Tutti gli articoli di Emanuele Biganzoli

Animali Da BAR – Carrozzeria orfeo

C’era una volta una metropoli. Dentro la metropoli un quartiere. Dentro al quartiere, il bar.

Vincitore del Premio Hystrio Twister 2016, Animali da bar giunge in tournèe anche a Torino al Teatro Gobetti. Scritto da Gabriele Di Luca, la compagnia Carrozzeria Orfeo chiude con questo spettacolo la trilogia inaugurata con Cous Cous Klan e Thank for Vaselina.

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Dio ride – nish Koshe, moni ovadia

La storia del popolo ebraico è una storia in viaggio, una diaspora che dalle origini continua fino ai giorni nostri. Migrazione e dannazione, conducono il popolo ebraico in tutto il mondo; la dispersione come loro condanna, esilio trasformato in forza, che si trasforma in un agglomerato ammassato di cadaveri nei ghetti, nei treni, nei lager nazisti. Morte, e di nuovo dispersione. Cenere. Una storia intrisa di religione, l’attesa di un Salvatore, di un Messia, ma anche il dubbio dell’esistenza di Dio, durante il supplizio delle violenze ai loro danni, il dubbio dell’essere il popolo eletto.

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La ballata di Johnny e Gill – Fausto Paravidino

Una linea sottile orizzontale, l’universo appiattito, come in un buco nero. L’assenza di tempo e spazio. Una visione dall’alto che è anche visione senza tempo, al di sopra di tutto, primigenia e pura. La fine e l’inizio del mondo. L’anima che si fa Assoluto. Con questi presupposti, lo spettacolo crea il mondo, mondo in cui la necessità, l’imperativo morale è la migrazione. Mondo in cui si erge incontrastata e solinga la torre di Babele, monito del peccato di ubris dell’uomo. Segno della dispersione dell’uomo, diviso in lingue diverse. Gli uomini  tutti fratelli, ben presto si dispersero, chiusi nella loro incomunicabilità, divennero estranei. Ma al centro di tutto c’è sempre un uomo, un uomo qualunque non un santo: Abramo, a cui Dio, dà il compito terrificante di andare a conoscere gli altri uomini. Abramo lascia tutto e parte, non importa se spinto davvero da Dio, o semplicemente dall’impellenza o necessità di viaggiare e conoscere l’altro. Da qui ha origine la nostra civiltà, una civiltà di migrazione continua. La necessità di cambiare la propria condizione esistenziale e materiale verso una terra promessa.

“Vattene dal tuo paese, dalla tua patria / e dalla casa di tuo padre / verso il paese che io ti indicherò”, il Signore ad Abramo.

Fausto Paravidino, il Dramaturg del Teatro Stabile di Torino, mette in scena in qualità di regista e sceneggiatore, oltre che attore, lo spettacolo La Ballata di Johnny e Gill. Uno spettacolo diverso da quelli in cui siamo soliti imbatterci, se bazzichiamo tra le sue opere. Non più i kitchen sink drama degli esordi, da qualche anno Fausto Paravidino fa del teatro diverso, un teatro sempre contemporaneo, che guarda all’attualità per abbracciare tutto quello che offre, quindi anche il suo passato, la Storia tutta. I Fenomeni che vediamo non sono nuovi, ma repliche di azioni che abbiamo già fatto anni addietro. E allora viene spontaneo partire dalla Bibbia, testo cardine della nostra civiltà, testo che ci culla di nascosto fino al contemporaneo.

Lo spettacolo è una fiaba di qualcosa che non capiamo, con cui non riusciamo a fare i conti. La storia è costruita per quadri, riuniti parzialmente da delle dissolvenze in nero. Johnny e Gill sono italiani, sebbene non lo si dica apertamente. Vendono il pesce, ma non sono soddisfatti della loro condizione. Johnny, dopo uno strano sogno con uomini mascherati, forse emissari del Signore o semplicemente incarnazioni dei suoi turbamenti interiori, prende la moglie Gill e l’amico Lucky e decide di andare via dalla sua terra. Attraversano diversi luoghi, emblema di tutte le migrazioni passate e future, luoghi che portano con sé  i mali dell’uomo che non ha ancora accettato la diversità di Babele. Quindi il deserto con le sue carestie e i suoi predoni/terroristi, sciacalli perversi che spolpano la vittima lasciandola in agonia ad assaporare la sua vacanza spirituale tra la sabbia. I soldati corrotti, che invece si divertono a macerare ulteriormente questa carne sopravvissuta al deserto. E infine il mare, calma piatta di una tempesta in agguato. Sale, arsura, onde. Ma dov’è la terra promessa? Eccola! L’America, luogo della mente. Dove tutti sognano di andare. Paese dei Balocchi, dove i sogni saranno realtà. La massiccia immigrazione italiana in America in anni forse dimenticati di proposito, se si nota con quanto odio accogliamo oggi lo straniero. La xenia, l’ospitalità dell’antica Grecia. Era un dovere sacro per i greci ospitare chi chiedeva l’ospitalità. L’America che ci accoglieva, magari non per dovere, ma accoglieva. Cosa che oggi, pare, si sia persa nei meandri della storia, sia America come in Italia.

