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DALL’UNIVERSO DI TUTTO BRUCIA, ECUBA E CASSANDRA BY MOTUS

TRA CONTRAPPUNTO E DISARMONIA

Occorre sbarazzarsi del cattivo gusto di voler essere in accordo con tutti. Le cose grandi ai grandi, gli abissi ai profondi, le finezze ai sottili, le rarità ai rari

(Friedrich Netzsche)

Come ci suggerisce Marianna Tomasello “L’idea che l’universo sia un tutto ordinato e ben connesso in ogni sua parte è un tratto comune al pensiero cosmologico greco […] La convinzione che l’universo sia strutturato secondo delle regole e proporzioni precise è rintracciabile già nei miti cosmologici che tengono inoltre conto che l’ordine stabilito dal dio sia un ordine opportuno e, accordando ogni elemento al suo interno, sia conveniente e miri a un fine”.

Quest’idea greca del cosmo come “ordinato”, “proporzionato” e “accordato” si organizza attorno a dei modelli che toccano diversi ambiti semantici ma il più diffuso che assume un posto di rilievo per la vastità di letteratura a riguardo è l’ARMONIA intesa in senso musicale.

Ma nel caso specifico della tragedia “la musicalità” dell’universo non è mai rappresentato attraverso l’immagine familiari dell’armonia delle sfere: i termini che la esprimono rimandano piuttosto alla sfera del canto e a quell’idea del potere magico della parola, che trova dimostrazione in quella capacità reificante della parola del dio.

Tomasello prosegue dicendo che nei processi di simbolizzazione, propri del pensiero tardo arcaico, si pongono le basi per una rappresentazione del mondo secondo i termini delle scienze musicali sottolineando questa particolare attenzione al canto.

Questa premessa diventa interessante nel momento in cui ci troviamo ad analizzare i due spettacoli dei Motus: You were nothing but wind e Of the Nightingale I envy the fate che ci propongono l’approfondimento di due importanti figure femminili della tragedia greca che arrivano da quell’universo apocalittico delineato in Tutto Brucia in cui veniva brutalmente mostrato il mondo de Le troiane di Euripide.

I due lavori proposti decidono di indagare ognuno la linea narrativa di un personaggio, approfondendo il mondo interiore di Ecuba in You were nothing but wind e di Cassandra in Of Nightingale I envy the fate.

Partiamo per entrambi gli spettacoli da un assunto comune: il “mondo” dal quale provengono Ecuba e Cassandra è ormai bruciato. Persino il loro legame di madre e figlia è ormai estinto, tanto da doverle indagare separatamente senza più alcun nesso tra loro. Entrambe profanate nel corpo e nello spirito vivono l’impossibilità di un risanamento. Quest’ordine perduto per sempre porta a uno stravolgimento del sé, che si concretizza nell’unico atto possibile: il “suicidio” dell’umano. Questo scenario apocalittico produce un universo disarmonico in cui la parola non solo non è più magica, incapace di reificare, ma perde ogni scopo: in assenza di un dio, in assenza dell’uomo, non è più musica, non è più canto.

Quindi che rimane? Cosa ancora una volta può emergere da quelle ceneri, “pronta a testa bassa a continuare, perché ancora una volta, non era previsto che sopravvivesse”?

La bestialità.

Come si legge nell’Ecuba di Euripide, alla fine la donna accetterà di essere trasformata in una “cagna dagli occhi di fuoco”, sostituendo alle parole/canto dissonanti latrati.

Questo latrato cacofonico stona e risulta sgradevole all’udito, proprio perché rappresenta una trasgressione alle regole sia della prassi musicale che della forma tradizionale del genere poetico. Ma il mancato rispetto di un sistema di riferimento comunemente accettato costituisce un elemento di disturbo che ha l’effetto di risultare estremamente sgradevole e irregolare, esattamente come estremamente sgradevoli e irregolari sono state le vicende vissute da Ecuba. Quindi in questa demoniaca trasformazione in cui l’usurpatore vince persino la natura umana di Ecuba, il suo latrato è un atto di ribellione che vuole apertamente contrapporsi all’ARMONIA di un sistema ingiusto.

