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ANTONIO E CLEOPATRA – VALTER MALOSTI

Come un Giano bifronte questo spettacolo del Teatro Stabile di Torino mostra due facce della stessa medaglia che si prestano a molteplici interpretazioni. Abbiamo modernità e antichità che si mescolano nella tragedia storica di Shakespeare, reinterpretata sia in qualità di attore che di regista da Valter Malosti in una visione comica e disincantata, in cui l’Eros non può essere vincitore sulla ragione e il rigore del contesto storico per quanto possa essere passionale e contraddittorio.

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Where the hell is Bernard?

Dietro la maschera della routine quotidiana si cela un mondo distopico dove il gioco è bandito, le domande represse e la fuga considerata un crimine. In questo universo alienato, quattro Agenti, custodi di un sistema perfetto quanto asettico, si ritrovano a fronteggiare un’anomalia inaspettata: la fuga di un cittadino, Bernardo.

Lo spettacolo Where the hell is Bernard? che ho avuto visto il 2 febbraio a Torino, presso Casa Fools, ha suscitato in me un acceso dibattito interiore. Da un lato, l’originalità dell’idea, la performance delle attrici e la capacità di mescolare generi diversi hanno creato un’esperienza teatrale unica e stimolante. Dall’altro, alcune debolezze nella caratterizzazione dei personaggi e nella coerenza narrativa hanno impedito all’opera di raggiungere il suo pieno potenziale.

Le Agenti, identificate solo da codici numerici, non possiedono una vera e propria identità. Pur essendo ben distinte grazie alle loro azioni e parole, mancano di una profondità psicologica. Non conosciamo le loro storie personali, le loro motivazioni profonde o i loro desideri. La presenza di quattro attrici senza una chiara motivazione o differenziazione nel loro ruolo sembra non influenzare significativamente lo sviluppo della trama. Anche con una riduzione del numero di attrici, la storia potrebbe procedere senza alterazioni sostanziali.

La trama sembra presentare alcune incongruenza. La scena dei neonati, ad esempio, appare slegata dal contesto e priva di un significato chiaro. Il finale, pur essendo aperto all’interpretazione, lascia allo spettatore un senso di incompletezza. La mancanza di una risoluzione definitiva o di una spiegazione plausibile per alcuni eventi indebolisce la coesione narrativa.

Azioni e personaggi appaiono a volte privi di una logica interna, creando un po’ di confusione nello spettatore. La fuga di Bernardo, l’apparizione dei neonati, il destino delle Agenti: tutto sembra accadere senza una ragione precisa, lasciando lo spettatore con un senso di frustrazione.

Where the hell is Bernard? possiede un potenziale interessante, ma necessita forse di alcune modifiche per raggiungere una maggiore coesione e profondità. Il contesto della Casa Fools a Torino ha fornito uno sfondo unico per lo spettacolo, tuttavia, un lavoro di approfondimento sui personaggi e sulla trama potrebbe rendere l’opera più coinvolgente e di impatto.

Roozbeh Ranjbarian

Prodotto da Haste Theatre e Turnpike Productions
Regia di Ally Cologna e Haste Theatre
Cast: Elly Beaman-Brinklow, Valeria Compagnoni, Jesse Duprè, Sophie
Taylor
Voice over: Ally Cologna e Lorenzo Andrea Paolo Balducci
Tecnico suono e luci: Jethro Walker
Designer luci: Katrin Padel
Designer suono: Paul Freeman
Designer set: Georgia de Grey
Foto poster di Nick Milligan
Fotografo di scena Rara Su

