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SECOND LOOK

“Un altro sguardo”

Bisogna perdersi per ritrovarsi, talvolta ci si perde, però, nella speranza che possa trovarci qualcun altro, magari chissà, attraverso “un altro sguardo”, un Second look. Articolata in 10 cortometraggi, la proiezione di  Second look  attraversa la quarta parete come un proiettile, seguendo il file rouge di Hartaqat, con la prospettiva del dover “nascere due volte”. Un concetto che esprime una memoria costretta ad essere labile, talvolta inutile e che spesso, risulta appartenere più agli altri che a noi stessi. I ricordi costituiscono la nostra identità, quella di Rabih è stata in qualche modo profanata, il suo tentativo di raccogliere un gran numero di immagini, sembra restituirgli sembra restituirgli quella giustizia, per sè e per i soggetti ritratti nelle foto, che ha l’intenzione di sanare un vuoto che rimarrà incolmabile, un’esigenza, quella di Rabih, di collezionare quelle foto in bianco e nero, con cui crea un profondo legame empatico.

Lina Majdalanie e Rabih Mruoè sono due registi libanesi, naturalizzati francesi, coppia nel lavoro e nella vita ma sopratutto artisti, che oserei definire completi, per la maestria con la quale legano fra loro diverse arti, creando il proprio teatro contemporaneo. Utilizzando infatti strumenti, quali immagini, parole, musiche, strumenti musicali, luci, voci e proiezioni, miscelandoli armoniosamente. Un teatro il loro, di un impatto non indifferente, lo testimonia la quantità di pubblico che apprezza e lavora sulle loro opere, come hanno fatto Maddalena Giovannelli, Alessandro Iachino e Renato Palazzi, dedicandogli il terzo numero della trilogia Stratagemmi, della rivista Act. I temi sono spesso forti e profondi e per questo necessitano degli eventi collaterali del Festival delle Colline Torinesi, che aiutano a spiegarne gli intrecci ed i messaggi principali, seppur siano ben chiari nello svolgersi degli spettacoli.

 Qual è il ricordo, del vostro percorso artistico al quale siete più legati?  Questa è la domanda che ho posto ai due registi, al termine dell’ incontro al Polo del ‘900, il 12 Ottobre << ci sono tanti ricordi nel mio percorso artistico, non ho un’ottima memoria devo dire>> dice Rabih ridendo << penso però che di tutti questi anni, il ricordo più bello, sia stato quello di “far cambiare lo sguardo”>>. La risposta di Rabih chiarisce e rafforza ulteriormente l’obiettivo della loro arte, la quale, esercitata insieme o separatamente, ha l’obiettivo comune di regalare quel Second look, “altro sguardo” che li contraddistingue. Il profugo, tema chiave di questo 28° Festival delle Colline Torinesi, con paese ospite il Libano, è colui che fugge da una realtà crudele per la  quale è costretto a rinunciare alle proprie radici, dovendosi sradicare da tutto ciò che gli è appartenuto fino ad allora, rifugiandosi in un nuovo paese che, al costo di perdere ciò che gli appartiene, possa donargli la libertà, sia essa fisica, morale o d’espressione. Lina Majdalanie e Rabih Mroué, in questa proiezione ci insegnano a parlare di noi stessi attraverso le esperienze di altre persone, con storie a noi simili o completamente diverse, ci insegnano a comunicare dolore, abbandono, giustizia, solitudine e seconda nascita oltre la lingua e le parole, attraverso l’immagine e l’immaginazione.

Episodio 1 

Dal titolo Questa non è una metafora, il primo episodio ci regala subito un rumoroso silenzio, accompagnato da un piano a scorrimento orizzontale di due immagini sfocate, che appaiono inizialmente sovrapposte e la cui nitidezza è raggiungibile solo al termine del loro scorrimento. L’ immagine è ora chiara, i soggetti in primo piano sono sagome di edifici, un cielo limpido sullo sfondo, nuvole, le sagome sono nere, tutto appare fermo. Lo scorrimento sembra interpretare un viaggio, la confusione del percorso è forse rappresentata da queste immagini sfocate e sovrapposte che quasi faticano a distinguersi. Quando si raggiunge finalmente la chiarezza dell’immagine, si distingue il profilo di una città, chissà, forse Beirut. Gli edifici si distaccano dal fondale, iniziano a lasciare il terreno, si dirigono verso l’alto, vestiti di nero. Resta solo un limpido cielo azzurro, null’altro, ogni sagoma è scomparsa, ogni sagoma è forse un omaggio ad un’anima. 

