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DALL’UNIVERSO DI TUTTO BRUCIA, ECUBA E CASSANDRA BY MOTUS

TRA CONTRAPPUNTO E DISARMONIA

Occorre sbarazzarsi del cattivo gusto di voler essere in accordo con tutti. Le cose grandi ai grandi, gli abissi ai profondi, le finezze ai sottili, le rarità ai rari

(Friedrich Netzsche)

Come ci suggerisce Marianna Tomasello “L’idea che l’universo sia un tutto ordinato e ben connesso in ogni sua parte è un tratto comune al pensiero cosmologico greco […] La convinzione che l’universo sia strutturato secondo delle regole e proporzioni precise è rintracciabile già nei miti cosmologici che tengono inoltre conto che l’ordine stabilito dal dio sia un ordine opportuno e, accordando ogni elemento al suo interno, sia conveniente e miri a un fine”.

Quest’idea greca del cosmo come “ordinato”, “proporzionato” e “accordato” si organizza attorno a dei modelli che toccano diversi ambiti semantici ma il più diffuso che assume un posto di rilievo per la vastità di letteratura a riguardo è l’ARMONIA intesa in senso musicale.

Ma nel caso specifico della tragedia “la musicalità” dell’universo non è mai rappresentato attraverso l’immagine familiari dell’armonia delle sfere: i termini che la esprimono rimandano piuttosto alla sfera del canto e a quell’idea del potere magico della parola, che trova dimostrazione in quella capacità reificante della parola del dio.

Tomasello prosegue dicendo che nei processi di simbolizzazione, propri del pensiero tardo arcaico, si pongono le basi per una rappresentazione del mondo secondo i termini delle scienze musicali sottolineando questa particolare attenzione al canto.

Questa premessa diventa interessante nel momento in cui ci troviamo ad analizzare i due spettacoli dei Motus: You were nothing but wind e Of the Nightingale I envy the fate che ci propongono l’approfondimento di due importanti figure femminili della tragedia greca che arrivano da quell’universo apocalittico delineato in Tutto Brucia in cui veniva brutalmente mostrato il mondo de Le troiane di Euripide.

I due lavori proposti decidono di indagare ognuno la linea narrativa di un personaggio, approfondendo il mondo interiore di Ecuba in You were nothing but wind e di Cassandra in Of Nightingale I envy the fate.

Partiamo per entrambi gli spettacoli da un assunto comune: il “mondo” dal quale provengono Ecuba e Cassandra è ormai bruciato. Persino il loro legame di madre e figlia è ormai estinto, tanto da doverle indagare separatamente senza più alcun nesso tra loro. Entrambe profanate nel corpo e nello spirito vivono l’impossibilità di un risanamento. Quest’ordine perduto per sempre porta a uno stravolgimento del sé, che si concretizza nell’unico atto possibile: il “suicidio” dell’umano. Questo scenario apocalittico produce un universo disarmonico in cui la parola non solo non è più magica, incapace di reificare, ma perde ogni scopo: in assenza di un dio, in assenza dell’uomo, non è più musica, non è più canto.

Quindi che rimane? Cosa ancora una volta può emergere da quelle ceneri, “pronta a testa bassa a continuare, perché ancora una volta, non era previsto che sopravvivesse”?

La bestialità.

Come si legge nell’Ecuba di Euripide, alla fine la donna accetterà di essere trasformata in una “cagna dagli occhi di fuoco”, sostituendo alle parole/canto dissonanti latrati.

Questo latrato cacofonico stona e risulta sgradevole all’udito, proprio perché rappresenta una trasgressione alle regole sia della prassi musicale che della forma tradizionale del genere poetico. Ma il mancato rispetto di un sistema di riferimento comunemente accettato costituisce un elemento di disturbo che ha l’effetto di risultare estremamente sgradevole e irregolare, esattamente come estremamente sgradevoli e irregolari sono state le vicende vissute da Ecuba. Quindi in questa demoniaca trasformazione in cui l’usurpatore vince persino la natura umana di Ecuba, il suo latrato è un atto di ribellione che vuole apertamente contrapporsi all’ARMONIA di un sistema ingiusto.

