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Intervista a Debby Szu-Ya Wang – Rimini Protokoll

A seguito del debutto in Italia dello spettacolo Ceci n’est pas une ambassade (Made in Taiwan), ho avuto l’opportunità di intervistare Debby Szu-Ya Wang, vibrafonista, percussionista e compositrice, in scena in veste di musicista, compositrice, attrice ed ereditiera. Lo spettacolo è stato ideato e diretto da Stefan Kaegi (Rimini Protokoll), ed è una produzione che ha riunito istituzioni europee e taiwanesi, per andare in tournée durante il 2024 in Europa, Taiwan e in Corea del Sud. L’intervista si è svolta in inglese e nel testo sono presenti degli interventi tra parentesi al solo scopo di precisare o chiarire alcuni commenti.

Ci racconteresti la genesi di questo spettacolo?

Wang: Il processo è iniziato con una open call rivolta a una vastità di cittadini taiwanesi, a cui hanno fatto seguito interviste, colloqui e incontri, e la scelta del cast. Abbiamo tratto dei racconti dalle nostre storie personali (in scena, oltre a Debby, Chiayo Kuo, attivista digitale e David Chienkuo Wu, diplomatico), finché Stefan (Kaegi) ha scritto il testo (insieme alla drammaturga Szu-Ni Wen). A quel punto abbiamo iniziato a provare con il copione, e questo nel frattempo veniva modificato e riscritto per confezionarlo in modo che funzionasse al meglio.

Ci sono stati dei momenti in cui vi siete dovuti mettere in discussione, o avete dovuto superare dei disaccordi interni al gruppo?

Wang: Parecchi, a dire il vero. E non solo disaccordi tra noi tre (le personalità in scena), bensì tra tutto il collettivo artistico. Trattandosi di un team internazionale, ognuno ha un background culturale differente e quando si lavora insieme questo influisce sul modo in cui ciascuno comunica con l’altro (è una co-produzione del Teatro Nazionale di Taipei e del Teatro Vidy-Lausanne, in Svizzera). Ci sono stati dei momenti di disaccordo tra il regista e la drammaturga, tra me e loro, nonché tra loro, Chiayo e David. È per questo che abbiamo creato il cartello “I DISAGREE” che si vede sul palco, per dare parola anche alle visioni contrastanti.

David Wu con il cartello “I DISAGREE” © Claudia Ndebele/Théâtre Vidy-Lausanne

Wang, prosegue: Inoltre, ci sono stati anche dei disaccordi dal punto di vista tecnico e dei compromessi da raggiungere. Per esempio questa è stata una sfida (indica il sistema di percussioni elettronico che utilizza in scena). Io ho un background jazz, quindi non sono abituata a suonare con apparecchiature come questa, sto ancora imparando. Non solo, siamo andati in scena in Germania e oggi qui in Italia, e dal momento che parlo un po’ di tedesco e italiano, abbiamo aggiunto degli intervalli in cui mi rivolgo al pubblico utilizzando le lingue locali. È stato impegnativo, mi sono messa alla prova.

Avete invece incontrato critiche da parte dei diversi pubblici e spettatori?

Wang: In linea generale è uno spettacolo che al pubblico piace. Però è stato complicato portarlo in scena proprio a Taiwan, perché abbiamo dovuto adattare il testo – dal momento che non si può aprire un’ambasciata di Taiwan, a Taiwan. Ci sono stati dei pubblici critici, anche perché gli spettatori conoscevano bene la storia, pertanto bisognava aggiungere dettagli, essere specifici, fare attenzione alle parole scelte. Non è stato uguale dappertutto. Alcune città sostengono una linea più nazionalista, altre no, perciò qualcuno poteva prendersela per questa o quella battuta del copione ed essere polemico. Però abbiamo ricevuto sempre molti riscontri positivi.

Grazie mille per questi dettagli che ci aiutano a capire meglio come si possa unire il teatro alle azioni politiche e quali siano i rischi e i compromessi a cui è necessario ricorrere per non sacrificare né la componente artistica, né il cuore del messaggio (o dei messaggi). Prima di salutarci, ti andrebbe di suggerirci artisti, autori, libri, film o show, per aiutarci a conoscere meglio il panorama artistico che offre Taiwan?