Tre Sorelle- Muta Imago

 È buio, un piccolo bagliore si accende al centro del palco, appare come una luce vista da un occhio socchiuso. Si riuniscono intorno al bagliore tre donne e, come in un rituale, fanno danzare le mani nella luce sottile. La calma prima della tempesta, un silenzio tombale, quasi religioso, regna in tutta la sala, attendiamo. Le luci prendono lentamente possesso della scena, diventano quasi abbaglianti, a tratti disturbanti come i suoni, rumori che irrompono sulla scena aggressivamente in completa opposizione al silenzio precedente. Gli opposti sono i protagonisti della narrazione dello spettacolo Tre Sorelle. La compagnia Muta Imago gioca sui volumi, in una formula misteriosa che indaga lo spazio-tempo. Tre donne, tre sorelle, una sola storia che diventano tre. Dolori, angosce, ricordi e speranze perdute, si manifestano attraverso la voce e i gesti  delle tre sorelle che agiscono talvolta in maniera disordinata e inspiegabile. La più giovane: colei che detiene dentro di sé la forza di andare avanti con la sicurezza che il futuro, seppur lontano, sarà sicuramente migliore. La media: disillusa e sconfortata, le consapevolezze del presente la tengono incatenata nel tempo in cui si trova, nessuna prospettiva. La più grande: la vita ormai ha fatto il suo corso, si aggrappa a tutto ciò che possa vagamente darle sollievo, per sfuggire dalla consapevolezza che non ci sia più un futuro ad aspettarla. Errori, scelte sbagliate, lo stesso essere donne in una cultura che predilige il maschio. Uno spettacolo che mette in scena la mente di una donna, nella quale lo spettatore può viaggiare senza scappare, una pièce teatrale che predilige raccontare la vita attraverso il magico numero del tre, la rappresentazione è esoterica e sconvolgente, demoni, ombre e colpe ma anche sogni distrutti, abbandono e oblio. I monologhi, per quanto profondi e complessi, risultano forse talvolta troppo dilatati, così come i volumi della musica spesso troppo alti, rendono difficile una fruizione scorrevole dello spettacolo. La performance delle attrici Monica Piseddu, Arianna Pozzoli e Federica Dordei è risultata a mio avviso forte ed incisiva, le voci penetrano la quarta parete dando la possibilità al pubblico di empatizzare più facilmente con la storia raccontata.

Rossella Cutaia

Edoardo Fadini- Un critico e il suo tempo

Nato nel 1928, Edoardo Fadini si distingue come uno dei più importanti critici del suo tempo, Complice il suo ampio sguardo sull’interezza del teatro, in quanto accadimento, in quanto performance, arte ma soprattutto rivoluzione. Nell’incontro del 14 dicembre 2023, dedicato ad Edoardo Fadini, appunto, e organizzato dall’Università di Torino in collaborazione con l’associazione Pratici e Vaporosi, possiamo conoscere le varie sfaccettature della sua personalità e del suo lavoro, raccontato da Sergio Ariotti, Gigi Livio, Franco Perrelli e meticolosamente raccolte da Armando Petrini e Giuliana Pititu nel libro pubblicato per l’editore Cue Press Scritti sul teatro. Interventi, recensioni, saggi”.

<<Parlerò di Edoardo Fadini come se fosse qui, ritengo sia necessario parlare con i morti, è una questione di tenerli in vita, per cui sta sera, litigherò con Fadini>>. Gigi Livio