Johnny e Gill si scontrano con culture e lingue diverse , si sentono estranei. Gli attori nello spettacolo parlano inglese, francese e grammelot. La lingua può essere un ostacolo ma quando c’è volontà di capire, la si capisce. Dio ha punito gli uomini costringendoli a parlare diversamente, ma in questo spettacolo e sia all’esterno di esso, nel mondo delle migrazioni, c’è la necessità di ricongiungere quello che è stato diviso. Johnny e Gill, in questa nuova terra, fanno quello che sanno fare meglio: vendono il pesce. Incontrano il boss locale, ottengono il suo rispetto. Imbattersi nel boss locale, se si apre un’attività nella zona controllata da questo individuo, è un’usanza, un rito. Zeus proteggeva i viandanti, la xenia, Zeus Xenios. Ora a proteggerli c’è il Padrino. Nonostante gli imprevisti la loro attività avrà successo, ecco l’America che dà possibilità, il sogno americano. La loro vita scorre in parallelo a quella di Abramo: Gill/Sara non potrà avere figli e per questo tentano la strada dell’utero in affitto. Da Agar, la donna che si presta a ciò e che ha lo stesso nome anche della schiava di Abramo, nascerà il loro bambino, Ismaele. La gelosia tra Gill e Agar porterà all’allontanamento di questa e del bambino non riconosciuto. Spetterà ad un tassista vestito da Babbo Natale, annunciare la venuta di un bambino: “ Avrete un bambino, ma ricordatevi, donando la vita si dona la morte, il figlio sarà vostro ma non vi apparterrà: un giorno dovrete restituirlo”. Questo Dio camaleontico infonde speranza in ogni cosa. Ecco il bambino, ecco Isacco. Nella nostra epoca un sacrificio di un figlio come sarebbe possibile e visualizzabile? C’è sempre un sacrificio all’angolo della strada. La guerra, la patria che sacrifica i suoi figli, il figlio che torna allo zio Sam che lo richiede. La guerra in Iraq dopo gli attentati di Al-Qaeda, si presta ad inglobare i figli della terra. Ecco il sacrificio. Ma come Dio salva Isacco, anche il figlio di Johnny e Gill è salvo dalla guerra, così continueranno la loro vita in pace.

La guerra e le migrazioni sono fondamentali per capire il nostro tempo, per individuare il punto da sanare che è lì visibile e aspetta solo la cessazione di queste oscenità. Le persone scappano dalle guerre, dalla povertà, da condizioni esistenziali inaccettabili e ha il diritto di farlo, di migliorare la condizioni. Queste persone lasciano tutto per l’ignoto, per una fede in qualcosa che spesso idealizzano, il paradiso ci sarebbe, ma noi abbiamo deciso di chiuderlo, i porti sono chiusi. Noi abbiamo invece il dovere di accogliere, la xenia dovrebbe essere normale, la regola. Le migrazioni sono anche un fenomeno culturale, un fenomeno per ricongiungere i popoli, per riconoscersi attraverso le diversità. Questo lo spettacolo mette in scena con ironia beffarda e riso ammiccante. La fede, la necessità di poter cambiare di senso la torre di Babele, da monito di peccato a un peccato di ubris ancora maggiore, ma bello: la voglia di accogliere e comprendere il diverso. A noi non ci resta che avere fede nei pesciolini gialli: quando siamo tristi pensiamo a loro.

Emanuele Biganzoli

 

Testo e regia Fausto Paravidino
Ideazione Iris Fusetti e Fausto Paravidino
con Federico Brugnone, Iris Fusetti, Fatou Malsert, Daniele Natali, Tibor Ockenfels, Fausto Paravidino,
Aleph Viola
scene Yves Bernard
luci Pascal Noël
video Opificio Ciclope
costumi Arielle Chanty
maschere Stefano Ciammitti
musiche Enrico Melozzi
coreografia Giovanna Velardi
aiuto regia Maria Teresa Berardelli
Le Liberté, scène nationale de Toulon, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Il Rossetti Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, La Criée – Théâtre National de Marseille, Pôle Arts de la Scène
Les Théâtres de la Ville de Luxembourg

La classe operaia va in paradiso – Claudio Longhi

“Su questa terra verrà creato il paradiso migliore che sia, non sarà quello del proletariato, ma sarà quello della borghesia”. Una canzoncina ci culla, accarezzandoci dolcemente, è la Ninna Nanna del capitale di Fausto Amodei.

Claudio Longhi porta in scena al teatro Carignano di Torino lo spettacolo La classe operaia va in paradiso. L’adattamento teatrale dell’omonimo film di Elio Petri del 1971, opera cardine del cinema italiano e necessario per quegli anni, ha l’intento di usare il passato come specchio, o meglio travestimento, parola molto cara al regista, del presente. Il presente che ci troviamo a vivere è un tempo di crisi, in cui le strutture si mettono in discussione, un tempo interessante. Quindi guardare lontano per vedere meglio chi siamo oggi.

Lulù Massa (Lino Guanciale) è un operaio che deve mantenere due famiglie, stakanovista e sostenitore del lavoro a cottimo, grazie al quale, lavorando a ritmi infernali, riesce a guadagnare abbastanza da permettersi l’automobile e altri beni di consumo. Lulù è amato dai padroni, che lo utilizzano come modello per stabilire i ritmi ottimali di produzione, e odiato dai colleghi operai per il suo eccessivo servilismo. Non ha nessuna vita sociale, nessun dialogo con i propri cari, non riesce neppure più ad avere rapporti con la compagna. La sua vita continua in questa totale alienazione, finché un giorno ha un incidente sul lavoro e perde un dito. Sarà da qui che parte la sua discesa sulla terra, dove l’alienazione svanisce un poco per volta. Basta un infortunio per uscire dal paradiso della fabbrica e vergognarsi per la propria condizione di sfruttato. Così Lulù ha maggiore consapevolezza, ma nel mondo di fuori, nuovo ai suoi occhi è disorientato, non sa cosa fare. Lo guidano i suoi due angeli custodi, o meglio coloro che vorrebbero soddisfare tale ruolo, ma che finiscono per essere dei consiglieri mendaci. Lo studente e il sindacalista, il gatto e la volpe, randagi che chiedono l’elemosina, in questo caso di persone, per le loro lotte al padrone, e allo stesso tempo che apparecchiano inganni ai danni degli onesti lavoratori. Inganni che promettono la lotta contro Dio, senza un progetto compiuto e quindi ignaro delle conseguenze. Lulù perderà, a causa delle sue contestazioni, il lavoro, verrà meno la sua ragion d’essere. Ma Dio è misericordioso, e così Lulù sarà redento da questa sua devianza e verrà riammesso in Paradiso.

