesi disfarsi degli estremisti e lavorare alla creazione di uno stato che viva in pace coi suoi vicini? Per quanto difficile sia, distruggere la memoria del maggiore genocidio del Novecento, oppure anche soltanto lasciarla come patrimonio solo degli ebrei, sottraendola all’umanità intera, non può certo aiutare a raggiungere questo obiettivo.

È importante che a realizzare questo lavoro siano degli attori in formazione: tra le prerogative di un attore non è secondaria quella di porsi come custode della storia. In un presente in cui la memoria tout-court tende a essere merce rara, gli attori possono esserne il veicolo.

Giuseppe Rabita e Edoardo Perna

Per un’approfondimento sulle precedenti messe in scena in Italia: “ Storia e performance: un confronto fra due scritture sceniche de L’istruttoria di Peter Weiss” di Roberta Gandolfi

di Peter Weiss
con gli allievi della
Scuola per Attori del Teatro Stabile di Torino
(in ordine alfabetico)
Alessandro Ambrosi, Francesco Bottin, Cecilia Bramati
Ilaria Campani, Maria Teresa Castello, Hana Daneri
Alice Fazzi, Matteo Federici, Iacopo Ferro
Samuele Finocchiaro, Christian Gaglione, Sara Gedeone
Francesco Halupca, Martina Montini, Greta Petronillo
Diego Pleuteri, Emma Francesca Savoldi
Andrea Tartaglia, Nicolò Tomassini, Maria Trenta

regia Leonardo Lidi
regista assistente Francesca Bracchino
scene Fabio Carpene
Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale

Arlecchino Furioso – Stivalaccio Teatro

Dal 19 dicembre 2023 all’1 Gennaio 2024, al Teatro Gobetti, è andato in scena lo spettacolo Arlecchino Furioso.
La compagnia Stivalaccio Teatro, che si occupa di teatro popolare, teatro per ragazzi e arte di strada, in questa occasione ci riporta indietro nel tempo seguendo la tradizione della Commedia dell’Arte.

“Sono dinamici e creativi i giovani di Stivalaccio Teatro, e anche coraggiosi nel dedicare le loro energie a un genere di nobile tradizione e di alta specializzazione qual è la Commedia dell’Arte, che li porta a confrontarsi con interpreti giganteschi e insuperabili”.

Questo ciò che viene detto della compagnia in occasione del Premio ANCT – Associazione Nazionale Critici Teatro 2023, che gli viene assegnato proprio al Teatro Gobetti.

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Salveremo il mondo prima dell’alba- Carrozzeria Orfeo