Nei testi della letteratura greca il “canto” di Cassandra è spesso paragonato a quello di un usignolo perché come quella dell’uccello anche la sua voce è forte e acuta, non solo per dar sfogo al dolore, ma perché vuole o deve farsi sentire. Nello spettacolo la metamorfosi animalesca fa sì che le parole/canto delle sue profezie vengano tramutate in acuti cinguettii di usignolo. Un usignolo a cui sono state strappate le ali e a cui è impossibile fuggire, condannato a strisciare nella terra come condizione che non gli appartiene. L’acutezza del suono, insieme alla forte emotività che lo connota, è funzionale perciò ai contenuti che si vogliono veicolare, e come per Ecuba questa scelta formale costituisce nello stesso tempo impossibilità di comunicazione verbale che diviene cifra espressiva.

Par ch’abbia entro le fauci e in ogni fibra

rapida rota o turbine veloce.

Sembra la lingua, che si volge e vibra,

spada di schermidor destro e feroce”.

(da Canto dell’usignolo di Giovan Battista Marino)

Nel flyer che accompagna lo spettacolo dedicato a Cassandra si legge che stiamo assistendo a una “performance-grido” che precede l’ingiusta uccisione della giovane. All’interno della sua maledizione di profeta non creduto, il grido di Cassandra diviene non solo contrappunto che si sviluppa come linea melodica indipendente rispetto a ciò che accade, in quanto deve ancora accadere, ma è al contempo un canto funebre, una lamentazione che ella intona per se stessa.

Un altro elemento che accomuna entrambe le performance è la scelta di connotare i personaggi all’interno di una dimensione che evoca antichi rituali sciamanici, come dichiarato nello stesso flyer dello spettacolo su Cassandra:

Un rito sciamanico dove si fondono la stereotipica fragilità femminile e il suo spirito di vendetta infuocato, le funeste visioni del futuro, come la prodezza animale, l’eleganza del gesto e dello sbattere di ciglia […] in dialogo con una luce mobile (d’oltremondo?) che la insegue e la sfida.

In questi scenari post-umani il tentativo di ricorrere ad un tramite sciamanico, che come è noto utilizza spesso nei suoi riti elementi musicali, per risanare l’insanabile, lo ritroviamo anche nello spettacolo dedicato a Ecuba. Pensiamo infatti alla scelta di mettere il pubblico in cerchio attorno a un cumulo di cenere dal quale emerge, non come fenice, ma come animale ferito, relitto, sopravvissuto, la “cagna” Ecuba.

Immaginatevi seduti in un cerchio con gli altri membri della vostra comunità. Vi siete raccolti insieme per sostenere un membro della comunità che sta soffrendo a causa di una esperienza traumatica. Sapete che una persona sta soffrendo e che la malattia va ad influenzare l’intera comunità. Così sei arrivato per aiutare e per mantenere sacro lo spazio, affinché avvenga la guarigione.

(in merito allo sciamanesimo in Recupero dell’Anima. Guarire il Sé Frammentato di Sandra Ingerman)

Ma all’interno di questa circolarità e nonostante il tentativo di Ecuba di avvicinarsi al pubblico con l’illusione di trovarci uno sciamano tramite di guarigione, la salvezza è una chimera. Intanto perché noi non siamo la comunità a cui Ecuba appartiene, comunità che è stata annientata, ed è chiaro il nostro totale disinteresse a farla entrare nel cerchio della nostra comunità. Lei infatti non siede accanto a noi, si pone difronte a noi con le sue ferite esposte, urlante, con quei dissonanti latrati. Non nostro il compito di una sua ipotetica guarigione, né tanto meno vogliamo assumercene la responsabilità.