Wang, mentre scrive sul mio taccuino: Monique Chao è una musicista italo-taiwanese che vive a Milano, trae molta ispirazione dal panorama sonoro di Taiwan. Three tears in Borneo, è uno show di Netflix che parla dell’occupazione giapponese di Taiwan. Port of lies, è un legal drama, che parla di immigrazione e altri problemi sociali nella Taiwan contemporanea. E poi Lilium, una band indipendente di Taiwan che unisce diverse lingue e linguaggi.

Suggerimenti davvero molto interessanti, ti ringrazio. Non resta che salutarci, in bocca al lupo per le prossime repliche!

Ilenia Cugis

WAYCEYCUNA – TIZIANO CRUZ

Al Teatro Astra, in occasione del Festival delle Colline Torinesi 2025, è andato in scena, nelle serate del 28 e del 29 ottobre, lo spettacolo Wayceycuna – parola quechua che significa “I miei fratelli”- realizzato e interpretato da Tiziano Cruz, artista noto per il suo lavoro interdisciplinare che unisce teatro e arti figurative.

L’opera, già presentata al Festival d’Avignone, rappresenta la chiusura della trilogia Tres Maneras de Cantarle a una Montana, in cui l’artista compie un tuffo nel passato per raccontare la propria infanzia sulle montagne dell’Argentina settentrionale, intrecciando ricordi personali a riflessioni politiche sulla violenza distruttiva del neoliberismo.

L’artista argentino compare solo sul palco, dietro al disegno delle montagne che si stagliano bianche come la neve nella scenografia, accompagnato dal suono delle campane. E’ così che inizia il suo viaggio: Cruz parla in spagnolo, con accento argentino, la sua lingua madre, mentre sullo schermo, in alto sopra il palcoscenico, compare la traduzione in italiano.

I sensi dello spettatore diventano parte integrante dello spettacolo, e lo aiutano ad immedesimarsi completamente nella scena: la lingua e il canto come parte uditiva, il cambio d’abito e la tavolata come componente visiva.

Ci sono ben tre cambi di vestiario; si passa da un abito coloratissimo a una maglietta con scritto “La ragazza senza denti”, – la cui identità verrà svelata solo in seguito-, fino a un completo totalmente bianco, simbolo del potere. Per mostrarlo, l’artista si mette prima da un lato e poi dall’altro, come per una foto segnaletica: un gesto che rappresenta l’istituzionalizzazione del razzismo e introduce la toccante frase pronunciata poco dopo;

Non importa quante opere faccia, non ascolteranno mai noi poveri emarginati”.

Segue la preparazione della tavolata sul palco, si parla della Festa di Santa Barbara, legata ai riti agricoli, ai cicli della natura e alla collettività. Il fatto che si tratti di una festività associata alla protezione contro la morte improvvisa non è casuale, come gli spettatori scoprono nella parte più toccante, a mio parere, dell’intero spettacolo.

Dopo aver disposto sulla tavola colorata frutta e pane, Cruz aggiunge alcune piccole bambole. Una di queste rappresenta la sorella, Betiana Cruz. L’artista la solleva lentamente, trascinando il pubblico nel racconto della notte peggiore della sua vita.

Nel finale, Cruz stimola anche il senso del gusto; mentre intona le note della canzone Wayceycuna, distribuisce pane e frutta in un rito comunitario, come in una festa.

L’artista non chiede mai empatia nei propri confronti, non si presenta come vittima; utilizza magistralmente la tecnica dello show don’t tell, facendoci entrare nel suo mondo attraverso i sensi e l’arte del teatro, offrendoci la possibilità di riflettere personalmente sull’opera e di trarre ciascuno la propria conclusione.

Per me, assistere a Wayceycuna è stato come sorseggiare un caffè di ottima qualità; la bevanda è inizialmente amara, poiché si parla di morte, di razzismo, violenza sistematica e povertà, per poi raggiungere il suo picco emotivo nella scena della tavola. Ma la conclusione, nell’imitazione di una festa collettiva e gioiosa, dimostra quanto Cruz sia legato alla sua terra nonostante tutto, lasciando quella nota dolce che solo i migliori caffè sanno regalare come retrogusto.

La montagna mi ha visto nascere, ridere e piangere, mi ha visto crescere, mi ha visto andarmene e un giorno mi vedrà tornare.”