Episodio 2 

Dal titolo Quando non eravamo ancora nati, il secondo episodio si apre con lo scorrere di una forma indefinita composta da immagini mescolate fra loro di varia natura. La ripresa rimbalza e sbatte sulle linee che determinano la forma indefinita, delimitando perciò lo sguardo dello spettatore anche attraverso restringimenti della ripresa. La “parola” è fondamentale in questa seconda parte in quanto dona la possibilità di immergersi completamente nella proiezione artistica, accompagnando il racconto visivo e perciò coinvolgendo maggiormente il pubblico oltre a creare una delicata empatia ed una calorosa accoglienza. << Colleziono le foto, ne colleziono di tutti i tipi, anche se preferisco quelle in bianco e nero, le colleziono per spiare le vite degli altri, appropriandomi di ricordi altrui e giustificandomi con il pensiero di salvarle>> questo dice lo stesso Rabih nel monologo originale poi doppiato da Marcello Spinetta in italiano. Visto da Lina come un profanatore di memorie, Rabih vuole forse solo proteggere ciò che gli è stato strappato via, i ricordi certo ma anche la sua storia, attraverso la conservazione di ogni volto impresso sulla carta. Storie mescolate, dettagli che distraggono e colori che si possono solo immaginare. Lo scorrimento termina con l’inquadratura di un uomo con una macchina fotografica, scontornato e su sfondo nero, che lascia poi spazio ad un allargamento della ripresa sulle stesse foto che compongono la forma indefinita, questa volta viste da lontano, sole, con le loro forme e la loro identità. Nessuna visione d’insieme << la storia non è un’isteria, per riuscire ad osservarla, dobbiamo esserne esclusi>> così dice Rabih.

Episodio 3

Il collezionismo nasce dalla volontà di proteggere delle storie o delle parti di esse, talvolta può però divenire la profanazione di queste, trattenendo nel tempo ciò che avrebbe il diritto di essere lasciato andare. << Lo trovo molto violento, non riesco a dimenticare che queste persone abbiano avuto una vita e con essa una privacy>>  Lina Majdalanie, compagna di vita di Rabih, descrive con queste parole l’inquietudine del collezionismo e dichiara rivedendosi in esse :<<quando morirò voglio che le mie foto brucino con me>>. In Libano la cremazione è proibita, non si può decidere cosa fare del proprio corpo nemmeno di fronte alla morte, al medesimo modo solo i ricordi che portiamo nel cuore possono perire con noi stessi. Ciò che rimane di noi agli altri, finisce per non appartenerci più ed è così che essi possono disporre dei nostri ricordi nel miglior modo nel quale ritengano debbano essere trattati. Una consapevolezza tanto cruda non impedisce a Lina, in quella che riconosce come ipocrisia, di amare comunque quelle foto, sparse in ogni angolo di quello spazio che lei chiama “casa”. Non a caso il terzo episodio si intitola Perchè sono un’ipocrita. Su due bande laterali bianche, scorrono dall’alto verso il basso, foto scannerizzate, a destra la parte frontale e a sinistra il retro, cullate dalle parole di Lina doppiata dalla dolce voce di Francesca Bracchino:  <<…lui pensa di essere un collezionista ma non lo è, sono anche io un’ipocrita ma mi consola il fatto che io ami le persone ritratte in queste foto, maledico il loro wellerismo, l’amore può essere letale qualche volta>> .

Episodio 4

Dal titolo Guardavo la foto che mi stava guardando con occhi lucidi, il quarto episodio, crea una profonda empatia tra collezionista e spettatore, facendoci entrare, pienamente, all’interno delle dinamiche che coinvolgono Rabih nella scelta dei volti appartenenti alla sua collezione di fotografie. Vagando per una città francese, Rabih si imbatte per caso in un banco di merce vintage,  nel quale si distingue una scatola colma di foto. Attratto da un potente magnetismo e rapito da dettagli e colori, Rabih si accorge che quelle foto ritraggono tutte lo stesso uomo, in una foto indossa un giubbotto di pelle, ha occhi scuri, lucidi. In una lotta con la sua coscienza, il collezionista, prova con tutte le sue forze a non appropriarsi di una memoria che, ancora una volta, non gli appartiene. Il rispetto dell’identità di quest’uomo sconosciuto, gli impone di non rendere quelle foto oggetto della sua arte ma allo stesso modo di portarle con sé e proteggerle dal tempo << Qualsiasi cosa tu voglia fare di me non sarà più crudele di questo mercato>>. Il mercante era libanese, vendeva anche il giubbotto di pelle della foto. Il prezzo che ha accettato di pagare Rabih è quello di usare la sua lingua madre.

Episodio 5 

Dal titolo Un fantasma seduto su una poltrona intento a guardare le sue foto, ci fa riflettere sul senso di una foto e sull’ironico paradosso di come esse alla fine non siano “utili” a nessuno. La ripresa si concentra sui dettagli di una foto antica, quasi a volerne scrutare ogni singola parte, come fosse un occhio:  << I morti non hanno bisogno di foto […] o la vita torna indietro completamente o scompare, in entrambi i casi, sarebbero inutili […] riuscite ad immaginare un fantasma, seduto su una poltrona, che sfoglia un album delle sue foto? >>. Jeremy Bentham diceva che l’utile è ciò che produce un vantaggio, rendendo minimo il dolore e massimo il piacere. Il dolore di un’anima che ci lascia è inquantificabile e l’unica cosa che può ingannare il vuoto, diminuendo il dolore, è una fotografia. 