Al massimo proviamo compassione là dove non sentiamo ribrezzo, per quell’essere intenzionalmente sgradevole che manifesta così il suo ultimo atto di protesta. E l’intervento del deus ex machina arriva come atto risolutivo nei confronti del nostro dramma interiore di spettatori, non per quello di Ecuba, che si è già risolto ancora prima di emergere da quelle ceneri. Il dramma è il nostro ed è in quella battaglia tutta interiore di vincere quel turbamento di dover condividere uno spazio così angusto ed intimo con la sgradevolezza di un reietto. Quel turbamento nell’essere costretti a non poter distogliere lo sguardo da quelle oscene ferite.

Quindi l’arrivo di un uomo in tuta da lavoro che con una spazzatrice tira via quello che rimaneva delle ceneri e ciò che rimaneva della stessa Ecuba, salva noi dall’imbarazzo. Adesso il campo è sgombro, è finita, possiamo ritornare al nostro ordinato e armonico orticello, ripulito dal putrido fogliame, incapaci come siamo di imparare alcuna lezione, nonostante i recenti avvenimenti. Incapaci di comprendere che dalla “salvezza”, dalla “guarigione” dell’altro dipende anche la nostra.

Destinati all’estinzione perché troppo incivile e selvatico ci appare il talento, in fondo atavico, dello sciamano.

Nina Margeri

Per i riferimenti agli spettacoli si rimanda ai rispettivi link:

You were nothing but windhttps://www.motusonline.com/en/tutto-brucia/you-were-nothing-but-wind/

Of the nightingale i envy the fateOf the nightingale I envy the fate | Motus (motusonline.com)

TST – Aspettando la nuova stagione riflessioni su quella passata

Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo

(da Anna Karenina di Lev Tolstoj)

Nella scorsa stagione del Teatro Stabile di Torino abbiamo assistito a diversi spettacoli che hanno avuto al centro rapporti familiari, ovviamente quasi sempre conflittuali. Del resto si dice che non sia possibile raccontare una buona storia senza un buon “conflitto” e quale contenitore migliore se non quello della famiglia, per generarne di enormi e sorprendenti. Lo avevano capito molto bene i greci che da “divini” conflitti familiari hanno fatto scaturire l’intera esegesi dell’umanità.

Tra i rapporti familiari più complicati, e probabilmente per questo di maggiore interesse, rimane il più ancestrale tra tutti, quello tra genitori e figli. Ed è proprio questa la relazione al centro dei due spettacoli che vorrei provare a mettere a confronto: Da lontano – chiusa sul ripianto monologo/dialogo scritto e diretto da Lucia Calamaro e interpretato dalla brava Isabella Ragonese; e il ben noto testo di Euripide Ifigenia, uno spettacolo corale diretto e interpretato, tra gli altri, da Valerio Binasco nel ruolo di Agamennone.

Partiamo subito dal riconoscere che entrambi questi spettacoli sono animati da rapporti familiari conflittuali, che sono in realtà il pretesto attraverso il quale si svela una tematica più profonda che è il vero minimo comun denominatore delle due pièce: “la condizione femminile devastata da una società oppressiva e giudicante”, come si legge nella stessa nota dello spettacolo Da lontano. Di particolare interessante è il modo che hanno trovato i due registi di mettere in scena questo tema perché risulta perfettamente identico nella sua specularità. Del resto stiamo parlando di due punti di vista completamente e inevitabilmente diversi, quello maschile di Binasco e quello femminile di Calamaro. In un viaggio che procede dall’interno all’esterno, dal privato al pubblico per quel che riguarda il punto di vista maschile; dall’esterno all’interno, dal pubblico al privato, per quel che riguarda il punto di vista femminile. Dove ragioni pubbliche hanno la meglio sull’animo maschile e ragioni private su quello femminile.