Simpatico, spagnolesco, prismatico e sanguigno, il critico ed in seguito organizzatore di eventi teatrali, ha lasciato un segno indelebile nelle persone presenti in sala, come indelebile è l’inchiostro che ha impresso i suoi pensieri, le sue parole, le sue azioni su carta. Un uomo, Fadini, che infiamma la critica teatrale, restituendola al pubblico pregna di dialettica e ideologia, una scrittura che non impone un pensiero indiscutibile ma che vuole essere un punto di partenza e di riflessione per chiunque la legga. Le sue critiche vengono definite di altissimo livello, il suo lavoro è notevole ed imponente anche nella quantità, la sua attenzione, rivolta al teatro d’avanguardia in opposizione a quello ufficiale, accompagna la sua lotta politica nella ricerca di un teatro che sia pubblico. La ricerca della contraddizione è una parte fondamentale della sua visione, una caratteristica tipica di chi indaga a fondo nell’ambito stesso dell’accadere, cercando domande a cui il teatro possa rispondere. Franco Perrelli, definisce il lavoro di Fadini  come “espressione significativa dell’accuratezza del critico autoriale”, colui che pensa accuratamente e che si esprime in una critica ermetica. << Ho viaggiato nel tempo attraverso i suoi articoli, dal ‘65 agli ultimissimi anni di vita, leggendolo tutto d’un fiato, il percorso risulta altalenante, segue un cambiamento significativo, ho scoperto, lavorando al libro, una figura che non conoscevo>> dice Armando Petrini, studioso teatrale e professore universitario dell’Università di Torino, nonchè co-autore del libro con Giuliana Pititu, scrittrice, autrice e studiosa di teatro che afferma << Mi interessava dare un taglio di Fadini a 360°, ci interessava riportarlo vivo perché credo abbia ancora delle cose da dire>>. La critica, si dice, sta morendo, ma come Perrelli sostiene durante la conferenza, non è così. La critica è cambiata, è a suo dire atomizzata, dissociata, dispersa nella rete, priva di quella contraddizione, di quella fiamma che brucia nell’accadimento teatrale stesso. Il Teatro segue meticolosamente il cambiamento sociale e Fadini ha saputo addirittura farne parte, cambiando con esso. La critica non è morta, ma come ha detto Gigi Livio, professore universitario, ricercatore e studioso dalla grande esperienza, è importante parlare con i morti, affinché vivano, anche eventualmente per litigare con loro. Crescere attraverso lo studio di ciò che è stato, rileggendo e conservando nei nostri occhi il punto di vista di qualcun altro. Il lavoro di Giuliana Pititu e di Armando Petrini vuole restituire l’eternità celata della critica, rammentando che muore solo ciò che si dimentica. Attraverso Sergio Ariotti, organizzatore e fondatore del Festival delle Colline Torinesi con Isabella Lagattolla, Franco Perrelli, studioso e ricercatore apprezzatissimo nel suo ambiente ed oltre, abbiamo potuto conoscere una figura che ha reso la scrittura critica pregna di significato, personalità e idee, Fadini ha dato un’identità alla critica, la sua. La scrittura è un orologio senza lancette, il cui tempo scorre senza mai fermarsi, sussurrando all’orecchio del futuro ciò che è e ciò che è stato, dandoci la possibilità  di scegliere ciò che sarà. Un incontro quello del 14 dicembre, che si è concluso in un clima di ascolto, rispetto e ammirazione generale, nei confronti di chi narrava una storia senza tempo e nei confronti di chi imparava da essa. Giovani e maturi, un confronto silenzioso che Fadini ha reso possibile ancora una volta, fatto di dialettica, ideologie e contraddizioni. 

Rossella Cutaia

NOZZE DI SANGUE – LLUIS PASQUAL

I temi ricorrenti nella produzione di Federico García Lorca sono l’amore, il desiderio e le ossessioni; essi sono presenti anche nel suo dramma teatrale Nozze di sangue, ispirato ad un fatto di cronaca avvenuto in Andalusia nel 1928. Lluís Pasqual, considerato uno dei massimi esperti di Lorca, propone questo testo dal 30 gennaio all’11 febbraio al Teatro Carignano. Il regista dà modo di far vivere usi e costumi dell’epoca e le emozioni di un amore materno profondo.

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L’ISTRUTTORIA – LEONARDO LIDI

IL TEATRO COME TESTIMONIANZA

Alla  propaganda della bellezza, soprattutto in Italia, siamo esposti fin da piccoli: ci svezzano a pane e bello; e se non è dannoso, ci induce quantomeno a un’errata postura nell’accostarci a oggetti che vanno tutti sotto un unico cappello: “arte”. Così finiamo per osservare un quadro di Giotto, un’icona bizantina e una pittura romantica con le stesse lenti della bellezza, spesso unita a un altro concetto, ugualmente utilizzato a sproposito, logoro:  il concetto di “genio”.