Camilla Cucci

Wayqeycuna di Tiziano Cruz

Testi, regia e performance di Tiziano Cruz

drammaturgia di Rodrigo Herrera

con la collaborazione artistica di Rio Paranà

fotografia, musica e suono, coordinamento tecnico, realizzazione foto e video,

disegno luci di Matìas Gutiérrez

costumi e produzione artistica di Luciana Iovane

produzione di Ulmus Gestiòn Cultural

Foto tratta da Latitudes Contemporaines (www.latitudescontemporaines.com)

L’ISPEZIONE – SERGIO ARIOTTI

Il 25 aprile 1911 a Torino si incontrano i destini di due uomini: il primo, Emilio Salgari, scrittore veronese morto suicida, il secondo, Mario Carrara, docente universitario di medicina legale e antropologia, incaricato di occuparsi della salma.

Lo spettacolo ha luogo nel Palazzo degli Istituti Anatomici, esattamente nello stesso posto dove avvenne “l’ispezione” della salma, e da dove partì successivamente, per riposare nel Cimitero Monumentale di Verona.

E poiché il teatro può superare i confini terreni, la salma di Salgari (interpretato da Lorenzo Fontana) e Carrara (Gianluca Gambino) si trovano protagonisti di un dialogo impossibile. Gambino riesce perfettamente a incarnare la personalità di un uomo che, malgrado la stranezza della situazione, cerca di affidarsi alla scienza e alla razionalità per cercare di capire le ragioni del gesto estremo di Salgari. Non solo le difficoltà economiche e famigliari, ma anche i problemi psichici di cui l’uomo soffriva, e che il suocero Cesare Lombroso (di cui Carrara sposa la figlia Paola) aveva studiato nei suoi numerosi scritti.

Fontana, d’altro canto, rende benissimo un Salgari che, non senza una punta di cinismo, può finalmente raccontare il suo lato più fragile e denunciare i torti ricevuti – lo sfruttamento dei suoi editori, la scarsa partecipazione al suo funerale – e di confessare finalmente di essere un viaggiatore mancato, il cui tragitto più lungo fu sull’Adriatico da Verona a Brindisi.

Merita senza dubbio una menzione particolare la regia di Sergio Ariotti, che, con una semplicità disarmante e una scenografia essenziale, riesce progressivamente a focalizzare l’attenzione su Carrara e sul rapporto che questi ebbe col fascismo.

Scandendo i salti temporali tramite l’utilizzo di una lavagna, Carrara confesserà a Salgari i suoi dubbi e i suoi timori relativi all’ideologia fascista, in particolar modo menzionando la campagna militare in Libia, che, invece, sorprendentemente, Salgari difenderà patriotticamente (forse anche per via della partecipazione del figlio Nadir), fino alle ultime scene in cui un arrabbiato Carrara legge la propria dichiarazione di non fedeltà al regime (fu uno dei dodici docenti universitari italiani a farla), pur conoscendo i rischi di chi sceglie di anteporre la propria etica alla convenienza.

Niccolò Casassa

Revisione drammaturgica e regia Sergio Ariotti

Un lavoro teatrale di Aldo Salassa

Interpretato da Lorenzo Fontana (Salgari), Gianluca Gambino (Carrara)

Costumi Augusta Tibaldeschi

Assistente Beatrice Biondi

ENEIDE – PAOLO MUSIO

Uscire dalla visione antologica a cui l’opera è stata a lungo relegata per restituirle invece una dimensione di compiutezza nella sua complessità, questo il proposito che Paolo Musio si pone nel portare una lettura dell’Eneide nella sua quasi totalità al trentesimo Festival delle Colline Torinesi. Andato in scena il 25 ottobre alla Fondazione Merz, Musio, volto che gli affezionati del Festival ricorderanno aver visto già nella ventottesima edizione nello spettacolo itinerante Passage come interprete di un Walter Benjamin in fuga, si trova qui ad evocare ancora una volta la figura di un profugo – del profugo per eccellenza, in questo caso – occupandosi stavolta personalmente dell’intero aspetto realizzativo. Articolandosi in sei segmenti,  la lettura copre, con qualche taglio necessario alle finalità del ritmo, tutti i dodici libri del poema di Virgilio, per una durata complessiva di sei ore (intervalli compresi); una vera e propria maratona, impresa di proporzioni “kolossal” che comprensibilmente mette a dura prova sia pubblico che interprete, ma che si è dimostrata un’allettante sfida per gli spettatori più ardimentosi che hanno voluto assistere all’intero evento dall’inizio alla fine.