Nei testi della letteratura greca il “canto” di Cassandra è spesso paragonato a quello di un usignolo perché come quella dell’uccello anche la sua voce è forte e acuta, non solo per dar sfogo al dolore, ma perché vuole o deve farsi sentire. Nello spettacolo la metamorfosi animalesca fa sì che le parole/canto delle sue profezie vengano tramutate in acuti cinguettii di usignolo. Un usignolo a cui sono state strappate le ali e a cui è impossibile fuggire, condannato a strisciare nella terra come condizione che non gli appartiene. L’acutezza del suono, insieme alla forte emotività che lo connota, è funzionale perciò ai contenuti che si vogliono veicolare, e come per Ecuba questa scelta formale costituisce nello stesso tempo impossibilità di comunicazione verbale che diviene cifra espressiva.

Par ch’abbia entro le fauci e in ogni fibra

rapida rota o turbine veloce.

Sembra la lingua, che si volge e vibra,

spada di schermidor destro e feroce”.

(da Canto dell’usignolo di Giovan Battista Marino)

Nel flyer che accompagna lo spettacolo dedicato a Cassandra si legge che stiamo assistendo a una “performance-grido” che precede l’ingiusta uccisione della giovane. All’interno della sua maledizione di profeta non creduto, il grido di Cassandra diviene non solo contrappunto che si sviluppa come linea melodica indipendente rispetto a ciò che accade, in quanto deve ancora accadere, ma è al contempo un canto funebre, una lamentazione che ella intona per se stessa.

Un altro elemento che accomuna entrambe le performance è la scelta di connotare i personaggi all’interno di una dimensione che evoca antichi rituali sciamanici, come dichiarato nello stesso flyer dello spettacolo su Cassandra:

Un rito sciamanico dove si fondono la stereotipica fragilità femminile e il suo spirito di vendetta infuocato, le funeste visioni del futuro, come la prodezza animale, l’eleganza del gesto e dello sbattere di ciglia […] in dialogo con una luce mobile (d’oltremondo?) che la insegue e la sfida.

In questi scenari post-umani il tentativo di ricorrere ad un tramite sciamanico, che come è noto utilizza spesso nei suoi riti elementi musicali, per risanare l’insanabile, lo ritroviamo anche nello spettacolo dedicato a Ecuba. Pensiamo infatti alla scelta di mettere il pubblico in cerchio attorno a un cumulo di cenere dal quale emerge, non come fenice, ma come animale ferito, relitto, sopravvissuto, la “cagna” Ecuba.

Immaginatevi seduti in un cerchio con gli altri membri della vostra comunità. Vi siete raccolti insieme per sostenere un membro della comunità che sta soffrendo a causa di una esperienza traumatica. Sapete che una persona sta soffrendo e che la malattia va ad influenzare l’intera comunità. Così sei arrivato per aiutare e per mantenere sacro lo spazio, affinché avvenga la guarigione.

(in merito allo sciamanesimo in Recupero dell’Anima. Guarire il Sé Frammentato di Sandra Ingerman)

Ma all’interno di questa circolarità e nonostante il tentativo di Ecuba di avvicinarsi al pubblico con l’illusione di trovarci uno sciamano tramite di guarigione, la salvezza è una chimera. Intanto perché noi non siamo la comunità a cui Ecuba appartiene, comunità che è stata annientata, ed è chiaro il nostro totale disinteresse a farla entrare nel cerchio della nostra comunità. Lei infatti non siede accanto a noi, si pone difronte a noi con le sue ferite esposte, urlante, con quei dissonanti latrati. Non nostro il compito di una sua ipotetica guarigione, né tanto meno vogliamo assumercene la responsabilità.

Al massimo proviamo compassione là dove non sentiamo ribrezzo, per quell’essere intenzionalmente sgradevole che manifesta così il suo ultimo atto di protesta. E l’intervento del deus ex machina arriva come atto risolutivo nei confronti del nostro dramma interiore di spettatori, non per quello di Ecuba, che si è già risolto ancora prima di emergere da quelle ceneri. Il dramma è il nostro ed è in quella battaglia tutta interiore di vincere quel turbamento di dover condividere uno spazio così angusto ed intimo con la sgradevolezza di un reietto. Quel turbamento nell’essere costretti a non poter distogliere lo sguardo da quelle oscene ferite.