Da lontano – chiusa sul ripianto, nonostante racconti una storia contemporanea, un dramma intimo che riguarda la relazione tra una madre e una figlia, in realtà come abbiamo detto, pone l’accento sulla condizione femminile come qualcosa, come dice lo stesso titolo, che arriva “da lontano”. Un retaggio che troviamo già nei miti greci, in pensatori come Aristotele o in drammaturghi come lo stesso Euripide, ed è proprio in questo che i due spettacoli rivelano un’identica sostanza.  Ma Calamaro parte da un “oggi”, che è ben rappresentato da quel male simbolo della società contemporanea: la depressione, per arrivare a un passato atavico, quel “lontano”, padre di un condizionamento sociale, culturale che è arrivato immutato fino a noi. Un passato che ha avuto come conseguenza estrema l’accettazione, per non dire la pretesa, della sempre totale disponibilità del sacrificio della donna per gli uomini. Nella stessa nota già citata si legge di un “monologo […] sul mondo femminile devastato da una società […] che impone alla donna ruoli limitanti, nei quali ci si sente in trappola fino a non riconoscersi più…”, sottintendendo un andare in pezzi, uno “smembrarsi” o un essere smembrati come atto dovuto (inevitabile non pensare a Ifigenia).

Dal canto suo Binasco proprio nell’Ifigenia procede in maniera inversa, ovvero parte da una storia “lontana”, con il fardello di aspettative formali che una scelta del genere comporta, come scrive lui stesso nella nota di regia, ma “prendendosi la responsabilità” di raccontare, da uomo contemporaneo, con una sensibilità contemporanea, una storia che vuole essere contemporanea. Sempre nella nota di regia si legge infatti:

“Grazie al fatto che sono un uomo del mio tempo che del suo tempo vuole parlare, ho invece ben presente soprattutto la concretezza psicologica contenuta in questa antica favola tragica, e voglio assumermi tutte le responsabilità nel tutelare questa sensibilità contemporanea, essendo in qualche modo certo che la nostra condizione umana è sempre e comunque illuminata dalla rappresentazione mitica…”

Quindi da un lato abbiamo Binasco che mette in atto un processo attraverso il quale tende a smitizzare la “favola tragica”, proponendo, attraverso quella “concretezza psicologica”, non archetipi, modelli, con cui siamo abituati a confrontarci quando ci accostiamo al mito ma complessi esseri umani con tutte e in tutte le loro sfaccettature. Dall’altro in Da lontano avviene il processo inverso grazie al quale, più che ricorrere a una “concretezza psicologica” si ricorre a una “concreta analisi psicologica” che tenta di sciogliere quella complessità dell’essere umano per trarne modelli, archetipi, più facilmente riconoscibili, che possono essere più facilmente compresi, ascoltati e per questo perdonati. Viaggi diametralmente opposti che da un lato portano verso la malattia, la schiavitù, l’impossibilità di liberarsi dalle proprie uniche e specifiche passioni, senza la pretesa di essere un modello, un viaggio anti-catartico da un lato (in questo consiste la demistificazione di Binasco) e dall’altro un viaggio che porta, all’opposto, ad una salvezza, una guarigione che scaturisce proprio dall’analisi di una mente lucida e razionale che guarisce nel momento in cui riesce a liberarsi da quel groviglio di passioni che gravano come ipoteca del passato sul cuore di una donna (intesa come archetipo).

Dal punto di vista della messa in scena anche qui scelte simili, all’insegna della semplicità e del togliere. In entrambi i casi, scene e costumi dalle linee pulite, pochi gli oggetti di scena, pochi i colori e tutti molto tenui e neutri con alcune eccezioni studiate ad hoc, anche se in Binasco assistiamo a un rigore maggiore nella scelta di far persino a meno del palco che se da un lato risulta coerente con quest’ottica della sottrazione, dall’altro è decisamente in linea con secoli di tradizione tragica. L’azione infatti è collocata al centro di un grande spazio rettangolare, il pubblico è distribuito su spalti laterali che costeggiano i lati più lunghi di quello che è a tutti gli effetti un teatro di posa ridotto all’essenza, “spoglio di richiami visivi fini a sé stessi” come dichiarato nella stessa nota di regia. Questo spazio vuoto viene attraversato dai molti personaggi che lo riempiono con i loro stati d’animo che contengono già dall’inizio quel pathos, quel “dolore estremo” in un viaggio che come abbiamo visto procede da uno spazio interno-privato, l’intimo dell’animo di Agamennone, a uno spazio esterno-pubblico che trova la sua massima platealità in quell’urlo silente di madre.