Episodio 6 e 7

Dal titolo Vietato entrare e La stessa ansia, sono due cortometraggi molto brevi che raccontano, prima di Lina e poi di Rabih, del ruolo che i loro ricordi hanno nella loro vita e di quanta consapevolezza abbiano di essi. L’episodio sei è graffiante. Un manifesto strappato da un muro ormai rovinato è ciò che viene ripreso, una prospettiva dolorosa che visivamente ci restituisce subito il ruolo dei ricordi di Lina, rafforzato ulteriormente dalle sue affermazioni: << quando morirò voglio che tutto ciò che è mio venga buttato via, nel mare, è lì che riposeranno, in mare, qui i versi segreti non galleggiano ma affondano e per essere recuperati necessitano di pescatori esperti. Per fortuna sono pochi e dunque il mare è ancora pieno di segreti e lo sarà sempre.>> Segreti, i ricordi per Lina sono segreti, personali, delicati e privati, memorie che preferirebbe annegare piuttosto che abbandonare nella speranza che non finiscano nelle mani sbagliate, nel suo passato non si può accedere, è “vietato entrare”. Segue quindi il settimo episodio, scorre lenta la ripresa di fotogrammi, ognuno di essi rappresenta la stessa donna in primo piano, talvolta l’espressione del viso cambia e rende riconoscibili diverse emozioni, talvolta, risulta invece essere sempre la stessa espressione. Un suono profondo e vibrante apre il cortometraggio, l’angoscia, poi un armonioso arpeggio, ecco la consapevolezza: <<Man mano che passano gli anni, la mia storia diventa sempre più ordinaria, forse è perchè è accaduta solo a me. Diventano, quei ricordi, i personaggi principali, di un film che ho visto troppe volte, eppure non smette di fare male>>, il tempo passa per Rabih, il passato rimane immutabile e con esso i sentimenti che lo accompagnano, forse quelle foto vogliono arricchire questa storia “ordinaria” cercando  di aggiungere o chissà, sostituire i personaggi ormai ridondanti di questo film che è la sua vita, una ricerca frenetica, continua che tenta di attenuare un’ansia perenne, “la stessa ansia” di sempre. 

Episodio 8

Quello che succede quando nella vita quotidiana irrompe una guerra, lo spiega con una sorta di ironia Rabih Mroué in questo ottavo episodio dal titolo Il negozio di Constantine. Si dice: “l’insegnamento nel cadere sta nel ritrovare il modo di rialzarsi”, con queste parole si può riassumere la morale di questo cortometraggio, il quale ha l’intento di insegnarci l’arte del “ricominciare”. Una pellicola rotta apre il filmato, segue la ripresa di un televisore che manda in onda, quello che sembra essere l’atterraggio sulla luna. Rabih ha una grande famiglia i cui membri che la compongono sono 10. Abitano a sud di Beirut, la casa ripresa è quella dei suoi genitori e quella nel filmato è la loro televisione, la protagonista di questo racconto visivo. <<Era il 1967,  zona Sud di Beirut, mio padre ha comprato la prima televisione, in due rate, al negozio di Constantine […] era il 1973, mio padre compra il secondo televisore, un proiettile bucò il primo […] era il 1982, un altro proiettile bucò il televisore, ne comprammo un terzo solo nel 1990, nel negozio di Constantine, non era più nel negozio di origine, si era spostato, per via della guerra>> questa linea narrativa adottata da Rabih, ripercorre i momenti più significativi della vita politica del Libano. La guerra inizia ufficialmente il 13 Ottobre del 1975, tuttavia erano già ampiamente presenti i conflitti nel paese, il primo proiettile che buca la tv risale infatti al 1973. L’ultimo proiettile bucò il televisore nel 1982 ma la scelta di acquistarne un terzo avvenne, come testimoniato dal collezionista, solo nel 1990, anno in cui viene dichiarata la fine della guerra in Libano. <<Ad un certo punto>> dice Rabih <<c’erano televisori in ogni stanza e solo i miei genitori a casa, con 5 tv>>, una metafora questa che con amarezza vuole raccontarci di come spesso, anche trovando la forza di ricominciare, attraverso sacrifici e valori, siamo circondati dal vuoto di ciò che ci è stato portato via: persone, sogni, ricordi: << Mio padre non ricorda nessuna di queste foto e neanche di averle scattate lui, eppure c’è scritto, è la sua calligrafia>>. Il loop di questo racconto ha scatenato reazioni di ilarità tra il pubblico, non le ho ben comprese, Rabih vive a Berlino, non ha nessuna televisione forse per far si che in questo modo, nessun proiettile possa bucarla.