Possono i soldi fare la felicità? A questa domanda risponde la Carrozzeria Orfeo con Salveremo il mondo prima dell’alba, nato dalla regia di Massimiliano Setti, Ivan Zerbinati e Gabriele di Luca attore oltre che uno dei drammaturghi dello spettacolo. La pièce teatrale indaga cinque storie di cinque persone facoltose e molto conosciute che, tormentate dai loro problemi personali, si rifugiano in una clinica per riabilitazione; non una qualunque però: una clinica situata nello spazio. La scenografia è costituita da una costruzione semicircolare in legno che sembra imitare una cupola, al centro appare un oblò che mostra o nasconde la cosiddetta “grande meraviglia”, ovvero la terra. Un richiamo all’arte, a mio avviso, dal riferimento alla cupola alla visione eterea della terra, di tutto ciò che è stato quindi creato e reso incredibilmente concreto, sfidando le leggi della fisica, i confini vengono superati ma questo è possibile osservarlo solo estraniandosi dalla quotidianità per lasciarsi andare a se stessi. Uno scienziato indiano, biologo e portaborse di un uomo d’affari, esperto nel muovere le masse con la creazione di fake news, un imprenditore e il suo compagno, una coppia omosessuale fatta da numeri (l’uno) e da spirito (l’altro), infine una cantante, attivista e femminista. Ognuno di loro fugge dalla propria vita, un’esistenza infelice e irrisolta colmata da dipendenze, siano esse affettive, economiche o derivate da sostanze stupefacenti. Uno psicologo è presente nella narrazione (il Coach viene chiamato), una guida dei suoi pazienti che ha come missione divina quella di salvare le anime di chi, senza accorgersene, le ha logorate con l’inconsapevolezza, la superbia, l’invidia, la gelosia e l’egoismo. Alle estremità della costruzione semicircolare, appaiono due camere rettangolari, sempre in legno, una sauna a destra, simbolo di relax ed espiazione, ed una zona fitness a sinistra, al suo interno sono poste due biciclette, simbolo di fatica: pedalando con esse non si va da nessuna parte, la destinazione è dentro di noi. Un contesto onirico, un viaggio nella mente e nei sentimenti accompagnato da dolci musiche e da una voce femminile, quella della coscienza. Una teca è protagonista della scena, al suo interno i cinque pazienti dovranno, insieme, piantare un alberello, un piccolo baobab che raramente fa i frutti e di cui l’utilità appare inizialmente solo legata alla nascente coesione del gruppo. Chi mette un sassolino di ghiaia alla volta, chi mette la terra lentamente, chi scava il piccolo fosso per le radici, chi lo pianta effettivamente e chi lo bagna. Bisogna prendersene cura, bisogna prendersi cura della vita per farle fare i frutti, per quanto possa sembrare difficile o impossibile, la squadra impedisce l’errore, poichè a turno ci si occupa dell’alberello, così che non possa mai morire. Il linguaggio scelto per comunicare è familiare, a volte la dialettica è cruda e scurrile tuttavia è sciolta e chiara, la violenza della verbalità, accorcia ulteriormente le differenze sociali che dividono i ricchi dai poveri, già notevolmente diminuite dalla disperazione portata in scena. Tre ore di spettacolo scorrono ad una velocità impressionante, la mia curiosità nello scavare fino in fondo le storie dei personaggi è incontrollabile, in questo scenario divino e filosofico, mi pare talvolta di sentire le parole di Platone, quando parlava della caverna. Quattro uomini ed una donna, vivono all’ombra di loro stessi, circondati dalle loro paure più profonde, le reazioni ai tentativi di  trascinarli fuori dalle mura ormai fossilizzate delle loro menti, sembrano essere ataviche, deliri, violenze e autodistruzione. L’alba serve per far sorgere il sole, vicini allo spazio non la si dovrebbe neanche attendere, bisognerebbe solo aprire gli occhi e scegliere tra la luce e l’oblio: questo è il compito del Coach, tirarli fuori dalla loro caverna e farli scegliere. La narrazione è incalzate, i personaggi calzano agli attori come guanti, non  mi sento a teatro, la distanza che separa me stessa dal palcoscenico sembra non esistere, colmata dal silenzio della platea, interrotto spesso da risate: gli equivoci, l’ironia, il sarcasmo, il ridicolo, sono strumenti scelti dai drammaturghi e dai registi come mezzo di realtà, diceva infatti Madeleine L’Engle che una bella risata guarisce molte ferite, tagli che la drammaturgia di questo spettacolo riporta (dolori, disperazioni, dissolutezze, mancanze, assenze, privazioni, vuoti) alla mente di ognuno di noi, diventando, noi pubblico, soggetto stesso dell’analisi. Le scelte individuali condizionano la collettività ogni giorno, facciamo tutti parte di un grande gioco di squadra solo che ce ne siamo dimenticati; da lassù, dai cieli, come dei, i cinque personaggi assumono delle scelte e compiono azioni per se stessi soltanto, cercando di salvare disperatamente le loro vite sulla terra, preparando il terreno per quando ritorneranno; il loro egoismo però costerà la vita di tutti. I potenti, persone fragili con il potere di distruggere le vite degli altri come la propria, i potenti, persone che fuggono, lontane dal mondo e da loro stesse, nella speranza che tutto ciò che li circondi possa subire la loro stessa sorte, l’abbandono. Thanatos: Freud diceva che oltre all’eros, siamo fatti anche della più violenta voglia di farci a pezzi, l’uomo d’affari e il suo compagno scelgono l’oblio, gettandosi nel buio più profondo insieme. Il primo, affetto da una malattia degenerativa aveva vissuto gli ultimi anni della sua esistenza in preda al delirio di essere il numero uno, il lavoro era la sua ossessione, un ripiego, il successo, al suo fallimento come padre, uomo e persona.  Il suo compagno, uomo di spirito e spirituale,  aveva vissuto una vita senza scopo, non sentendosi mai all’altezza di nulla e trovando la sua occupazione nel prendersi cura dell’uomo che amava. Il personaggio del creatore di fake news aiuta in un impeto di generosità il suo servo, lo scienziato e biologo, nell’avere i campioni del DNA di specie rare o estinte, nella speranza forse, di fare la differenza, fugge alla ricerca di un riparo,  si distingue per codardia, tratto principale del suo carattere. La cantante invece non vuole fuggire, rimane su una sedia ad osservare e aspetta, forse di vedere la luce, arte. Il Coach nella sua missione di salvare il mondo da un disastro, approda su una terra la cui concatenazione di azioni non può più essere fermata, esplode e lui con essa. Rimangono nella clinica la cantante e il biologo: l’arte e la scienza, a prima vista incompatibili, devono unirsi per ricreare un mondo che ormai è scomparso. Ricominciare da capo, l’albero nella teca ha fatto i frutti, sono mele, non c’è né Dio, né il serpente, solo il frutto del peccato, Adamo ed Eva, ancora una volta. I soldi danno la felicità? No, non la danno e a quanto pare non rendono neanche liberi, la felicità sta nel prendersi cura della vita e coglierne i frutti. La mela non viene colta, la consapevolezza si fa, forse, strada nei loro cuori. Come ricomincerà la vita? E’ una domanda a cui non possiamo rispondere ma forse, l’unico modo per imparare a vivere è sbagliare. Che mordano quella mela.