Lo spettacolo è intriso di Bertolt Brecht, nume tutelare chiamato in causa in diverse circostanze. L’intento di far riflettere su quello che accade sul palcoscenico, ma anche su quello che accade al di fuori, nella vita di tutti i giorni, si amalgama bene attraverso elementi di rottura della continuità scenica, come i personaggi di Pirro e Petri, e soprattutto dalla figura del narratore, un cantastorie che rilassa il pubblico con canzoni di Fausto Amodei, per poi spronarlo a continuare la sua riflessione. L’attualità è ampiamente evocata: dal lavoro al conflitto con il femminile, attraverso la figura di Adalgisa, una giovane all’interno del mondo virile della fabbrica, ma anche i rapporti familiari. La famiglia è il risultato di tutto ciò che si acquista. Il visone come stato sociale, per citare l’attrice. Abbiamo indossato tutti un visone e ora non sappiamo più riconoscere la nostra pelle naturale, viviamo in una società che tende a coprire le nostre individualità. Una società in cui l’unica via di fuga non è rappresentata da Lulù, che viene inglobato di nuovo nella fabbrica, ma da Militina, figura da tragedia antica. Un pazzo che vede la contemporaneità e chissà forse anche il futuro. Capace di sognare l’utopia per essere profeta di una rivoluzione.

Uno spettacolo necessario, intenso, che oltre a deliziare le nostre papille emotive ci induce a chiederci che cosa sia oggi il proletariato. La risposta a questa domanda sarò una lunga quete tra i meandri della nostra società, forse appagata solo alla fine dalla semplice constatazione che oggi il proletariato è tutto ciò che sogna non di andare in Paradiso, ma di avere un posto da vivere pienamente fuori da esso.

“Proletari di tutto il mondo unitevi!”. Una vocina ci reca fastidio, ma presto scompare, silenzio. Cos’era? Tendiamo di nuovo l’orecchio, ma nulla. Distratta, la gente se ne va. Ma chi era? Forse proprio Lulù Massa? O quello studente fracassone e perdigiorno? E il sindacalista? No per carità! A casa presto, che domani si lavora. Era il Militina!!!

Emanuele Biganzoli

Liberamente tratto dal film di Elio Petri (sceneggiatura Elio Petri e Ugo Pirro)
di Paolo Di Paolo
con Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo, Filippo Zattini
regia Claudio Longhi
scene Guia Buzzi
costumi Gianluca Sbicca
luci Vincenzo Bonaffini
video Riccardo Frati
musiche e arrangiamenti Filippo Zattini
regista assistente Giacomo Pedini
assistente alla regia volontario Daniel Vincenzo Papa De Dios
Emilia Romagna Teatro Fondazione

Moliere / Il misantropo

Don Giovanni non stringere la mano del Commendatore, non lo fare!
Nel momento che lo fa, Don Giovanni viene trascinato all’Inferno, la punizione divina. Ma questo Inferno non è il classico inferno di cui noi supponiamo le caratteristiche. La punizione di Don Giovanni è ben maggiore. Il suo Inferno è in terra, dove sempre ha scorrazzato tra una preda e l’altra, il suo terreno di conquista. Ora si è reincarnato in un misantropo, da uomo decadente che viveva per il piacere della conquista è diventato un uomo che si sente superiore agli altri e li odia per la loro ipocrisia. Conserva lo stesso le sue qualità fisiche, il suo fascino irresistibile, ma non sa più come confrontarsi con l’universo femminile. Vive una relazione morbosa, di amore profondo e intenso per la sua Celimene, non può fare a meno di lei, ma al contempo la odia profondamente per le sue scappatelle con gli spasimanti.

Valter Malosti, direttore artistico del TPE, mette in scena al Teatro Astra di Torino lo spettacolo Moliere / Il misantropo.
Un grande affresco in chiaroscuro di “Diana e Attenone” del Pitocchetto quale fondo del boccascena, un palco bianco rialzato, una specie di ring con ai lati delle sedie. I personaggi si fanno allo stesso tempo spettatori di quello che sta accadendo, della trasformazione del Don Giovanni in Misantropo, che nel suo ring tiranneggia sulla stupidità umana e cade sotto la pugna dell’amore.
Gli attori, vestiti con abiti brillanti e moderni, prendono posto attorno a questo ipotetico palco/ring, le luci platea accese, si odono suoni come se si fosse in campagna compreso i cinguettii d’uccelli. Quasi un direttore d’orchestra, Alceste imita e sollecita cigolii e suoni, accompagnando lo scemare delle luci.
Lo spettacolo scandisce a pendolo riflessioni sulla contemporaneità, bagliori brechtiani si nascondono tra le ombre delle parole di Moliere. Un lucido saggio sul desiderio e l’impossibilità di esaudirlo, sul conflitto tra uomo e donna, uomo e società, uomo e cosmo. Il rapporto di Alceste e Célimène diventa quindi un violentissimo agone, una resa dei conti la cui posta in gioco è – per citare proprio Lacan – la Verità come “ciò che sempre resiste all’intelligenza”.


Alceste e Don Giovanni diventano i due volti di una lotta totale e disperata contro l’ipocrisia e il compromesso su cui è costruita la civiltà. L’Alceste di Malosti è un filosofo,un buffone che non rinuncia alla sottile linea comica, al farsesco che innerva il protagonista. Alceste si fa marionetta pendente dalla labbra di chi gli sta attorno. Tutti lo odiano, tutti lo desiderano, tutti tendono i fili di questa marionetta che si è ribellata. Non ci sta a vivere in un mondo vuoto, stupido, ma allo stesso tempo è costretta ad attaccarsi a qualcosa di questo mondo, alla sua Celimene. Unica via di fuga possibile è scappare in un posto lontano, via da questo inquinamento sociale, scappare con la sua Celimene, ma lei non è in grado di donarsi così ad un uomo. Don Giovanni prova la sua ultima fatica, a strappare la sua amata dalla propria aia di spasimanti, per potersi redimere. Fallisce, non si scappa all’Inferno, e allora non resta che farsi marionetta e farsi gioco per il piacere di altri.
E questo vale anche per noi.