Episodio 9 

Dal titolo Le mie paure, i miei errori, nel breve seppur intenso episodio nove, parla per l’ultima volta Rabih, mettendo completamente a nudo la sua parte più fragile ed evidenziando il sentimento di impotenza che lo pervade facendolo sentire intrappolato << Ricordo errori e le circostanze in cui li ho commessi, eppure li ricommetto in circostanze simili[…] ha a che fare con il mio carattere, un carattere che non posso cambiare e se non riesco a cambiare me stesso come posso cambiare qualcosa del mio paese>>.  In questo penultimo filmato viene ripreso un poster di carta, attaccato alla parete di un edificio che sembra abbandonato. Quest’ultimo sorge su una strada di periferia, un bambino gioca a pallone, non sembra aver alcuna attenzione per quel poster, in esso è raffigurata la sagoma di un uomo che appare elegante, ha un cappello, l’uomo è dietro delle sbarre, scalpita disperatamente, sembra chiedere aiuto in un grido che non può sentire nessuno.

Episodio 10

Chiude la proiezione artistica Lina Majdelaine con il decimo episodio intitolato M come malinconia, M come merda. << Quando avevo 14 o 15 anni, a scuola, la maestra ci chiese di fare un esercizio, coprire il sorriso di alcuni volti ritratti nelle fotografie guardandone solo gli occhi, ci chiese cosa vedemmo in esse, rispose lei, malinconia. Dopo anni ci ho riprovato, funziona ancora>>.

Second look  è stata proiettato alla Fondazione Merz, che, allestita appositamente per ospitare presentazioni e spettacoli per il Festival delle Colline Torinesi, è in realtà una galleria d’arte, <<luogo di documentari, confini e sconfinamenti>> così definita da Alessandro Iachino, motivando la scelta di presentare alla stessa fondazione il volume della rivista Act dedicata a Lina Majdalanie e Rabih Mrouè.  L’immagine è la protagonista indiscussa di questa serie di cortometraggi come lo è ormai diventata nella quotidianità, non solo per Rabih in quanto collezionista ma come artista e regista. La “picture” è un nuovo modo di comunicare, è potente e d’impatto ma soprattutto è immediata ed inclusiva ed è per questo divenuta la regina indiscussa della comunicazione, attraverso la rete internet, la pubblicità, la fotografia, l’arte e il teatro. Nella breve introduzione che precede la proiezione, Alessandro Iachino pone una domanda ai due artisti da sempre coinvolti nell’utilizzo eclettico dell’immagine come supporto per gli spettacoli.

Com’è cambiata la vostra storica relazione con le immagini? : <<Noi non siamo nati con i social media, oggi sappiamo quanto sia veloce e fondamentale l’immagine e per questo ci siamo chiesti, io e Lina, come portare questo a teatro. È una domanda a cui non ho risposta, poiché noi stessi ce la siamo posta. Proviamo, il cambiamento è necessario. Le immagini non hanno bisogno di parole, diventano o causa di grande odio o icone, simboli. Noi parliamo attraverso le immagini ed anche loro fanno lo stesso con noi, l’immagine è la condanna della parola, in essa c’è una completa assenza della verbalizzazione poiché contiene già un significato.>>: questo dice Rabih, riflettendo principalmente sul “come”.  Lina invece, pone l’accento sulla responsabilità della memoria legata all’immagine: <<Nessuno può ricordare tutto ciò che è successo ma ognuno di noi ha la responsabilità di ricordare, seppur ogni memoria individuale sia edulcorata dall’immaginazione, rischiando perciò di dire il falso. La memoria si cristallizza, non è vera realtà>>.

Andy Warhol avrebbe detto “La cosa migliore di una fotografia è che non cambia mai, anche quando le persone in essa lo fanno.”, la rivista Act nasce dall’interrogativo dell’arte agente, l’arte che fa, l’arte che è e cambia le cose. L’arte può agire, agisce e può mutare ogni cosa ed è questo che ci hanno dimostrato Lina Majdalanie e Rabih Mrouè in questa proiezione, mutando ciò che di più personale ci appartiene, lo sguardo, trasformandolo in un Second Look.

Rossella Cutaia

Scritto e diretto da Lina Majdalanie e Rabih Mrouè

voice-over Lina Majdalanie e Rabih Mroué

animazione Sarmand Louis

editing Rabih Mrouè, Sarmand Louis

correzione fotografie Rafi Mrad

edizione italiana

traduzione Laura Bevione

voci Francesca Bracchino e Marcello Spinetta

registrazione a cura di Ruben Zambon

Coproduzione Festival delle Colline Torinesi\ TPE-Teatro Piemonte Europa

 

DALL’UNIVERSO DI TUTTO BRUCIA, ECUBA E CASSANDRA BY MOTUS

TRA CONTRAPPUNTO E DISARMONIA

Occorre sbarazzarsi del cattivo gusto di voler essere in accordo con tutti. Le cose grandi ai grandi, gli abissi ai profondi, le finezze ai sottili, le rarità ai rari

(Friedrich Netzsche)

Come ci suggerisce Marianna Tomasello “L’idea che l’universo sia un tutto ordinato e ben connesso in ogni sua parte è un tratto comune al pensiero cosmologico greco […] La convinzione che l’universo sia strutturato secondo delle regole e proporzioni precise è rintracciabile già nei miti cosmologici che tengono inoltre conto che l’ordine stabilito dal dio sia un ordine opportuno e, accordando ogni elemento al suo interno, sia conveniente e miri a un fine”.