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GIACOMO. UN INTERVENTO D’ARTE DRAMMATICA IN AMBITO POLITICO – ELENA COTUGNO

Nell’accogliere gli spettatori, le sale del Museo del Risorgimento di Torino – già sede della prima Camera dei deputati del Regno d’Italia – incorniciano la rappresentazione di Giacomo. Un intervento d’arte drammatica in ambito politico di Elena Cotugno e Gianpiero Borgia, con lo sfarzo di ori, dipinti e lampadari. Nel buio che cala e nel fischiettio che si diffonde, mentre Cotugno si muove tra le sedie, il pubblico è chiamato ad allenare il distacco dal proprio vissuto politico ed emotivo, e a discernere la storia – personale – dalla Storia.
Colpita da una forte luce che le riempie il volto, nel primo segmento l’attrice indossa un abito elegante abbellito da strati di pizzi e una lunga giacca maschile, tiene lo sguardo basso e le ciglia serrate, mentre incarna in sé, come una medium, lo spirito della Storia: uno spirito che si manifesta dal passato e impregna il presente.
La voce dell’attrice produce una reboante melodia di parole che ha il suono di una preghiera, a causa degli immensi spazi del palazzo Carignano. Questi, sono amplificatori e distorsori al contempo: producono delle risonanze in grado di rimescolare i confini delle parole e inducono una vibrazione nello spettatore. L’onda del suono, poi, si dissolve nei pochi lunghi e decisivi silenzi.

Quando il ritmo serrato lascia il posto alla quiete, la mente dello spettatore si riempie di pensieri e riflessioni che ne annichiliscono lo spirito, poiché le domande e le affermazioni dell’Onorevole Matteotti richiamano l’attenzione sull’attualità. I sermoni sulla libera espressione e la libera partecipazione alla vita politica e sociale lasciano intendere che la Democrazia – come istituzione, allora, come ideale, oggi – non sia semplicemente in pericolo, ma svanita.
Ora, il secondo segmento narrativo si anima del vociare e rumoreggiare del Parlamento, mentre tutto il baldanzoso baccano trabocca dal corpo e dall’estensione vocale di una sola artista, Cotugno. Da sé, rimette in scena il circo della farsa fascista, capace perfino di schernire i difensori della Democrazia additandoli come pagliacci attraverso negazionismi, brutalità, intimidazioni e vittimismo. Ecco che i sostenitori del processo democratico si ritrovano paradossalmente derisi quali ultimi figuranti di una messinscena fallimentare e fuori moda.

Nel movimento finale, laddove ogni tensione si scioglie prima dell’applauso, rimane il dubbio di un interrogativo: a chi si rivolge lo spettacolo, chi è l’interlocutore dell’allestimento? Qualora l’intenzione fosse prendere per le spalle e far trasalire le vittime del torpore contemporaneo, che induce all’astensionismo e al boicottaggio dalla partecipazione publica, tali persone si troverebbero a teatro di propria iniziativa o sarebbero piuttosto da stanare, catturare e trascinare in sala?

“Noi abbiamo detto loro: state calmi; non rispondete alle violenze. Lo abbiamo ripetuto in tutti i toni […] Ci hanno detto vigliacchi […] ma nonostante tutto, abbiamo detto: non bisogna reagire. […] Noi andremo a Roma. Noi domanderemo in Parlamento conto di questi fatti, domanderemo se il capitalismo assume la responsabilità del fascismo, domanderemo al governo se assume la responsabilità completa delle sue autorità e dei suoi agenti. Ma se non ci si risponderà […] badate che l’esasperazione è al colmo, badate che anche la nostra autorità sulle masse ha dei limiti, al di là dei quali non può andare”.

Ilenia Cugis

Un ringraziamento a Giulia per avermi inviato la sua copia dei verbali per la citazione a conclusione del pezzo.