Quindi l’arrivo di un uomo in tuta da lavoro che con una spazzatrice tira via quello che rimaneva delle ceneri e ciò che rimaneva della stessa Ecuba, salva noi dall’imbarazzo. Adesso il campo è sgombro, è finita, possiamo ritornare al nostro ordinato e armonico orticello, ripulito dal putrido fogliame, incapaci come siamo di imparare alcuna lezione, nonostante i recenti avvenimenti. Incapaci di comprendere che dalla “salvezza”, dalla “guarigione” dell’altro dipende anche la nostra.

Destinati all’estinzione perché troppo incivile e selvatico ci appare il talento, in fondo atavico, dello sciamano.

Nina Margeri

Per i riferimenti agli spettacoli si rimanda ai rispettivi link:

You were nothing but windhttps://www.motusonline.com/en/tutto-brucia/you-were-nothing-but-wind/

Of the nightingale i envy the fateOf the nightingale I envy the fate | Motus (motusonline.com)

TRILOGIA DELLE MACCHINE – Chiacchierata in-formale con Giuseppe Stellato e Domenico Riso

Durante la 27esima edizione del Festival delle Colline Torinesi è andata in scena alla Fondazione Merz La trilogia delle Macchine ideata e diretta da Giuseppe Stellato, artista visivo e scenografo.

Lo spettacolo è decisamente interessante per la presenza in scena di “attori” inusuali. Dove nasce l’idea di far raccontare storie a delle macchine?

GS: Prima di tutto da una grande curiosità. Il mio lavoro da scenografo mi ha dato sicuramente la possibilità di vedere le cose da una prospettiva diversa, osservando la meccanica di alcuni oggetti quotidiani dall’interno.

Poi siamo stati invitanti nel 2018 alla Biennale di Venezia che proponeva un tema dal titolo Atto Secondo: Attore/Performer per presentare un’istallazione performativa, e in quell’occasione abbiamo presentato Oblò e Mind the Gap.

Siamo partiti dalla domanda: Cosa succede in teatro se a “raccontare” sono gli oggetti? Ci divertiva molto ragionare sull’idea che una macchina potesse essere allo stesso tempo attore e spazio, o per meglio dire scenografia, luogo, dove accade l’azione.

Ricordiamo che la trilogia è formata da tre quadri che hanno come soggetto tre macchine differenti: una lavatrice, un distributore di snack e bibite e un bancomat ATM. Come mai la scelta di utilizzare proprio questi oggetti?

GS: Il soggetto di Oblò prende spunto da quel video virale di qualche anno fa che girava su YouTube dove alcuni ragazzi mettono un mattone dentro una lavatrice e poi l’azionano, dando vita ad una sorta di autodistruzione che abbiamo trovato di una violenza indicibile. 

Questo spunto ci ha dato la possibilità di riflettere in maniera differente sulla realtà, raccontando, in linea con la violenza del filmato di YouTube, un fatto di cronaca altrettanto violento: il corpo del bambino siriano ritrovato sulla spiaggia.

La foto di quel corpo ha avuto un’eco inimmaginabile su tutti i social globali. Per noi partire da quel soggetto di realtà è stato il pretesto per utilizzare un altro medium, in questo caso la lavatrice, che, come i social, ci costringe a prendere le dovute distanze da fenomeni feroci e cruenti come quello.

Quindi l’uso che fate dell’ironia è un altro strumento che utilizzate per prendere le distanze?

GS: Ah sì!!! Avete davvero colto degli elementi di ironia?!? Ci fa molto piacere, perché temevamo che il soggetto potesse essere troppo drammatico. Effettivamente dei momenti ironici ci sono e siamo contenti che li abbiate notati.  Sono nati dall’improvvisazione e dal nostro genuino divertimento in scena.

Torniamo ai temi tratti dagli altri quadri…

GS: Per Mind the gap, frequentando spesso le stazioni dei treni, mi sono più volte ritrovato a guardare con interesse e stupore il distributore di merendine notandone il potenziale espressivo. Abbiamo cominciato a divertirci studiando i meccanismi interni delle macchine e come potevano essere utilizzati per raccontare delle storie. Abbiamo voluto esplorare la relazione del corpo di un performer che passa nella relazione con la macchina da essere mero spettatore a tecnico che dà il via all’azione.

Nelle prime due storie sono state usate due macchine di uso quotidiano ma una con una funzione privata (la lavatrice) e l’altra con una funzione pubblica (il distributore di merendine).  Il terzo quadro è stato il naturale evolversi di un percorso che si andava via via delineando. Così nel Bancomat troviamo la sintesi delle due funzioni degli oggetti precedenti: un oggetto pubblico che conosce in maniera inquietante il nostro privato.