Quest’idea greca del cosmo come “ordinato”, “proporzionato” e “accordato” si organizza attorno a dei modelli che toccano diversi ambiti semantici ma il più diffuso che assume un posto di rilievo per la vastità di letteratura a riguardo è l’ARMONIA intesa in senso musicale.

Ma nel caso specifico della tragedia “la musicalità” dell’universo non è mai rappresentato attraverso l’immagine familiari dell’armonia delle sfere: i termini che la esprimono rimandano piuttosto alla sfera del canto e a quell’idea del potere magico della parola, che trova dimostrazione in quella capacità reificante della parola del dio.

Tomasello prosegue dicendo che nei processi di simbolizzazione, propri del pensiero tardo arcaico, si pongono le basi per una rappresentazione del mondo secondo i termini delle scienze musicali sottolineando questa particolare attenzione al canto.

Questa premessa diventa interessante nel momento in cui ci troviamo ad analizzare i due spettacoli dei Motus: You were nothing but wind e Of the Nightingale I envy the fate che ci propongono l’approfondimento di due importanti figure femminili della tragedia greca che arrivano da quell’universo apocalittico delineato in Tutto Brucia in cui veniva brutalmente mostrato il mondo de Le troiane di Euripide.

I due lavori proposti decidono di indagare ognuno la linea narrativa di un personaggio, approfondendo il mondo interiore di Ecuba in You were nothing but wind e di Cassandra in Of Nightingale I envy the fate.

Partiamo per entrambi gli spettacoli da un assunto comune: il “mondo” dal quale provengono Ecuba e Cassandra è ormai bruciato. Persino il loro legame di madre e figlia è ormai estinto, tanto da doverle indagare separatamente senza più alcun nesso tra loro. Entrambe profanate nel corpo e nello spirito vivono l’impossibilità di un risanamento. Quest’ordine perduto per sempre porta a uno stravolgimento del sé, che si concretizza nell’unico atto possibile: il “suicidio” dell’umano. Questo scenario apocalittico produce un universo disarmonico in cui la parola non solo non è più magica, incapace di reificare, ma perde ogni scopo: in assenza di un dio, in assenza dell’uomo, non è più musica, non è più canto.

Quindi che rimane? Cosa ancora una volta può emergere da quelle ceneri, “pronta a testa bassa a continuare, perché ancora una volta, non era previsto che sopravvivesse”?

La bestialità.

Come si legge nell’Ecuba di Euripide, alla fine la donna accetterà di essere trasformata in una “cagna dagli occhi di fuoco”, sostituendo alle parole/canto dissonanti latrati.

Questo latrato cacofonico stona e risulta sgradevole all’udito, proprio perché rappresenta una trasgressione alle regole sia della prassi musicale che della forma tradizionale del genere poetico. Ma il mancato rispetto di un sistema di riferimento comunemente accettato costituisce un elemento di disturbo che ha l’effetto di risultare estremamente sgradevole e irregolare, esattamente come estremamente sgradevoli e irregolari sono state le vicende vissute da Ecuba. Quindi in questa demoniaca trasformazione in cui l’usurpatore vince persino la natura umana di Ecuba, il suo latrato è un atto di ribellione che vuole apertamente contrapporsi all’ARMONIA di un sistema ingiusto.

Nei testi della letteratura greca il “canto” di Cassandra è spesso paragonato a quello di un usignolo perché come quella dell’uccello anche la sua voce è forte e acuta, non solo per dar sfogo al dolore, ma perché vuole o deve farsi sentire. Nello spettacolo la metamorfosi animalesca fa sì che le parole/canto delle sue profezie vengano tramutate in acuti cinguettii di usignolo. Un usignolo a cui sono state strappate le ali e a cui è impossibile fuggire, condannato a strisciare nella terra come condizione che non gli appartiene. L’acutezza del suono, insieme alla forte emotività che lo connota, è funzionale perciò ai contenuti che si vogliono veicolare, e come per Ecuba questa scelta formale costituisce nello stesso tempo impossibilità di comunicazione verbale che diviene cifra espressiva.

Par ch’abbia entro le fauci e in ogni fibra

rapida rota o turbine veloce.

Sembra la lingua, che si volge e vibra,

spada di schermidor destro e feroce”.

(da Canto dell’usignolo di Giovan Battista Marino)

Nel flyer che accompagna lo spettacolo dedicato a Cassandra si legge che stiamo assistendo a una “performance-grido” che precede l’ingiusta uccisione della giovane. All’interno della sua maledizione di profeta non creduto, il grido di Cassandra diviene non solo contrappunto che si sviluppa come linea melodica indipendente rispetto a ciò che accade, in quanto deve ancora accadere, ma è al contempo un canto funebre, una lamentazione che ella intona per se stessa.