Progetto di Elena Cotogno e Gianpiero Borgia
testi di Giacomo Matteotti con interruzioni d’Aula
drammaturgia di Elena Cotugno e Gianpiero Borgia dai verbali delle assemblee parlamentari del 31 gennaio 1921 e del 30 maggio 1924
con Elena Cotugno
costumi Giuseppe Avallone
artigiano dello spazio scenico Filippo Sarcinelli
ideazione, coaching, regia e luci Gianpiero Borgia
coproduzione TB e Artisti Associati Gorizia
con il sostegno della Presidenza del Consiglio dei ministri
con il patrocinio di Comune di Fratta Polesine, Fondazione Giacomo Matteotti, Fondazione di Studi Storici “Filippo Turati” e Fondazione Circolo Fratelli Rosselli

LA VIE SÈCRETE DES VIEUX – MOHAMED EL KHATIB

Al Teatro Astra di Torino, il 15 e il 16 ottobre, per l’edizione 2025 del Festival delle Colline Torinesi, Mohamed El Khatib ha portato in scena La vie secrète des vieux. Frutto di quattro anni di ricerche condotte nelle residenze per anziani in Francia e Belgio, lo spettacolo fonde confessioni personali e ricordi con citazioni letterarie e una drammaturgia essenziale, restituendo al pubblico la verità di chi ha superato i settant’anni.

Sul palco sei anziani, una giovane operatrice e un moderatore hanno parlato senza esitazioni di ciò che di solito resta taciuto: la sessualità nella vecchiaia, l’eros che pulsa ancora quando il corpo si modifica, i desideri che si affacciano ostinati tra passioni sopite e fuochi accesi.

Non c’era nessuna barriera a dividere la scena dal pubblico. Solo uno spazio gentile, quasi domestico, con cinque sedie semplici, un tavolino imbandito con acqua e cibo e una pianta in un angolo. E quando gli interpreti hanno preso posto, il teatro si è trasformato in un luogo di incontro e all’improvviso la sensazione era quella di essere bambini nella casa dei nonni, immersi nella confidenza di un salotto pronto a svelare storie.

Da quel momento si è aperto un flusso continuo: confessioni, ricordi, rivelazioni. A colpire non era solo il contenuto, ma la libertà assoluta e la sincerità rara con cui è stato espresso.

Gli anziani parlavano con coraggio sorprendente, dando voce a ciò che tutti pensano ma che pochi osano rivelare e infrangendo tabù radicati da secoli. Raccontavano la loro prima volta, i desideri che li accompagnano ancora, i corpi che cambiano ma non cessano di esprimere bisogni. Condividevano fantasie audaci, il ricorso a particolari sex toys, la masturbazione, avventure improvvisate, perfino richieste di incontri occasionali. C’era chi elargiva consigli pratici con ironia divertita e chi, dopo una vita di silenzi, trovava il coraggio di un coming out tardivo, confessando amori mai nominati o accettati.

Il corpo che si crede spento rivendicava la sua vitalità, la sua fame di contatto umano. Forse la parte più sorprendente è che non erano loro a provare imbarazzo, ma i figli. Una delle interpreti, Sali, ha chiesto persino che lo spettacolo non fosse mostrato alla propria figlia. Come se la sessualità fosse un privilegio esclusivo della giovinezza. Come se i genitori potessero essere accuditi e dimenticati in una casa di riposo, ma mai riconosciuti come corpi vivi e desideranti.

Ma accanto al desiderio si stagliava timidamente l’ombra della fine, evocata con leggerezza e ironia continue. «Meglio morire in scena che in una casa di riposo», scherzava Jacqueline. Ed è stato inevitabile riconoscere, in quell’equilibrio fragile, l’abbraccio di Eros e Thanatos: il desiderio confessato con innocente audacia e la morte accennata con dolcezza, da chi sa che ogni sospiro potrebbe essere l’ultimo. Sul palco c’era un posto anche per le ceneri di un compagno recentemente scomparso, celebrate con una canzone di Rosa Balistreri, a ricordare che «parlare d’amore significa, inevitabilmente, parlare anche del lutto dei nostri amori».

Simone de Beauvoir, ne La terza età, denunciava l’invisibilità dei corpi anziani; qui, al contrario, quegli stessi corpi si mostravano con fierezza, reclamando il diritto di essere guardati al di là della loro età.

Guardandoli, è stato come se i sei anziani in scena avessero stretto un patto segreto con gli spettatori. In quello spazio così intimo, ogni parola diventava invito e condivisione, eco e resistenza. Era un modo per ricordare che l’amore e l’eros non appartengono a una sola stagione della vita.