E tu Domenico, come ti sei trovato ad abitare una scena che era la protagonista assoluta rispetto al tuo agire satellitare?

DR: Va detto che io non sono un attore e in realtà neanche un performer. Io sono un tecnico, e mi sento molto a mio agio come “uomo delle macchine”. Conosco molto bene il loro funzionamento e so bene quello che possono fare. Per esempio molto del lavoro è stato fatto in scena durante improvvisazioni in cui montavamo e smontavamo le macchine scoprendone le varie possibilità comunicative. Interessante ci è apparso sin da subito il loro suono originale che abbiamo mantenuto in presa diretta durante gli spettacoli. Questo ci ha permesso di costruire un linguaggio vero e proprio sopra al quale abbiamo montato altre tracce audio che si andavano in alcuni momenti a sovrapporre e in altri ad affiancarsi istaurando un dialogo vero e proprio. Da questo incontro sono nate suggestioni che ci sembravano avere tanto da raccontare.

Come mai nel terzo quadro l’uomo delle macchine compare pulendo la scena invece che interagendo da subito con la macchina? Qual è il significato del pulire lo spazio? 

Il terzo quadro nasce per completare una trilogia che, come dicevamo, si è andata delineando in maniera naturale e organica; quindi, ci piaceva l’idea di ricominciare ripulendo una scena che nel quadro precedente era stata sporcata da tutti gli oggetti che cadevano giù dal distributore. Inoltre, visto che nei primi due quadri avevamo simbolicamente tracciato delle linee di confine, la linea rossa di Oblò e quella gialla di Mind the gap, con questo gesto abbiamo anche voluto sottolineare la volontà, prima di marcare e poi di cancellare questi confini tra soggetto e oggetto proponendo una soluzione in cui il privato e il pubblico si trovano inglobati su uno stesso piano.

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Quella sera erano presenti allo spettacolo anche gli studenti della scuola del Teatro Stabile di Torino ai quali è stato chiesto come avessero percepito l’assenza di una narrazione umana.

I ragazzi hanno risposto di essere rimasti molto colpiti da come, nonostante l’assenza di un attore in scena, le macchine potessero comunque risultare tanto espressive. L’interesse dei ragazzi è stato catturato non solo dalle tematiche trattate ma in modo particolare dall’originalità della loro messa in scena.

Nina Margeri


MANFRED – MADALENA REVERSA & CARMELO BENE A CONFRONTO

UN TESTO, DUE INTERPRETAZIONI

Il Festival delle Colline Torinesi ci offre una diversa interpretazione del testo con il quale anche Carmelo Bene si è confrontato.

Nelle due serate del 28 e 29 ottobre 2022, presso la sede della Fondazione Merz, la compagnia Madalena Reversa ha messo in scena una rielaborazione complessa della rappresentazione del Manfred.

Trilogia delle macchine (Oblò / Mind the gap / Automated teller machine) – Stabilemobile/Giuseppe Stellato

Il Festival delle Colline prosegue con il suo undicesimo spettacolo prodotto dalla compagnia stabilemobile. Lo spazio scelto è la Fondazione Merz, dopo Danza Cieca di Virgilio Sieni messo in scena tra il 20 e il 21 di Ottobre, e non è un caso che ad occuparsene sia proprio un museo d’arte. Quello che il pubblico vedrà questa volta non saranno corpi, ma tre oggetti: una lavatrice, un distributore di snack e un bancomat ATM. Può davvero raccontare qualcosa un trittico del genere?

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Teatro&Arte – Una imagen interior, Ecloga XI e La trilogia delle macchine

Dalla 27° edizione del Festival delle Colline Torinesi suggestioni sui tre spettacoli che all’interno della rassegna rappresentano il filone Teatro&Arte. Un viaggio nella poetica dell’umano attraverso il disfarsi delle comunità, la solitudine del maschile e femminile per una mancata redenzione, il perturbante e assordante silenzioso logos delle macchine. Un filo che unisce l’incanto in un crescendo di disgregazione.