Un altro elemento che accomuna entrambe le performance è la scelta di connotare i personaggi all’interno di una dimensione che evoca antichi rituali sciamanici, come dichiarato nello stesso flyer dello spettacolo su Cassandra:

Un rito sciamanico dove si fondono la stereotipica fragilità femminile e il suo spirito di vendetta infuocato, le funeste visioni del futuro, come la prodezza animale, l’eleganza del gesto e dello sbattere di ciglia […] in dialogo con una luce mobile (d’oltremondo?) che la insegue e la sfida.

In questi scenari post-umani il tentativo di ricorrere ad un tramite sciamanico, che come è noto utilizza spesso nei suoi riti elementi musicali, per risanare l’insanabile, lo ritroviamo anche nello spettacolo dedicato a Ecuba. Pensiamo infatti alla scelta di mettere il pubblico in cerchio attorno a un cumulo di cenere dal quale emerge, non come fenice, ma come animale ferito, relitto, sopravvissuto, la “cagna” Ecuba.

Immaginatevi seduti in un cerchio con gli altri membri della vostra comunità. Vi siete raccolti insieme per sostenere un membro della comunità che sta soffrendo a causa di una esperienza traumatica. Sapete che una persona sta soffrendo e che la malattia va ad influenzare l’intera comunità. Così sei arrivato per aiutare e per mantenere sacro lo spazio, affinché avvenga la guarigione.

(in merito allo sciamanesimo in Recupero dell’Anima. Guarire il Sé Frammentato di Sandra Ingerman)

Ma all’interno di questa circolarità e nonostante il tentativo di Ecuba di avvicinarsi al pubblico con l’illusione di trovarci uno sciamano tramite di guarigione, la salvezza è una chimera. Intanto perché noi non siamo la comunità a cui Ecuba appartiene, comunità che è stata annientata, ed è chiaro il nostro totale disinteresse a farla entrare nel cerchio della nostra comunità. Lei infatti non siede accanto a noi, si pone difronte a noi con le sue ferite esposte, urlante, con quei dissonanti latrati. Non nostro il compito di una sua ipotetica guarigione, né tanto meno vogliamo assumercene la responsabilità.

Al massimo proviamo compassione là dove non sentiamo ribrezzo, per quell’essere intenzionalmente sgradevole che manifesta così il suo ultimo atto di protesta. E l’intervento del deus ex machina arriva come atto risolutivo nei confronti del nostro dramma interiore di spettatori, non per quello di Ecuba, che si è già risolto ancora prima di emergere da quelle ceneri. Il dramma è il nostro ed è in quella battaglia tutta interiore di vincere quel turbamento di dover condividere uno spazio così angusto ed intimo con la sgradevolezza di un reietto. Quel turbamento nell’essere costretti a non poter distogliere lo sguardo da quelle oscene ferite.

Quindi l’arrivo di un uomo in tuta da lavoro che con una spazzatrice tira via quello che rimaneva delle ceneri e ciò che rimaneva della stessa Ecuba, salva noi dall’imbarazzo. Adesso il campo è sgombro, è finita, possiamo ritornare al nostro ordinato e armonico orticello, ripulito dal putrido fogliame, incapaci come siamo di imparare alcuna lezione, nonostante i recenti avvenimenti. Incapaci di comprendere che dalla “salvezza”, dalla “guarigione” dell’altro dipende anche la nostra.

Destinati all’estinzione perché troppo incivile e selvatico ci appare il talento, in fondo atavico, dello sciamano.

Nina Margeri

Per i riferimenti agli spettacoli si rimanda ai rispettivi link:

You were nothing but windhttps://www.motusonline.com/en/tutto-brucia/you-were-nothing-but-wind/

Of the nightingale i envy the fateOf the nightingale I envy the fate | Motus (motusonline.com)

TRILOGIA DELLE MACCHINE – Chiacchierata in-formale con Giuseppe Stellato e Domenico Riso

Durante la 27esima edizione del Festival delle Colline Torinesi è andata in scena alla Fondazione Merz La trilogia delle Macchine ideata e diretta da Giuseppe Stellato, artista visivo e scenografo.

Lo spettacolo è decisamente interessante per la presenza in scena di “attori” inusuali. Dove nasce l’idea di far raccontare storie a delle macchine?

GS: Prima di tutto da una grande curiosità. Il mio lavoro da scenografo mi ha dato sicuramente la possibilità di vedere le cose da una prospettiva diversa, osservando la meccanica di alcuni oggetti quotidiani dall’interno.

Poi siamo stati invitanti nel 2018 alla Biennale di Venezia che proponeva un tema dal titolo Atto Secondo: Attore/Performer per presentare un’istallazione performativa, e in quell’occasione abbiamo presentato Oblò e Mind the Gap.

Siamo partiti dalla domanda: Cosa succede in teatro se a “raccontare” sono gli oggetti? Ci divertiva molto ragionare sull’idea che una macchina potesse essere allo stesso tempo attore e spazio, o per meglio dire scenografia, luogo, dove accade l’azione.