Emanuele Biganzoli
Michela Cicilano

produzione TPE

VERSIONE ITALIANA E ADATTAMENTO
FABRIZIO SINISI E VALTER MALOSTI

UNO SPETTACOLO DI VALTER MALOSTI

ALCESTE … VALTER MALOSTI
CÉLIMÈNE … ANNA DELLA ROSA
ARSINOÉ … SARA BERTELÀ
ORONTE … EDOARDO RIBATTO
ELIANTE … ROBERTA LANAVE
FILINTO … PAOLO GIANGRASSO
CLITANDRO … MATTEO BAIARDI
ACASTE … MARCELLO SPINETTA

COSTUMI GRAZIA MATERIA
SCENE GREGORIO ZURLA
LUCI FRANCESCO DELL’ELBA
CURA DEL MOVIMENTO ALESSIO MARIA ROMANO
ASSISTENTE ALLA REGIA ELENA SERRA
CANZONE BRUNO DE FRANCESCHI
AL CONTRABBASSO FURIO DI CASTRI

PRODUZIONE TPE – TEATRO PIEMONTE EUROPA
TEATRO CARCANO CENTRO D’ARTE CONTEMPORANEA
LUGANOINSCENA
IN COLLABORAZIONE CON INTESA SANPAOLO

Arlecchino servitore di due padroni – Valerio Binasco

Fazz umilissima reverenza a tutti lor siori.

Come Arlecchino fa il suo ingresso in scena in casa di Pantalone, così Valerio Binasco, Direttore artistico del Teatro Stabile di Torino,  con il suo  spettacolo Arlecchino Servitore di due padroni, si fa spazio con umilissima reverenza nel salotto dei registi che hanno portato in scena uno dei testi goldoniani più famosi.  Arlecchino è un servo che entra in una casa in cui si sta consumando una festa di matrimonio. Con umiltà si presenta , ma allo stesso tempo ha quell’aria spavalda, forse ironica di chi sa già che quella sua interruzione avrà delle conseguenze interessanti. Binasco dopo l’inchino ad un maestro come Strehler, lo saluta con un sorriso impetuoso sapendo di fare altra cosa.

foto di Bepi Caroli

Lo spettatore è disorientato, le sue certezze si dissolvono, affondato nella  danza macabra in cui i due sposi e gli altri personaggi presenti al matrimonio si esibiscono per festeggiare. Marionette, corpi quasi paralizzati a cui è permesso solo un movimento a scatti, lento. Una festa mortuaria, o meglio che nasce da una morte, quella di Federico Rasponi. La sua morte ha permesso il matrimonio tra Silvio e Clarice, ma ben presto questo matrimonio sarà paralizzato, bloccato dalla comparsa di un servo che vuole annunciare il suo padrone: Federico Rasponi. Non troviamo nello spettacolo la comicità, il gioco fisico, il lazzo di Strehler oppure il lavoro di destrutturazione della tradizione, spogliata dagli orpelli e attualizzata, di Antonio Latella. Binasco si allontana da tutto questo. Pur rispettando il testo goldoniano con poche aggiunte personali, rende Il servitore di due padroni, molto cupo, con una comicità velata di tragico. I lazzi distraggono dalla storia che sta avvenendo, allontanando lo spettatore. Quei pochi che mantiene non si prendono la scena, ottengono sì la risata, ma non sono mai fini a se stessi. Arlecchino non è la maschera su cui ruotano gli altri personaggi, ma un personaggio come gli altri. Una volta spostata l’attenzione sulla storia si può capire come questa sia una storia tragica. Binasco, come ha detto all’incontro di Retroscena dedicato allo spettacolo,  ha voluto come cuore narrativo l’incontro tra i due amanti. Una scena di grande potenza liberatoria, in cui i due amanti che pensavano che il rispettivo partner fosse morto, si incontrano e piangono dalla gioia. Già nello spettacolo La Tempesta il motore della storia erano due persone divise, che poi si incontreranno. Momento spesso relegato in secondo piano. Nell’Arlecchino, sono due le coppie che vengono separate dai genitori. Arlecchino si pone come elemento di disturbo, un personaggio molto tetro che fa disperare due persone, Beatrice e Florindo. Binasco parte dalla domanda “se questa storia fosse vera?”, per creare il suo spettacolo. Spettacolo che vuole mostrare la verità della drammaturgia goldoniana, perché tutto quello che accade è in quel testo e  non inventato dal regista.

Chi può essere Arlecchino in una storia vera, nella società contemporanea?  L’Arlecchino di Natalino Balasso è il vero Arlecchino e l’attore ci fa capire come questa figura non rappresenti solo un marito divorziato che ha bisogno di lavori, ma può anche essere una ragazza che ha un figlio e deve poter vivere. In questo sta tutta la tragicità, sempre attuale di Arlecchino. Natalino Balasso è stato scelto da Binasco perché, a suo parere, l’attore mostrava un’aria impaurita e tenera allo stesso tempo, con la capacità di essere comico suo malgrado.

foto di Bepi Caroli

Il teatro di Binasco è un teatro d’attore, un teatro che vive e si modifica in continuazione. La sua regia è molto influenzata dalla sua interiorità attoriale. Gli attori di questo spettacolo sono consapevoli che il loro lavoro sul personaggio non viene fissato e replicato sempre uguale, ma è in continua evoluzione, per arrivare a capire ogni sfaccettatura del personaggio che interpretano. Un ulteriore lavoro è condotto dal regista per dare tridimensionalità e non nascondere personaggi che ad una visione addormentata possono risultare secondari. Un esempio può essere Florindo, spesso relegato a semplice amante di Beatrice: Florindo è un assassino che uccide Federico Rasponi per poter amare Beatrice, e questo suo lato tragico viene spesso sottolineato, un personaggio doppio, il tragico che si fonde nel buffo, come si può dire di tutto lo spettacolo.