Anche in Da lontano abbiamo la voce silente di una madre, una madre che non vediamo mai ma che incombe più di un personaggio in carne e ossa e che vive in quell’unica figura presente in scena, quella della figlia, che sembra in grado, proprio perché modello/archetipo, di riflettersi e moltiplicarsi. Perché in questo processo di analisi, quell’unico personaggio in scena, per potere essere compreso, e nello stesso tempo per comprendersi, deve essere scomposto. Su questa figlia grava una sorte analoga a quella di Agamennone: vivere “quel dolore estremo” all’infinito, perpetuato dal senso di colpa di non essere riuscita, per motivi del tutto diversi da quelli di Agamennone, a salvare la persona amata. Ma mentre la figlia di Da lontano, in quanto bambina, non aveva né il potere né i mezzi per salvare la madre e una volta che comprende questo si perdona e guarisce, Agamennone al contrario ha sia il potere che i mezzi per salvare Ifigenia ma sceglie di non farlo condannando sé e la sua famiglia alla dannazione eterna.

In entrambe le storie viene sovvertito l’ordine naturale delle cose in cui, almeno fino a un certo punto della vita, dovrebbero essere i genitori ad aiutare e a prendersi cura dei figli fino a che non si arriva ad un momento in cui questi ruoli tendono ad invertirsi.

Inoltre, per tonare al tema più profondo, se è vero che ogni famiglia infelice è infelice a modo suo è altrettanto vero che nonostante il passare dei secoli e i molti diritti conquistati, la donna, ancora oggi, rimane pesantemente e inesorabilmente sacrificabile.

Nina Margeri

ORESTE – VALERIO BINASCO

In chiusura della stagione 2021/2022, in uno spazio quasi ultraterreno, dall’aspetto infinito, assistiamo a un esperimento (estremamente ben riuscito), intitolato Ifigenia e Oreste, scritto, diretto e interpretato da Valerio Binasco. Un adattamento quasi atemporale di due delle più grandi tragedie mai scritte, analizzate in chiave squisitamente moderna, ma pur sempre universale. Un progetto che sembra farsi pioniere, sotto ogni punto di vista, di un nuovo modo di fare teatro, di un nuovo modo di raccontare.

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“Le Baccanti”. Chi è Dioniso?

Dio è morto. Ma quale Dio? Nietzsche lo ha constatato. Tutto il nostro mondo, la nostra cultura deve fare i conti con questa morte. Noi tutti, figli di Cadmo, lo abbiamo ucciso e la modernità ha preso il sopravvento. Siamo in grado di contrastare la sua rabbia feroce? Il teatro è ancora il luogo dove un dio può prendere vita?

Dopo  Fedra di Seneca, partendo dalla domanda “Chi è Dioniso?”, il regista Andrea De Rosa prosegue la sia indagine sui classici, mettendo in scena un adattamento della tragedia di Euripide, Le baccanti, in data 5 dicembre 2017, al teatro Carignano di Torino. Una produzione Teatro Stabile Torino, Teatro Stabile Napoli e Fondazione Campania dei festival.

Un linguaggio antico che parla alla nostra modernità, alle sue contraddizioni ed incongruenze. Il mondo di Tebe come metafora di una ipotetica metropoli  di un mondo postmoderno, in cui si cerca di alienarsi dal mondo circostante, essere altro da sé.