Ricordiamo che la trilogia è formata da tre quadri che hanno come soggetto tre macchine differenti: una lavatrice, un distributore di snack e bibite e un bancomat ATM. Come mai la scelta di utilizzare proprio questi oggetti?

GS: Il soggetto di Oblò prende spunto da quel video virale di qualche anno fa che girava su YouTube dove alcuni ragazzi mettono un mattone dentro una lavatrice e poi l’azionano, dando vita ad una sorta di autodistruzione che abbiamo trovato di una violenza indicibile. 

Questo spunto ci ha dato la possibilità di riflettere in maniera differente sulla realtà, raccontando, in linea con la violenza del filmato di YouTube, un fatto di cronaca altrettanto violento: il corpo del bambino siriano ritrovato sulla spiaggia.

La foto di quel corpo ha avuto un’eco inimmaginabile su tutti i social globali. Per noi partire da quel soggetto di realtà è stato il pretesto per utilizzare un altro medium, in questo caso la lavatrice, che, come i social, ci costringe a prendere le dovute distanze da fenomeni feroci e cruenti come quello.

Quindi l’uso che fate dell’ironia è un altro strumento che utilizzate per prendere le distanze?

GS: Ah sì!!! Avete davvero colto degli elementi di ironia?!? Ci fa molto piacere, perché temevamo che il soggetto potesse essere troppo drammatico. Effettivamente dei momenti ironici ci sono e siamo contenti che li abbiate notati.  Sono nati dall’improvvisazione e dal nostro genuino divertimento in scena.

Torniamo ai temi tratti dagli altri quadri…

GS: Per Mind the gap, frequentando spesso le stazioni dei treni, mi sono più volte ritrovato a guardare con interesse e stupore il distributore di merendine notandone il potenziale espressivo. Abbiamo cominciato a divertirci studiando i meccanismi interni delle macchine e come potevano essere utilizzati per raccontare delle storie. Abbiamo voluto esplorare la relazione del corpo di un performer che passa nella relazione con la macchina da essere mero spettatore a tecnico che dà il via all’azione.

Nelle prime due storie sono state usate due macchine di uso quotidiano ma una con una funzione privata (la lavatrice) e l’altra con una funzione pubblica (il distributore di merendine).  Il terzo quadro è stato il naturale evolversi di un percorso che si andava via via delineando. Così nel Bancomat troviamo la sintesi delle due funzioni degli oggetti precedenti: un oggetto pubblico che conosce in maniera inquietante il nostro privato.

E tu Domenico, come ti sei trovato ad abitare una scena che era la protagonista assoluta rispetto al tuo agire satellitare?

DR: Va detto che io non sono un attore e in realtà neanche un performer. Io sono un tecnico, e mi sento molto a mio agio come “uomo delle macchine”. Conosco molto bene il loro funzionamento e so bene quello che possono fare. Per esempio molto del lavoro è stato fatto in scena durante improvvisazioni in cui montavamo e smontavamo le macchine scoprendone le varie possibilità comunicative. Interessante ci è apparso sin da subito il loro suono originale che abbiamo mantenuto in presa diretta durante gli spettacoli. Questo ci ha permesso di costruire un linguaggio vero e proprio sopra al quale abbiamo montato altre tracce audio che si andavano in alcuni momenti a sovrapporre e in altri ad affiancarsi istaurando un dialogo vero e proprio. Da questo incontro sono nate suggestioni che ci sembravano avere tanto da raccontare.

Come mai nel terzo quadro l’uomo delle macchine compare pulendo la scena invece che interagendo da subito con la macchina? Qual è il significato del pulire lo spazio? 

Il terzo quadro nasce per completare una trilogia che, come dicevamo, si è andata delineando in maniera naturale e organica; quindi, ci piaceva l’idea di ricominciare ripulendo una scena che nel quadro precedente era stata sporcata da tutti gli oggetti che cadevano giù dal distributore. Inoltre, visto che nei primi due quadri avevamo simbolicamente tracciato delle linee di confine, la linea rossa di Oblò e quella gialla di Mind the gap, con questo gesto abbiamo anche voluto sottolineare la volontà, prima di marcare e poi di cancellare questi confini tra soggetto e oggetto proponendo una soluzione in cui il privato e il pubblico si trovano inglobati su uno stesso piano.

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Quella sera erano presenti allo spettacolo anche gli studenti della scuola del Teatro Stabile di Torino ai quali è stato chiesto come avessero percepito l’assenza di una narrazione umana.

I ragazzi hanno risposto di essere rimasti molto colpiti da come, nonostante l’assenza di un attore in scena, le macchine potessero comunque risultare tanto espressive. L’interesse dei ragazzi è stato catturato non solo dalle tematiche trattate ma in modo particolare dall’originalità della loro messa in scena.

Nina Margeri


MANFRED – MADALENA REVERSA & CARMELO BENE A CONFRONTO

UN TESTO, DUE INTERPRETAZIONI

Il Festival delle Colline Torinesi ci offre una diversa interpretazione del testo con il quale anche Carmelo Bene si è confrontato.