È molto presente anche il tema della sopraffazione: padre-figlia, famiglia-coppia di amanti, padrone-servo. Siamo in un mondo in cui la donna ha bisogno di libertà, e questo risalta molto nello spettacolo. Qui le donne non hanno diritto di scelta e per ottenere quello che gli spetta devono camuffarsi da uomini, o chiedere al padrone il permesso. Binasco va in questa direzione fino a dove Goldoni lo permette, senza cadere in un dramma familiare. Lascia alla serva di Pantalone, Smeraldina, l’invettiva su la necessità di libertà da parte della donna e cerca di scuotere Clarice, proibendogli di continuare a far teatro per imporre i propri voleri e le scelte.

foto di Bepi Caroli

Uno spettacolo davvero riuscito. Non è mai facile riproporre un testo già affrontato ripetute volte in precedenza con intenti diversi anche secondo l’occorrenza dei momenti storici in cui veniva portato in scena, soprattutto se il confronto e l’immaginario collettivo porta subito a Strehler. Binasco non cade nella trappola didascalica o di omaggio al grande regista del passato, ma trova la sua strada. Una strada nuova, per ricercare la verità; la trova e ci mostra una storia cupa, tragi-comica di persone che in fondo cercano solo di amarsi o sopravvivere, ma che per farlo in una società in cui conta la pecunia o l’interesse privato, si uccide, si vende, o si mangia. Come all’inizio Arlecchino/ Balasso fa la sua comparsa in scena in punta di piedi, quasi non vorrebbe essere lì, vergognandosi, così alla fine sempre in punta di piedi chiede la mano di Smeraldina, senza esagerare sapendo che lui è un servo e sta chiedendo troppo. Lo spettacolo non ci dà risposte certe, non sappiamo se accettano la loro unione, forse possiamo immaginare che andrà così, ma non ci è dato saperlo. L’atmosfera cupa, accentuata dalla musica, è sempre in agguato anche in una delle scene più riuscite, quella in cui Arlecchino dichiara a Smeraldina il suo amore, con tutta la sua goffaggine buffa, una semplicità commovente. Ci sentiamo un po’ tutti Arlecchino e Smeraldina.  Già ci pregustiamo un finale romantico, dove alle due coppie si accosta un’altra, più semplice la loro, ma non sarà così. La festa c’è ma ci fa tornare in mente la danza macabra della festa iniziale.

Si ride notevolmente, ci si commuove, ma siamo subito portati con i piedi per terra perché intuiamo che c’è qualcosa che non va. Non ci resta che fare un umilissima reverenza a Valerio Binasco.

Emanuele Biganzoli

 

di Carlo Goldoni
con (in ordine alfabetico) Natalino Balasso (Arlecchino), Fabrizio Contri (il Dottore), Marta Cortellazzo Wiel (Smeraldina), Michele Di Mauro (Pantalone), Lucio De Francesco (servitore), Denis Fasolo (Silvio), Elena Gigliotti (Clarice), Gianmaria Martini (Florindo), Elisabetta Mazzullo (Beatrice), Ivan Zerbinati (Brighella)
regia Valerio Binasco
scene Guido Fiorato
costumi Sandra Cardini
luci Pasquale Mari
musiche Arturo Annecchino
regista assistente Simone Luglio
assistente scene Anna Varaldo
assistente costumi Chiara Lanzillotta
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
con il sostegno di Fondazione CRT

FDCT23 – Birdie

Melilla. Cittadina spagnola autonoma dal 1995 in territorio Africano, sulla costa orientale del Marocco. Cristiani spagnoli, musulmani, ebrei convivono senza scontri. Come amano passare il tempo libero gli abitanti? Praticando sport all’aperto. Fin qui tutto normale. La sua peculiarità? Una recinzione metallica molto alta che circonda la città, costruita per bloccare l’ingresso dei migranti che tentano di entrare. Ora non già poi così tanto normale. Piccolo paradiso elitario in cui non si è tutti uguali, dove un dio di pelle chiara ha deciso di tenere fuori dai confini di Schengen i cosiddetti Mori.

Stanno arrivando, stanno arrivando!

La compagnia catalana Agrupacion Senor Serrano mette in scena per il Festival Delle Colline Torinesi Birdie. Spettacolo non banale o comune sul tema dell’ immigrazione. Gli immigrati sono paragonati agli uccelli del film omonimo di Alfred Hitchcock: come essi fanno paura e stanno arrivando! Una Voice Over  fa da narratore, dividendo lo spettacolo in quattro atti e raccontando una tipica giornata di Melilla, una giornata come tutte le altre, e come al solito piena di contraddizioni. Quattro attori, due che usano una videocamera e una tavoletta elettronica da disegno, uno che li supporta al computer occupandosi degli spezzoni del film, della voce narrante e della proiezione della videocamera, la quarta attrice seduta immobile fino alla fine dello spettacolo, simboleggiando un migrante che sta seduto ore sulla recinzione e quando si sente pronto si desta e vola come un uccello. La videocamera filtra cartoline della città di Melilla, un campo da golf in miniatura e i veri protagonisti dello spettacolo, modellini di animali di ogni specie.

Gli uccelli ci vogliono ammazzare, mamma!

Basterebbe questa frase per descrivere lo spettacolo e quello che sta accadendo nella nostra società. Se negli anni novanta si è cominciato a chiudere le città, ad innalzare una barriera, non memori dell’altra barriera caduta pochi anni prima a Berlino, ora non si sono fatti passi avanti. Se da una parte la sensibilità, l’attenzione verso gli immigrati è aumentata anche in positivo, si cerca di aiutarli, dall’altra le persone li odiano sempre di più e ne hanno paura, un memento di questo i nuovi muri e i porti chiusi.

Non finiranno più queste migrazioni?

