MINE VAGANTI – FERZAN OZPETEK

Torino, teatro Carignano, la sera del 5 gennaio.  

Mentre il pubblico ancora prende posto, chiacchiera o scatta l’immancabile foto ricordo alla sala e al sipario chiuso, una musica bossa nova comincia leggera a riempire l’ambiente. Un ragazzo in maniche di camicia attraversa la platea, si siede al limite del palcoscenico, si guarda intorno, sorride al pubblico, strizza anche l’occhiolino. Poi, dopo alcuni minuti d’attesa, le luci si abbassano, il ragazzo sale sul palco e si rivolge ai presenti in sala. Si presenta: è Tommaso Cantone (interpretato da Edoardo Purgatori), vuole ricostruire la sua storia e, sostiene, avrà bisogno anche dell’aiuto del pubblico per farlo. Un brivido percorre la sala.

Così comincia Mine Vaganti, andato in scena al Carignano dal 20 dicembre 2022 all’8 gennaio 2023. Riduzione (termine decisamente appropriato) della pellicola omonima del 2010, firmata per la sceneggiatura e la regia da Ferzan Ozpetek, rappresenta qui per il regista il suo primo approccio teatrale.

L’intreccio vede il già citato Tommaso, ragazzo di campagna trapiantato a Roma, fare ritorno al suo paese per rivelare alla famiglia la sua omosessualità. Il suo piano però deraglia nel momento in cui il fratello maggiore Antonio (interpretato da Carmine Recano), ad un’importante cena di famiglia si dichiara anch’egli omosessuale prima che lui possa dire nulla, venendo cacciato di casa e lasciando Tommaso con il senso di colpa di non potersi aprire col padre per non causargli ulteriori dolori. Una premessa tutto sommato interessante, che però funge da semplice apriporta per una classica commedia degli equivoci, in cui il gioco consiste nel mantenere la propria facciata eterosessuale davanti ai genitori tradizionalisti.

Interessante la scelta di Ozpetek di optare proprio per questa trama come punto di partenza della sua carriera in teatro. Nelle note di regia che accompagnano lo spettacolo scrive: “La prima volta che raccontai la storia al produttore cinematografico Domenico Procacci, lui rimase molto colpito aggiungendo entusiasta che sarebbe potuta diventare anche un ottimo testo teatrale”.

Eppure è proprio nella scrittura che Mine Vaganti presenta una delle sue principali debolezze. Quella che dovrebbe essere una profonda analisi introspettiva di un personaggio in lotta con sé stesso e le proprie radici si riduce ad essere una carrellata di stereotipi e luoghi comuni atti a dar vita ad una commediola volta a divertire con i mezzi più scontati. Il che andrebbe benissimo, se non vi fosse la chiara pretesa di un messaggio. Messaggio che, per quanto ancora attuale nei suoi aspetti principali, si presenta in modo estremamente superficiale, con una veste vecchia di dieci anni (ma forse “vecchia” non è il termine giusto per descriverla; cose meglio articolare sul tema erano state scritte molto prima) che fa poco o nulla per motivare la propria presenza su un palcoscenico.

Scrive Ozpetek, riguardo i cambiamenti messi in atto nel trasporre l’opera da film a teatro: “L’ambientazione pure cambia. Ora una vicenda del genere non potrebbe reggere nel Salento, perciò l’ho ambientata in una cittadina tipo Gragnano o lì vicino. In un posto dove un coming out ancora susciterebbe scandalo”. Viene da domandarsi: se la vicenda necessita di un tale cambiamento perché l’ambientazione originariamente scelta come sfondo non è più adatta, ha davvero senso scegliere proprio questa come storia da raccontare? E anche volendo restare aggrappati ai temi e ai personaggi per una questione magari di affezionamento personale, ha comunque senso cambiare poco o nulla dell’intreccio oltre alla regione d’origine della famiglia? Già solo la necessità di un cambiamento del genere dovrebbe rivelare il fatto che forse la storia poteva rimanere comoda nella sua forma cinematografica.  

I personaggi di Mine Vaganti si prestano ad una visione caricata e caricaturale, che si maschera ogni tanto dietro drammatiche storie personali volte a dare l’impressione di trovarsi davanti a delle personalità sviluppate, ma che in fin dei conti si possono categorizzare in una serie di comode etichette utili allo spettatore per non confondersi: il fratello maggiore serio, il padre cafone, la madre benintenzionata ma bigotta, la nonna saggia, la zia ubriacona, la cameriera ficcanaso, gli amici effemminati. Il tutto condito da quel pizzico di “frociaggine” (mi si passi il termine) e meridionalità che fanno sempre ridere il pubblico da prima serata, ma che una volta finito lo spettacolo può farli tornare a casa sentendosi un po’ più tolleranti.

“Che brutta parola, normalità” recita ad un certo punto il personaggio della nonna saggia. E una signora dietro di me intona un udibile verso d’assenso, per dimostrare di essere al passo.