Siamo stati travolti da una poesia autentica, fatta di citazioni di Musset e Racine, a cui si intrecciavano lettere d’amore lette ad alta voce, pagine di Shakespeare, canzoni che vibravano come confessioni. Il confine tra il vero e il finto svaniva fino a non avere più importanza: ogni parola era reale, perché detta con la forza della vita.

Così il titolo si è dissolto davanti ai nostri occhi, come neve che si scioglie al sole diventando acqua e poi luce. La vita segreta degli anziani non è mai stata un segreto: è un fiume nell’anima che riemerge, un giardino che rifiorisce, la vita stessa che torna a sorprenderci come un libro che, proprio quando crediamo di averlo finito, ci regala una nuova pagina.

Emanuela Cerino

Uno spettacolo di Zirlib

Concezione e realizzazione Mohamed El Khatib

Con, in ordine di longevità Annie Boisdenghien, Micheline Boussaingault, Marriecke de Bussac, Chille Deman, Martine Devries, Jean-Pierre Dupuy, Yasmine Hadj Ali, Nicole Jourfier, Salimata Kamaté, Etienne Kretzschmar, Jacqueline Juin, Annette Sadoul, Jean Paul Sidolle

Drammaturgia e coordinamento artistico Camille Nauffray

Scenografia e collaborazione artistica Fred Hocké

Video Emmanuel Manzano

Suono Arnaud Léger

Direttore di produzione Gil Paon

Produzione Zirlib

Coproduzione Festival d’Automne à Paris, Points communs – Nouvelle scène nationale Cergy-Pontoise-Val d’Oise, Théâtre National Wallonie-Bruxelles, La Comédie de Genève, Théâtre national de Bordeaux en Aqui-taine, Théâtre national de Bretagne (Rennes), Tandem Scène nationale d’Arras-Douai, MC2: Grenoble Scène nationale, La Comédie de Clermont-Ferrand Scène nationale, Théâtre Garonne Scène européenne (Toulouse), Festival d’Avignon, Théâtre du Bois de l’Aune (Aix-en-Provence), Équinoxe Scène nationale de Châteauroux, Théâtre de la Croix-Rousse (Lyon), La Coursive Scène nationale de La Rochelle, Espace 1789 – Saint-Ouen, Théâtre de Saint-Quentin en Yvelines Scène nationale, Le Channel – Scène nationale de Calais.

Accoglienza in residenza Le Mucem – Marseille, CIRCA La Chartreuse

IGIRL- FEDERICA ROSELLINI

Noi, gli aborti di Dio

Eccoci qui. Noi. Gli aborti di Dio. Poche luci illuminano lo spazio che come una passerella sembra fare da ponte tra quello che siamo e quello che è stato di noi sin dai tempi più antichi. Infatti eccoci riuniti a rivivere tutte le tappe che hanno portato la specie umana, personificata in una donna, a diventare una creatura complessa come la conosciamo oggi. I segni del passato sono tatuaggi cicatrizzati sul corpo dell’attrice come disegni del destino che inesorabilmente compie il suo corso. È impressionante la dolcezza con cui Federica  Rosellini li indossa, senza alcun tipo di giudizio né retorica. L’attrice si mostra nella sua semplicità di donna che ha vissuto sul suo corpo la storia di Antigone, di Edipo, di Giocasta, di Persefone, è stata una donna che perde suo padre, è stata un corpo sacrificato. La Rosellini diventa una bomba vivente portatrice dei traumi e delle catastrofi di tutti i tempi. Il suo corpo ricorda cosa significa essere stati un uomo di Neanderthal e ci mostra come quell’uomo  sia ancora inesorabilmente parte di noi e del nostro essere.  

Ogni persona che assiste a questa videocassetta live sulla storia dell’umanità è illuminata in controluce dando vita a una scenografia fatta di teste , anime che assistono a questo rito di autoriconoscimento.

La loop station in scena rimanda a un mondo in cui è lo stesso umano a creare la sua colonna sonora personale, fino a crearne una corale che accompagna e dà un ritmo al movimento del mondo.