C’è una forte sensazione che le persone stiano diventando sempre di più individualiste, trincerate dietro a scuse banali e spesso false. Un misto di egoismo e disprezzo del prossimo che chiede solo aiuto. Probabilmente non si ci accorge sbadatamente, o non si piò capire che questa gentaglia che viene dal mare e non solo, ha sofferto l’inimmaginabile. Vedono al nostra terra come un paradiso, e sentendoci padroni di questo paradiso ne chiudiamo i cancelli, innalziamo barriere. Lo sbaglio razzista, oltre che nel diniego di un aiuto, sta nel non capire una possibilità di un arricchimento culturale oltre che demografico.

Inoltre, lo spettacolo ci vuole mostrare che siamo tutti uguali, un popolo migratore come gli uccelli. Dall’alba dei tempi fino ad oggi, animali e uomini hanno viaggiato per trovare un posto dove poter vivere bene, secondo i propri fabbisogni e piaceri. Un movimento continuo, di città in città per lavoro, sport, vacanze etc.

La voce narrante ci dice che a Melilla vive un fotografo e come ogni mattina va in città a fare fotografie. Fotografa un campo da golf in cui due persone stanno giocando, sullo sfondo la recinzione con uomini a cavalcioni, dei migranti e poco più in là un poliziotto. Una foto all’apparenza normale,  può avere diversi piani di lettura, se osservata correttamente. I punti di vista dei personaggi formano la sezione aurea dell’immagine, mostrandone la sua perfezione. La voce narrante inoltre ci dice cosa pensano le persone in quest’immagine, creando dei divertenti e curiosi soliloqui.

Giochi di luce colorata e fumo ci immergono in un mondo altro, un’atmosfera da creazione del mondo, poi avvallata da video di una pallina da golf che muovendosi velocemente si scuote  producendo vita o prefigurazione dello sballottamento degli esseri viventi nella loro migrazione eterna. Una lunga fila di modellini di animali, ripresi dalla videocamera, attraversano le diverse ere e stravolgimenti climatici, in cammino verso un futuro lontano che è il nostro presente: questa lunga migrazione terminerà con un mucchio di animali che si arrampica sulla barriera di Melilla. Quegli animali simboleggiano il viaggio dei migranti, il viaggio degli uomini. Un uccello dall’alto guarda cosa accade nella barriera e non capisce. Finalmente il migrante si desta e prende il volo.

Uno spettacolo molto riuscito, che ci presenta un tema molto caldo, in una luce tutta nuova, ma non per questo inefficace. Inoltre ci mostra l’insensatezza di avere paura e bloccare dei migranti, perché tutti noi siamo migranti. Hitchcock diceva  che gli uccelli del suo film non esistono ma sono solo proiezioni della paura di Melania Daniels. Come quegli uccelli sono innocui anche i migranti lo sono, ma qualche persona cala in loro paure e frustrazioni proprie derivate da altre situazioni. Capro espiatorio di una società sempre più globalizzata.

Al “prima gli italiani”, “american first”, ai nazionalismi, populismi  e tante altre forme di disinformazione raccapriccianti, dovremmo contrapporre il “prima la vita”, perché la vita e la terra sono di tutti e il diritto a stare in paradiso, se si può chiamare così, spetta anche ai popoli di altre nazionalità.

Emanuele Biganzoli

 

di Agrupación Señor Serrano
regia Agrupación Señor Serrano

ideazione Àlex Serrano, Pau Palacios e Ferran Dordal
performance Ferran Dordal, Vicenç Viaplana e David Muñiz
voce Simone Milsdochter
project manager Barbara Bloin
light design e programmazione video Alberto Barberá
colonna sonora Roger Costa Vendrell
creazioni video Vicenç Viaplana
modellini Saray Ledesma e Nuria Manzano
costumi Nuria Manzano
assistente di produzione Marta Baran
consulente scientifico Irene Lapuente / La Mandarina de Newton
consulente progettuale Víctor Molina
consulente legale Cristina Soler
management Art Republic
distribuzione in Italia Ilaria Mancia

in collaborazione con Piemonte dal Vivo

FDCT23-Summerless

Teheran vent’anni dopo la rivoluzione. Uno spaccato di società o meglio una società spaccata, piena di contraddizioni nella sua storia grande come in quella piccola di donne e uomini, e bambini che vanno a scuola. È difficile per noi capire fino in fondo quella parte di mondo, il Medio Oriente, con le sue terre devastate da guerre intestine e internazionali, contraddizioni religiose e civili, e ora  ancora di più attuali. L’Iran repubblica islamica dalla fine degli anni settanta, è uno degli stati più influenti e potenti della regione, sebbene le contraddizioni, di una società sempre più chiusa e integralista, non si fanno attendere, aggravate ulteriormente dall’embargo occidentale. Tutto questo nello spettacolo non c’è, non viene detto, ma è come se trasudasse dalle pareti della scuola, lo si percepisce nascosto tra le parole sconsolate della gente. Persone che non ci stanno, persone che nel loro piccolo pongono domande per comprendere, capire qualcosa che non sta accadendo come dovrebbe. Le domande di una mamma al maestro, sono le domande della maggioranza di un popolo che vuole un Iran senza restrizioni.

Il regista iraniano Amir Reza Koohestani, da tempo molto apprezzato nella scena internazionale, mette in scena Summerless ,in seconda rappresentazione europea, alla ventitreesima edizione del Festival delle Colline Torinesi. Uno spettacolo in lingua farsi che vuole indagare i rapporti tra diverse generazioni, tra i figli che aspirano a un cambiamento, a una vita in una società diversa e a scoprire il mondo, e i padri troppo ancorati ad un sistema di controllo, che  accettano perché hanno conosciuto solo quel sistema. Koohestani sceglie, come microcosmo per mostrare le trasformazioni che stanno avvenendo nella società iraniana, una scuola elementare. Un arco temporale di nove mesi,  scandito in tre stagioni, il periodo scolastico, in cui appunto, come si intuisce dal titolo, manca il periodo estivo. L’estate viene evocata come tempo futuro, lontano, dove i nostri protagonisti non vivono perché la scuola è chiusa, un tempo di sogno, utopia di un futuro migliore.