Forse proprio perché chiusi nelle costrizioni caricaturali che i loro personaggi impongono, gli attori non brillano esattamente sul palcoscenico. Chi eccessivamente sottotono, quasi stanco, chi con un’impostazione troppo pulita e monotona, chi con una cadenza confusa, quasi non sapesse bene come dire le proprie battute, chi caricato all’eccesso in ogni stereotipata movenza e modo di enunciare, un po’ tutte le figure che popolano la commedia vivono in modo decisamente poco convincente, e senza quell’equilibrio necessario ai passaggi tonali che il testo vorrebbe proporre. Vince, per maggioranza, la recitazione eccessiva, degna accompagnatrice delle macchiette stereotipate del sud e del mondo gay che vengono fatte sfilare sotto gli occhi pur sempre divertiti del pubblico. Tra tutti, spicca in modo positivo (un po’ per notorietà, certo, ma anche per bravura) Francesco Pannofino, interprete del patriarca della famiglia, figura attorno alla quale ruota tutto lo spettacolo (e tutte le immagini promozionali). Pur abbandonandosi volentieri a slanci di esagerato istrionismo, Pannofino riesce però a mantenere un delicato equilibrio nella sua recitazione, mostrando il suo talento prevalentemente in gesti e reazioni, in uno sguardo o una camminata, risultando azzeccato nella sua performance quasi clownesca, nonostante tutto ciò che lo circonda non lo sia particolarmente.  Altra nota di merito nelle interpretazioni va a Roberta Astuti nei panni di Alba, la socia in affari della famiglia, che purtroppo viene un po’ trascinata in basso insieme al resto del cast dalla scrittura, piaga costante dello spettacolo, che la rende un personaggio pressoché inutile allo svolgersi della vicenda, venendo quasi completamente dimenticata nella parte finale.

Laddove i problemi di scrittura finiscono, iniziano le perplessità riguardo a determinate scelte di regia.

Sul piano tecnico vi sono, qui e là, alcune trovate ben congegnate, una su tutte l’efficacissimo impianto scenografico di Luigi Ferrigno, che attraverso l’uso di tendaggi che si spostano da una parte all’altra del palco, rivelando ora questa, ora quell’immagine, riesce a rendere velocemente e senza troppi artifici aggiuntivi il passaggio da una scena all’altra; anche la musica a sipario ancora calato e luci accese risulta tutto sommato un buon modo di far entrare lo spettatore nell’atmosfera desiderata. Ma ecco, tra le varie trovate emerge una scelta non particolarmente comprensibile: l’interazione con il pubblico, anticipata fin dalle prime battute. Nelle già menzionate note di regia (da cui, lo ammetto, derivano gran parte delle mie perplessità) spicca una frase con cui Ozpetek sceglie di concludere la sua introduzione: “Ho realizzato una commedia che mi farebbe piacere andare a vedere a teatro, dove lo spettatore è parte integrante della messa in scena e interagisce con gli attori, che spesso recitano in platea come se fossero nella piazza del paese e verso cui guardano quando parlano. La piazza/pubblico è il cuore pulsante che scandisce i battiti della pièce”. Anzitutto, che il pubblico “interagisca” con gli attori non è esattamente corretto. Gli attori ogni tanto scendono in platea, camminano velocemente da una parte all’altra della sala, o si avventurano un paio di file più in giù rispetto al palco, ma nessuno spettatore viene trascinato sul palco a recitare con il resto del cast, e di questo siamo tutti molto grati, credo.  C’è, è vero, questa trovata della piazza del paese, dove il personaggio interpretato da Pannofino si guarda intorno, indicando il pubblico: “Quelle persone ci stanno guardando” dice, e il pubblico ride, al che Pannofino insiste: “stanno ridendo di noi” e il pubblico ride ancora di più. Una trovata facile, ma divertente, quantomeno la prima volta che viene usata; alla terza diventa un po’ trita. La gag prosegue con Pannofino che si avvicina a vari sventurati chiedendo che cos’hanno da guardare, ovviamente gli sventurati reagiscono rincarando la risata, e avanti così. Quella che poteva essere una veloce battuta diventa il perno di un’intera scena, ma non è che da questa interazione lo spettacolo ne esca migliore. È un espediente comico come un altro, nemmeno così innovativo come Ozpetek vorrebbe far pensare che sia. Viene perciò da chiedersi cosa intenda quando dice che questo è il cuore pulsante che scandisce i battiti della pièce.

L’intreccio prosegue con  uno spettacolo di Drag, al quale il pubblico reagisce ovviamente con scroscianti applausi, e si conclude poco dopo, frettolosamente, in una risoluzione che non risolve davvero nulla, ma padre e figlio si abbracciano quindi va tutto bene.

Tirando le somme, allo spettatore non può che restare una certa faciloneria con cui Mine Vaganti tenta maldestramente di affrontare i suoi temi con una profondità da fiction della Rai. Il pubblico però sembra apprezzare, e se ne torna, complice e soddisfatto, a casa propria, sentendosi un po’ più progressista.

Edoardo Perna

uno spettacolo di Ferzan Ozpetek
con Francesco Pannofino, Iaia Forte, Edoardo Purgatori, Carmine Recano e con Simona Marchini
e (in ordine alfabetico)
Roberta Astuti, Sarah Falanga, Mimma Lovoi, Francesco Maggi, Luca Pantini, Jacopo Sorbini
scene Luigi Ferrigno
costumi Alessandro Lai
luci Pasquale Mari
Nuovo Teatro diretta da Marco Balsamo
Fondazione Teatro della Toscana
foto © Romolo Eucalitto

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