Dioniso è colui che accompagna verso i confini dell’anima, confini che non si raggiungeranno mai. Spinge gli uomini ad abbandonarsi, a strapparsi di dosso la propria identità, costruita faticosamente. È un Dio portatore di doni: il vino, la droga, la danza, le allucinazioni, ma soprattutto il lenimento del dolore. Esperienze che vivono gli adolescenti. Per questo, Dioniso è un dio adolescente che si rivolge a loro. Gli adolescenti si trovano nella situazione di non sapere chi sono e in questa fase complicata, quel dio porta loro sollievo, unico modo per non sentire il dolore della crescita. Tematica più che attuale.

foto Marco Ghidelli

Dioniso è interpretato da una donna, l’attrice Federica Rosellini,  già assistente alla regia di Luca Ronconi per Panico, attrice di molti spettacoli teatrali tra cui Santa estasi di Antonio Latella, e attrice di cinema premiata a Venezia. Una scelta che si è rivelata giusta. Si ha veramente la sensazione che Dioniso sia in scena. Capelli lunghi biondi che cadono sul seno coperto appena da una velo trasparente, e dei jeans scuri completano questo dio moderno che con la sua voce deve penetrare nelle persone, ammaliarle e comandarle verso l’irrazionalità più sfrenata. La scelta di Dioniso al femminile sottolinea meglio la natura bisessuale di questo dio e l’attrice riesce a condensare insieme la parte più femminea e fanciullesca del dio, con l’altra più violenta e feroce. L’insieme di questi due aspetti aumenta il livello di tensione erotica, che raggiunge il  massimo grado nel rapporto tra Penteo e il dio. Un erotismo con una vena infantile, sì violento, ma anche ferito. Dioniso è un personaggio bestiale solo nella forma più genuina del termine: è stato strappato dal grembo materno e risente di questa mancanza.

Penteo allora è il suo doppio, con le sue ossessioni. Anche lui è privo della madre, Agave, preda di Dioniso, ormai a capo delle baccanti a condurre una vita istintuale e selvaggia. Sicuramente ha qualcosa di represso: tentato e pieno anche lui di Dioniso, vorrà vedere la madre posseduta. Penteo deve morire per aver osato mettersi contro il dio. Così questi  lo punisce, ma non prima di avergli fatto provare l’abbandono dei sensi, l’irrazionalità, l’amore carnale, non prima di avergli fatto sentire chi è Dioniso. A interpretare Penteo è Lino Musella, non benissimo, perché viene accentuata troppo la parte influenzabile,  corruttibile, repressa di un re che non sa fare il re, come se fosse un ingenuo che viene abbindolato dal primo venditore che vede. Manca, o meglio, è un po’ sbrigativa la congiunzione tra quando Penteo è un re che non vuole sottomettersi al dio, e quando invece cade preda di questi. Invece, reso molto bene da Dioniso-Rosellini l’atto di possedere il re, avvicinandosi lentamente e poi arrampicandosi con movimenti ferini sul trono per  trasformarlo.  Penteo in primis è un re di una grande città, Tebe, e per questo deve proteggerla dalla nuova “moda”, dal nuovo culto che si sta diffondendo a causa di Dioniso. Lui sa chi è, al contrario di chi ha perso coscienza di sé, è per questo è saldo, forte e non deve cedere al dio. Tuttavia, verrà  anche lui ammaliato perché Dioniso agirà sul  suo lato più insicuro, rivelando a Penteo il suo bisogno di perdersi. Tale passaggio poteva essere reso con più efficacia. Infatti, solo l’atto finale di questa trasformazione è reso bene, con Penteo che, vestito con abiti da donna,  va verso la morte per la propria curiosità, mentre Dioniso, seduto sul trono di Tebe, osserva il suo prodotto e si prepara a finire la sua vendetta.