La voce che sentiamo è sempre di questa donna che è direttamente collegata con la voce della Luna, con quella di nostro padre, quella della Terra, del ghiaccio, della sabbia dei tempi primordiali. La scienza e la poesia di Marina Car si intrecciano violentemente con la personalità artistica di Federica Rosellini. Lei porta una testimonianza, è la prova vivente che esistiamo, che le donne sono sempre esistite e il mondo non gli è mai appartenuto e probabilmente non gli apparterrà mai.

Eppure eccoci qua, tutti ad ascoltare lei, che con le parole scritte e tradotte da altre formidabili donne, si assume la responsabilità di incarnare l’umanità. Nonostante tutto.

Il teatro in cui ci troviamo sembra improvvisamente la scena di un mondo post apocalittico, in cui , prima di morire, l’umanità ha la possibilità di guardare per l’ultima volta quello che è stato e decidere come andare avanti. È emozionante il legame uomo-tecnologia-natura che emerge dalla relazione tra l’attrice e la sua gallina domestica. È reale il loro legame? O si tratta di un’illusione in cui l’attrice domina i movimenti dell’oggetto tecnologico nel ricordo di una natura che non è più?

Marina Car sembra volerci gridare che il nostro antropocentrismo è in rotta di collisione contro una natura più potente. Forse questo è un viaggio di ritorno alle origini come quello di Persefone che ciclicamente ritorna giù nel mondo dei morti, dichiarando che la sua assenza non è un fatto personale, ma genetico. È la nostra genetica che ci riporta a quello che siamo stati. Sento le mie costole aprirsi ed espandersi di fronte al corpo nudo della Rosellini che ai miei occhi si trasforma nel tenero corpo di un cerbiatto sacrificato. Non siamo altro che questo: cerbiatti sgozzati per volere di un dio. 

Irene Mori

di Marina Carr

traduzione Monica Capuani e Valentina Rapetti

performer e regia Federica Rosellini

video Rä di Martino

musica originale Daniela Pes

sound designer GUP Alcaro

costumi e tatuaggi Simona D’Amico

light designer Simona Gallo

scenografia Paola Villani

dramaturg Monica Capuani

aiuto regia Elvira Berarducci

assistente alla regia Barbara Mazzi

in collaborazione con Festival delle Colline Torinesi

coproduzioneTPE – Teatro Piemonte Europa, Teatro Stabile Bolzano, Elsinor – Centro di Produzione Teatrale

sostegno e debutto nazionale Romaeuropa Festival

diritti di rappresentazione a cura di THE AGENCY (London) LTD

Inside iGirl: iChick. Punti di vista semi-motorizzati

Non so dire con precisione se il primo momento in cui ho avuto un pensiero sia stato quando l’ultima componente è stata fissata e il cavo di alimentazione inserito in quello che altrimenti sarebbe stato un orifizio dedicato ai bisogni biologici. Poiché, se mi concentro e ricorro alla memoria, ho la nitida certezza di aver iniziato a percepire dapprima, vale a dire in fase di costruzione. Ricordo la sensazione delle lisce piume color crema e caramello venire pazientemente incollate al mio corpo semi-rigido. Posso richiamare alla mente l’ancoraggio del collo mobile e lo snodo di personalità che questa articolazione meccanica ha dato alla luce. 

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HISTORIA DEL AMOR – AGRUPACIÓN SEÑOR SERRANO

Affronta l’impossibile compito di capire cosa sia l’amore
Organizzereste mai un viaggio sapendo che non ha destinazione?
E chiedereste a trecento persone di salire su quell’aereo con voi?

Agrupación Señor Serrano con lo spettacolo di apertura del Festival delle Colline Torinesi presso TPE Teatro Astra ci propone un’esplorazione che nasce in silenzio. L’attrice in scena tiene lo sguardo fisso in camera e sul fondale viene mostrata la sua proiezione. Un volto innamorato, che sorride e non smette di guardare l’amante immaginato, sempre più vicino e poi dentro di lei. Iniziare a sentirsi in connessione con la protagonista della scena e percepire i propri muscoli del viso seguire il movimento dei suoi, per poi essere interrotti e riportati alla realtà da alcune domande pronunciate da una voce fuori campo: perché amiamo? E perché amiamo nel modo in cui amiamo? Quand’è emerso l’amore per la prima volta? Esisteva 100 milioni di anni fa?  

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