Rossella Cutaia 

uno spettacolo di Carrozzeria Orfeo
drammaturgia Gabriele Di Luca
con (in o.a.) Sebastiano Bronzato, Alice Giroldini, Sergio Romano, Roberto Serpi, Massimiliano Setti, Ivan Zerbinati
regia Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi
assistente alla regia Matteo Berardinelli
consulenza filosofica Andrea Colamedici – TLON
musiche originali Massimiliano Setti
scenografia e luci Lucio Diana
costumi Stefania Cempini
creazioni video Igor Biddau
con la partecipazione video di Elsa Bossi, Sofia Ferrari e Nicoletta Ramorino
Una coproduzione Marche Teatro, Teatro dell’Elfo, Teatro Nazionale di Genova, Fondazione
Teatro di Napoli – Teatro Bellini
in collaborazione con Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna “L’arboreto – Teatro Dimora |
La Corte Ospitale”

Intervista a Fabrizio Falco

“Irrequieto”

Attore e regista teatrale, Fabrizio Falco invade la città di Torino portando il suo Closer durante la stagione Out Of The Blue del Teatro Stabile di Torino al Teatro Gobetti, dal 14 al 19 febbraio, con Davide Cirri, Eletta Del Castillo e Paola Francesca Frasca; ma lo troviamo anche dal 2 marzo al cinema come protagonista del film La Memoria Del Mondo di Mirko Locatelli e, infine, al Circolo Dei Lettori con il suo monologo Molière Uanmensció (O Come Volete Voi), il 13 marzo

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MINE VAGANTI – FERZAN OZPETEK

Torino, teatro Carignano, la sera del 5 gennaio.  

Mentre il pubblico ancora prende posto, chiacchiera o scatta l’immancabile foto ricordo alla sala e al sipario chiuso, una musica bossa nova comincia leggera a riempire l’ambiente. Un ragazzo in maniche di camicia attraversa la platea, si siede al limite del palcoscenico, si guarda intorno, sorride al pubblico, strizza anche l’occhiolino. Poi, dopo alcuni minuti d’attesa, le luci si abbassano, il ragazzo sale sul palco e si rivolge ai presenti in sala. Si presenta: è Tommaso Cantone (interpretato da Edoardo Purgatori), vuole ricostruire la sua storia e, sostiene, avrà bisogno anche dell’aiuto del pubblico per farlo. Un brivido percorre la sala.

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DANTE TRA LE FIAMME E LE STELLE – MATTHIAS MARTELLI

Un giullaresco poeta

Per la stagione Out Of The Blue, il Teatro Gobetti, dal 22 novembre al 4 dicembre 2022, ha presentato Dante tra le fiamme e le stelle, dell’attore e autore Matthias Martelli, con la consulenza storico-scientifica del professor Alessandro Barbero. L’adattamento teatrale vede la regia di Emiliano Bronzino e la partecipazione della violoncellista Lucia Sacerdoni, che accompagna l’attore in tutto il suo monologo. 

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ORESTE – VALERIO BINASCO

In chiusura della stagione 2021/2022, in uno spazio quasi ultraterreno, dall’aspetto infinito, assistiamo a un esperimento (estremamente ben riuscito), intitolato Ifigenia e Oreste, scritto, diretto e interpretato da Valerio Binasco. Un adattamento quasi atemporale di due delle più grandi tragedie mai scritte, analizzate in chiave squisitamente moderna, ma pur sempre universale. Un progetto che sembra farsi pioniere, sotto ogni punto di vista, di un nuovo modo di fare teatro, di un nuovo modo di raccontare.

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