Tre personaggi: una sorvegliante, un pittore e una madre. Il pittore in passato viveva con la sorvegliante, ma avendo intenzioni di vita differenti si sono separati.  La sorvegliante viene incaricata di abbellire la scuola e creare laboratori. Non conoscendo altri,  chiama il pittore e gli dà la possibilità di insegnare arte in uno dei laboratori e di dipingere il muro. Si intravedono le prime crepe. Lui accetta il lavoro per guadagnare qualcosa e riconciliarsi con la donna, ma non verrà pagato. Inoltre il muro deve essere ridipinto perché ha ancora delle scritte propagandistiche  del vecchia dittatura. Parole che i bambini vedono continuamente, simbolo di una tara del passato che fa fatica a scomparire. Se si copre una crepa, mettendola da parte come cosa di poco conto, al minimo scossone si ingigantisce e poi crolla tutto. Così questi problemi si insinuano anche in un muro dipinto. Il pittore incontra una giovane madre in attesa della sua bambina nel cortile della scuola, le parla e si fa raccontare chi sia la sua bambina e il papà. Decide di dipingere la bambina con la madre e il padre. Costretto a cancellare il dipinto perchè si intravede ancora qualche scritta, decide di andarsene e continuare la sua vita da pittore in provincia. Una sua alunna crede di essere innamorata del maestro, ed è distrutta quando capisce che lui se ne va. Inoltre la madre, intravedendo sotto il bianco l’immagine di un uomo che tiene per mano la bambina,  comincia a pensare che il maestro nasconda qualcosa. Voci aggravate dagli altri genitori. La quiete tornerà quando si chiarirà col maestro e quando ci sarà un incontro tra lui e la bambina, per farla guarire dai suoi problemi. Non mangiava più, voleva vedere solo il maestro. Come è cominciato in punta di piedi, lo spettacolo finisce altrettanto, con la bambina che spinge la giostra in cortile, sogno di uno stravolgimento delle situazioni, sogno verso un futuro, forse adesso un po’ più dolce.

Uno spettacolo semplice nel suo sviluppo, che volutamente non intende mostrare apertamente tutti i problemi di una società che non riesce a scrollarsi di dosso il passato. Il regista li cela sotto altre situazioni, sotto simboli e piano piano piano i drammi vengono alla luce, uno dopo l’altro, forse con ancora più  forza. Siamo calati in una società dove la povertà delle strutture, come appunto le scuole, è diffusa, in cui i genitori non riescono a capire il motivo per cui pagare più tasse scolastiche, meglio più tasse in generale. Più welfare, più tasse diremmo noi. Una società che vuole farsi aperta, ma che grava i cittadini di limitazioni, addirittura i bambini nelle scuole, mentre queste nuove generazioni non le comprendono, aspirano a qualcosa di nuovo.

Amir Reza Koohestani ci mostra la speranza di un futuro forse migliore se certe limitazioni culturali saranno dissipate, e ci aiuta a spostare un poco più in là il nostro sguardo  sull’Iran.

Emanuele Biganzoli

 

di Amir Reza Koohestani
regia Amir Reza Koohestani

scenografia Shahryar Hatami
costumi Shima Mirhamidi
video Davoud Sadri e Ali Shirkhodaei
musica Ankido Darash
interpreti Mona Ahmadi, Saeid Changizian, Leyli Rashidi
soprattitoli in italiano Laura Bevione per Festival delle Colline Torinesi/Fondazione TPE

produzione Mehr Theatre Group
coproduzione con Kunstenfestivaldesarts, Festival d’Avignon, Festival delle Colline Torinesi / Fondazione TPE, La Bâtie – Festival de Genève, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt am Main, Théâtre National de Bretagne, Münchner Kammerspiele, La Filature – Scène nationale de Mulhouse, Théâtre populaire romand

Questa terra è malata!

Questa terra è malata. Il mondo della Grecia antica preso ad emblema del nostro mondo contemporaneo, passando dall’Antico Testamento alla Danimarca amletica, da un mondo in cui il dio è morto, arrivando, possiamo dire, anche alla Los Angeles di Altman.  Il sacrificio come aeterna conditio del genere umano.

Ifigenia Liberata. Foto ©Masiar Pasquali

Carmelo Rifici mette in scena la tragedia di Euripide, Ifigenia in Aulide, attualizzandola, ma forse meglio dire universalizzandola. Lo spettatore viene spiazzato dalla presenza degli attori in scena a sipario aperto  fin da prima che lo spettacolo cominci, e da un buio che si fa attendere. Il pubblico non si accorge subito dell’inizio, continuando la sua parte di disturbatore. Appena ritrova le condizioni “comuni” di uno spettacolo, presto si acquieta.