foto di Marco Ghidelli

Gli altri personaggi Cadmo e Tiresia, rispettivamente Ruggero Dondi e Marco Cavicchioli, sono due figure grottesche, due furbi. Il primo è pronto a trarre profitto da questo nuovo culto di Dioniso e il secondo è un opportunista. Incitano il popola a perdersi, e danzano mentre si compirà la tragedia. Sono dei finti folli contrapposti ai veri folli, come Penteo o la madre Agave, interpretata da Cristina Donadio. Una madre che uccide il figlio, posseduta dal dio, in una caccia di belve tra belve. Una testa cullata tra mani, trofeo di guerra, protetta e riconosciuta solo dopo il parto. Una madre che partorisce un figlio. Morto. Questo parto è un parto di Dioniso, del dio, un parto morto, una metafora per dimostrare come noi nasciamo già morti, ma anche metafora ribaltata della condizione di un dio che è morto. Un parto non molto chiaro nell’immediato, ma a cui una riflessione successiva contribuisce a dare forza espressiva e semantica. “Agave la si può immaginare come le ragazze madri, o le donne degli anni ’70, dove non c’erano limiti”, ci dice l’attrice Cristina Donadio. Alla fine, Dioniso dirà basta e tornerà al suo mondo selvaggio.I personaggi non hanno un carattere vero e proprio, sono follia, maschere. Dioniso offre a tutti la  possibilità di mascherarsi. Non ci sono caratteri, ma solo corpi. Corpi seminudi, sporchi, insanguinati, vestiti con indumenti trasparenti e color carne altrettanto sporchi, tacchi al posto degli zoccoli: la natura  selvaggia di questi corpi è evidente.

Lo spettacolo inizia con Dioniso che si presenta, mentre dispensa  piacere con  la sua voce ammaliatrice, come se fosse un cantante su un palco di un rave party mentre canta e urla in un escalation sempre più forte, e la sue baccanti ballano, perse, fino a che hanno forza. Dioniso è il marionettista che con la sua voce, il vino, la droga, fa danzare le sue marionette.  In fondo al palco si intravede il rito, l’orgia in onore di Dioniso. Una parete fatta di casse acustiche rimanda la musica  allucinatoria di Dioniso. Un suono di basso continuo che dura per quasi tutto lo spettacolo, interrompendosi solo quando Penteo viene ucciso, ma che poi ricomincia, perché la musica di Dioniso non termina mai. Un suono ossessivo che investe anche lo spettatore e lo fa immergere in quel rito che si sta compiendo sul palcoscenico, fino al punto di non accorgersi più di quella musica. Lo spettacolo è tutto giocato sul ritmo e gli attori recitano in modo antinaturalistico seguendo sempre il tempo  della musica. Così come è  arrivato a Tebe, ora Dioniso se ne va, dopo aver compiuto la sua vendetta contro un re e un popolo che hanno osato sfidare  il dio, peccando di “ubris”. Nulla può fermare Dioniso, perché tutti hanno bisogno di lui.

foto di Marco Ghidelli

Un adattamento ben fatto e non didascalico, in cui emerge con chiarezza il paragone con il nostro mondo. Una tematica attuale: noi siamo tentati da vari rimedi facili per alleviare il nostro dolore e abbiamo bisogno di estraniarci dalla razionalità, dalla realtà che ci circonda per fermare per un attimo un tempo che ha visto la morte di Dio causata da noi stessi. Dioniso è in noi, lo abbiamo reso indispensabile.

Emanuele Biganzoli

 

Autore: Euripide

Adattamento e regia: Andrea De Rosa

Attori: Marco Cavicchioli (Tiresia), Cristina Donadio (Agave), Ruggero Dondi (Cadmo), Lino Musella (Penteo), Matthieu Pastore (Messaggero), Irene Petris (Coro), Federica Rosellini (Dioniso), Emilio Vacca (Messaggero), Carlotta Viscovo (coro), allieve della scuola teatrale del Teatro Stabile di Napoli Maria Luisa Bosso, Francesca Fedeli, Serena Mazzei (Coro)

Scene: Simone Mannino

Costumi: Fabio Sonnino

Luci: Pasquale Mari

Musiche originali: G.U.P. Alcaro e Davide Tomat

Produzione: Teatro Stabile Torino, Teatro Stabile Napoli, Fondazione Campania dei Festival