“Vorrei renderti visita
nei tuoi regni longinqui
o tu che sempre
fida ritorni alla mia stanza
dai cieli, luna,
e, siccom’io, sai splendere
unicamente dell’altrui speranza”

(Andrea Zanzotto – IX Ecloghe)

“La luce del fuoco toglie spazio alla notte

e concede loro un tempo addizionale.

Un tempo per l’astrazione”.

(Da Una imagen interior testo teatrale di Pablo Gisbert)

In questo “tempo per l’astrazione” i pensieri si espandono, attraversano “regni longinqui” e poi ritornano come la luna di Zanzotto o come gli amori di Venditti.

In questo tempo addizionale mi ritrovo ad abitare i luoghi geometrici dei pensieri e come la donna vestita di bianco di Una imagen interior “considero me stessa una persona molto cerebrale”, la certezza della morte attraversa anche il mio corpo, per più di un secondo, ma che rimane comunque un tempo insufficiente. 

“È impossibile pensare alla morte quando si ha fretta”.

DANZA CIECA – VIRGILIO SIENI

Un incontro tra corpi complici

Tante sedioline, una accanto all’altra, delimitano uno spazio nel quale il pubblico viene subito inghiottito. Prendiamo posto. A disegnare l’ultimo segmento di questo cerchio sono Virgilio Sieni e il danzatore non vedente Giuseppe Comuniello: seduti con la schiena appoggiata al muro, ci osservano. Al centro scorgiamo un tappeto bianco fatto di cartone e, su di esso, due blocchi di argilla. I due danzatori si avvicinano e iniziano ad occupare lo spazio: attraverso i loro corpi modellano l’area circostante disegnando linee curve, segmenti spezzati e forme circolari. Si sfiorano, si sostengono, si guidano, si completano, insieme danzano.

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CONFINI/SCONFINAMENTI – PRESENTAZIONE DELLA 27ESIMA EDIZIONE DEL FESTIVAL DELLE COLLINE

Giovedì 30 giugno, nel suggestivo contesto della Fondazione Mertz, tra grandi spazi vuoti ed opere d’arte, il Festival delle colline torinesi ha presentato il programma della sua 27esima edizione, che si svolgerà dall’11 ottobre al 6 novembre 2022. Dalla scorsa edizione infatti, il festival è diventato un vero e proprio festival d’autunno, come ha rimarcato anche il direttore artistico Sergio Ariotti, durante la conferenza di presentazione

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SUNNY SUNDAY (LAST BUT NOT LAST) – LINA MAJDALANIE E RABIH MROUÉ

Il pubblico del Festival delle Colline è invitato alla Fondazione Merz ad un matrimonio molto strano che mescola vivi e morti, finzione e realtà, fiaba e politica. Lina Majdalanie e Rabih Mroué ci trasportano in una domenica di sole, nel 2016, in una piccola chiesa, in una piccola città della Polonia. Si tratta di un fatto realmente accaduto: la commemorazione del militare polacco e eroe nazionale Witold Pilecki. Ricordato in particolare per essersi infiltrato, durante la Seconda Guerra Mondiale, nel lager di Auschwitz, tre anni dopo la fine della guerra fu condannato a morte e trucidato per ordine del regime sovietico.

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ALL AROUND – METTE INGVARTSEN / WILL GUTHRIE

È impossibile spiegare ciò che la danzatrice danese Mette Ingvartsen e il batterista Will Guthrie hanno fatto accadere nella performance All Around. Una danza guidata da un unico assolo di batteria, che trasporta lo spettatore dentro a un mondo di ritualità e trance unico nel suo genere.

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– GEOGRAFIA UMANA –

 

 Due spettacoli a confronto – LA DIMORA DEL VOLTO ed EXIBITION

“Bisogna intendere la geografia non come un contenitore chiuso dove gli uomini si lasciano osservare ma come un mezzo con cui essi realizzano la loro esistenza, essendo la Terra una possibilità essenziale del destino umano.” – (Eric Dardel)

La Geografia Umana si occupa dei luoghi sia in termini oggettivi che in termini soggettivi come spazi emotivamente vissuti. Il luogo è un posto preciso che ha specifiche caratteristiche fisiche, culturali e sociali che lo rendono unico. Riveste inoltre una funzione molto importante perché consente alle identità umane di avere un punto di riferimento. Questo attaccamento emozionale, sviluppa un senso del luogo che genera un senso di appartenenza condiviso con altri individui che abitano quello stesso determinato luogo.

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