Nelle due serate del 28 e 29 ottobre 2022, presso la sede della Fondazione Merz, la compagnia Madalena Reversa ha messo in scena una rielaborazione complessa della rappresentazione del Manfred.

Trilogia delle macchine (Oblò / Mind the gap / Automated teller machine) – Stabilemobile/Giuseppe Stellato

Il Festival delle Colline prosegue con il suo undicesimo spettacolo prodotto dalla compagnia stabilemobile. Lo spazio scelto è la Fondazione Merz, dopo Danza Cieca di Virgilio Sieni messo in scena tra il 20 e il 21 di Ottobre, e non è un caso che ad occuparsene sia proprio un museo d’arte. Quello che il pubblico vedrà questa volta non saranno corpi, ma tre oggetti: una lavatrice, un distributore di snack e un bancomat ATM. Può davvero raccontare qualcosa un trittico del genere?

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Teatro&Arte – Una imagen interior, Ecloga XI e La trilogia delle macchine

Dalla 27° edizione del Festival delle Colline Torinesi suggestioni sui tre spettacoli che all’interno della rassegna rappresentano il filone Teatro&Arte. Un viaggio nella poetica dell’umano attraverso il disfarsi delle comunità, la solitudine del maschile e femminile per una mancata redenzione, il perturbante e assordante silenzioso logos delle macchine. Un filo che unisce l’incanto in un crescendo di disgregazione.

“Vorrei renderti visita
nei tuoi regni longinqui
o tu che sempre
fida ritorni alla mia stanza
dai cieli, luna,
e, siccom’io, sai splendere
unicamente dell’altrui speranza”

(Andrea Zanzotto – IX Ecloghe)

“La luce del fuoco toglie spazio alla notte

e concede loro un tempo addizionale.

Un tempo per l’astrazione”.

(Da Una imagen interior testo teatrale di Pablo Gisbert)

In questo “tempo per l’astrazione” i pensieri si espandono, attraversano “regni longinqui” e poi ritornano come la luna di Zanzotto o come gli amori di Venditti.

In questo tempo addizionale mi ritrovo ad abitare i luoghi geometrici dei pensieri e come la donna vestita di bianco di Una imagen interior “considero me stessa una persona molto cerebrale”, la certezza della morte attraversa anche il mio corpo, per più di un secondo, ma che rimane comunque un tempo insufficiente. 

“È impossibile pensare alla morte quando si ha fretta”.

DANZA CIECA – VIRGILIO SIENI

Un incontro tra corpi complici

Tante sedioline, una accanto all’altra, delimitano uno spazio nel quale il pubblico viene subito inghiottito. Prendiamo posto. A disegnare l’ultimo segmento di questo cerchio sono Virgilio Sieni e il danzatore non vedente Giuseppe Comuniello: seduti con la schiena appoggiata al muro, ci osservano. Al centro scorgiamo un tappeto bianco fatto di cartone e, su di esso, due blocchi di argilla. I due danzatori si avvicinano e iniziano ad occupare lo spazio: attraverso i loro corpi modellano l’area circostante disegnando linee curve, segmenti spezzati e forme circolari. Si sfiorano, si sostengono, si guidano, si completano, insieme danzano.

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CONFINI/SCONFINAMENTI – PRESENTAZIONE DELLA 27ESIMA EDIZIONE DEL FESTIVAL DELLE COLLINE

Giovedì 30 giugno, nel suggestivo contesto della Fondazione Mertz, tra grandi spazi vuoti ed opere d’arte, il Festival delle colline torinesi ha presentato il programma della sua 27esima edizione, che si svolgerà dall’11 ottobre al 6 novembre 2022. Dalla scorsa edizione infatti, il festival è diventato un vero e proprio festival d’autunno, come ha rimarcato anche il direttore artistico Sergio Ariotti, durante la conferenza di presentazione

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SUNNY SUNDAY (LAST BUT NOT LAST) – LINA MAJDALANIE E RABIH MROUÉ

Il pubblico del Festival delle Colline è invitato alla Fondazione Merz ad un matrimonio molto strano che mescola vivi e morti, finzione e realtà, fiaba e politica. Lina Majdalanie e Rabih Mroué ci trasportano in una domenica di sole, nel 2016, in una piccola chiesa, in una piccola città della Polonia. Si tratta di un fatto realmente accaduto: la commemorazione del militare polacco e eroe nazionale Witold Pilecki. Ricordato in particolare per essersi infiltrato, durante la Seconda Guerra Mondiale, nel lager di Auschwitz, tre anni dopo la fine della guerra fu condannato a morte e trucidato per ordine del regime sovietico.

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ALL AROUND – METTE INGVARTSEN / WILL GUTHRIE

È impossibile spiegare ciò che la danzatrice danese Mette Ingvartsen e il batterista Will Guthrie hanno fatto accadere nella performance All Around. Una danza guidata da un unico assolo di batteria, che trasporta lo spettatore dentro a un mondo di ritualità e trance unico nel suo genere.

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