Uno spettacolo che ammicca al teatro di Brecht, nel proporre una riflessione su diversi temi a partire da Ifigenia, attraversando diversi autori che hanno inciso nella cultura della propria epoca e di quelle successive: Eraclito, Omero, Eschilo, Sofocle, Renè Girard, Freidrich Nietzsche, e la Bibbia per fare qualche esempio. Uno straniamento dello spettatore e allo stesso tempo dell’attore, che si percepisce fin da subito, quando l’attore che interpreta la parte del regista (Tindaro Granata), spiega al pubblico l’impostazione dello spettacolo. Un teatro nel teatro, dove gli attori vengo diretti da un regista e una drammaturga (Mariangela Granelli) nel mettere in scena prima l’uccisione di Abele da parte di Caino, e poi varie scene dell’Ifigenia in Aulide di Euripide. Ogni scena è intervallata da riflessioni  del regista o della drammaturga, forse a volte un po’ scontate, rivolte al pubblico o agli stessi attori, che a volte non riescono a cogliere il senso di quello che stanno facendo. In questi intermezzi gli attori rimangono come sospesi  in un altro tempo, mentre lo spettatore è portato a ragionare sul perché i Greci accettano di sacrificare una fanciulla innocente. Lo spettacolo non perde di ritmo in questi frangenti, un’energia che subito si sprigiona quando gli attori riprendono a recitare. Attori di grande intensità e presenza fisica, che appena sono chiamati in causa dominano la scena, come dei veri condottieri , uomini valorosi che si trovano davanti ad una scelta difficile: Agamennone ( Edoardo Ribatto) , Menelao (Vincenzo Giordano), Odisseo (Igor Horvat). Anche le donne non sono da meno, forse mostrano più fragilità, incredulità, arrendevolezza, con corpi minuti, ma dolci con movimenti più sereni, forse già arresi al destino rispetto a quelli degli uomini: Clitemnestra (Giorgia Senesi), che deve cercare di mantenere l’onore dei suoi figli, e Ifigenia (Anahì Traversi). Al coro delle donne del popolo, le donne di paese diremmo oggi, che mostrano ,da un lato una conoscenza semplice delle situazioni, ma sognatrice, che si fanno influenzare dalle circostanze senza rifletterci, e dall’altro una misteriosa preveggenza, portatrici dei caratteri di una società, è affidato il compito di commentare quello che sta accadendo ai Greci, e di attualizzarlo, il tutto con un ritmo incalzante. Se si va a conquistare le loro città e stuprare le loro donne, non possiamo lamentarci troppo se loro poi verranno a conquistarci, così una frase del coro.

Ifigenia Liberata. Foto ©Masiar Pasquali

La scenografia è quella semplice di una sala prove, qualche sedia, una scrivania per la drammaturga che in scena scriverà il finale e uno schermo, in cui sono proiettati video in presa diretta di scene che avvengono fuori dal portone principale, un luogo separato dalla realtà, dove accadono solo eventi di grande portata, come per esempio l’uccisione di Abele o il sacrificio di Ifigenia. La musica è dal vivo con il musicista Zeno Gabaglio che suona diversi strumenti, tra cui spicca il contrabbasso che accompagna con la sua musica grave le scene più accese.

Veniamo al sacrificio. La bonaccia che costringeva all’esercito greco di rimanere nei terreni paludosi della pianura di Aulide, e poi la guerra che avrebbero voluto intraprendere, sono solo un pretesto per sfuggire ai loro peccati, ai mali. Senza guerra si massacrerebbero tra di loro, ci sarebbero guerre fratricide. Quindi si decide, con un certo sollievo (Agamennone prova un po’ di sollievo quando prende quella scelta, l’esercito reclamava il sangue che gli spettava), di scaricare le proprie colpe su altri.

Ifigenia Liberata. Foto ©Masiar Pasquali

Un sacrificio per redimere la Grecia intera, forse potremmo anche azzardare un sacrificio che è una costante di ogni epoca, un mito di cui si ha bisogno per forgiare la propria cultura. Qualcuno che si carica su di sè gli errori dell’umanità. Se si libera il male, il male contamina come la peste le persone e se si uccide il minotauro bisogna pagarne il prezzo. Allora l’unica via di scampo è tornare a racchiudere il male. Ifigenia accetta una morte gloriosa per la Grecia, accetta il suo compito per evitare catastrofi ulteriori, come Gesù accetta la crocifissione assorbendo tutti i peccati. Al destino non si sfugge. Nemmeno un vecchio, simbolo dell’uomo qualunque tentando di salvare Ifigenia, si accorge della  sua impotenza, l’impotenza dell’uomo di fronte al fatto. Ma perchè la dea vuole questo sacrificio? Gli dei sono esseri altri, imperscrutabili e a noi non è dato capire il loro scopo.

E qui si ricollega il senso ultimo dello spettacolo: la drammaturgia che non trova modo di far terminare la tragedia se non tramite il sacrificio di Ifigenia per dare un senso a tutta la vicenda, mentre per il regista il vero senso di questa vicenda umana, e quindi dello spettacolo, sta nel parlare di questo fatto per tentare di comprenderlo.

I classici sono sempre contemporanei, parlano anche al nostro presente; temi e miti fondanti della nostra umanità si protraggono fino ad oggi. Forse siamo impotenti davanti al divenire di certi voleri, ma a noi è dato il compito di riflettere, di capire, per poi poter avere una lieve forza per cambiare le situazioni. Far in modo che il sacrificio di Ifigenia, di Cristo e di ogni persona che viene cancellata per volere di una bomba, non sia stato invano e non si perda nella memoria del mito.

Emanuele Biganzoli e Roberto Lentinello

 

Produzione: Luganoinscena / in coproduzione con Lac Lugano Arte e Cultura, Piccolo Teatro Milano – Teatro Europa, Azimut in collaborazione con Spoleto Festival dei due mondi, Theater Chur, con il sostegno di Pro Helvetia, fondazione svizzera per la cultura.

Ispirato ai testi di Eraclito, Omero, Eschilo, Sofocle, Euripide, Antico e Nuovo Testamento, Friedrich Nietzsche, René Girard, Giuseppe Fornari

Progetto e drammaturgia: Angela Demattè e Carmelo Rifici

Regia: Carmelo Rifici

Interpreti: Caterina Carpio (corifea, ominide), Giovanni Crippa ( Calcante, Vecchio), Zeno Gabaglio (musicista), Vincenzo Giordano (Menelao, ominide), Tindaro Granata (regista), Mariangela Granelli (drammaturga), Igor Horvat (Odisseo, ominide), Francesca Porrini (corifea), Edoardo Ribatto (Agamennone), Giorgia Senesi (Clitemnestra), Anahì Traversi (Ifigenia)

Scene: Margherita Palli

Costumi: Margherita Baldoni

Maschere: Roberto mestroni

Musiche: Zeno Gabaglio

Disegno Luci: Jean-Luc Chanonat

Progetto visivo: Dimitrios Statiris