Le icone bizantine, infatti, non sono fatte per la loro bellezza o per leggervi la bravura dell’artista – peraltro, in questo contesto, perlopiù sconosciuto – ma sono uno strumento di preghiera; strumento, come un tavolo, una sedia, un cucchiaio, una forchetta.

È bene tenerlo a mente, perché a forza di interpellare la bellezza, si rischia di perdere una visione della l’arte che dovrebbe rimanere per lo più poliedrica e totipotente.

E il teatro, tra le sue varie funzioni, ha quello di documento, documento storico, ci può aiutare nell’esercizio della memoria; e così come le Stolpersteine (le pietre di inciampo) dell’artista tedesco Gunter Demnig o Shoah di Claude Lanzmann si emancipano dalla loro natura artistica e diventano documento storico, così anche L’istruttoria di Peter Weiss, recitato al Teatro Gobetti  dal 23 al 28 gennaio dagli allievi della scuola per attori del Teatro Stabile di Torino diretti da Leonardo Lidi, testo questo che utilizza i mezzi del teatro per diventare uno strumento del ricordo.

È bene ricordare che non siamo di fronte a una drammaturgia, il testo infatti non forza i confini del dramma, ma si pone in un altro spazio nettamente diverso e separato da un testo drammaturgico. Siamo di fronte a un Oratorio, strutturato in 11 canti (il pensiero va a Dante) composti a partire dagli appunti stilati da Weiss durante le sedute dei processi penali contro un gruppo di SS e di funzionari del Lager di Auschwitz, che si tennero a Francoforte sul Meno tra il 10 dicembre 1963 e il 20 agosto 1965. Questo fu il primo processo voluto dal governo tedesco per giudicare le responsabilità del nazismo nella tragedia dell’olocausto. Nelle 183 giornate di processo vennero ascoltati 409 testimoni, 248 dei quali sopravvissuti al campo di sterminio.

I modi per attivare questo dispositivo della memoria non sono univoci. In Italia ricordiamo due modalità in cui è stato fatto. Nel ’67 Virginio Puecher per il Piccolo Teatro portò questo testo in spazi molto grandi: palazzetti dello sport, palazzi delle esposizioni, usando massicciamente le tecnologie e ibridando materiali eterogenei. Il risultato è quello del corpo di un performer che si dà ma viene continuamente negato annullato, oppresso dai media. Per esempio, vediamo i volti attraverso lo schermo dal momento che danno le spalle al pubblico, pezzi di documentari si alternano al testo di Weiss. (Usiamo la parola performer per la difficoltà qui di adoperare parole come attore o messa in scena; nel tempo che viviamo lo spettacolo tende a fagocitare ogni aspetto, soprattutto a teatro).

 In aggiunta l’impianto scenografico di matrice costruttivista di Josef Svoboda, che crea un setting da studio televisivo, evitando un unico punto focale, accentua lo straniamento, lo spettatore è costretto, pungolato, ad assistere alla testimonianza. Il teatro si pone come strumento efficace di documentazione e memoria perché è un documento incarnato nel presente, opera un corto-circuito tra passato e presente, fa rivivere la storia. Inchioda lo spettatore alla vergogna.

Una foto del lavoro portato nel ’67 da Virginio Puecher

Un’altra via percorribile è quella che sceglie il Collettivo di Parma nell’84 con la regia di Gigi Dall’Aglio.

 Un’esecuzione intima, quasi un rito, altrettanto ustorio: in un ambiente nero, lo spettatore è costretto a sostare in piedi in diversi spazi, per tutta la durata del primo canto. Gli oggetti che vediamo possiedono un grande potere evocativo, come nel secondo canto: mentre si racconta dell’espoliazione delle vittime, un uomo e una donna con le loro valigie sono portati al centro e fatti spogliare, le loro valigie vuotate, e gli oggetti disposti con cura davanti a loro. Sul finale, il piccolo spazio scenico è inondato di fumo e forti luci, per cercare di evocare l’orrore delle camere a gas.

Questo rito laico è in repertorio e viene riproposto a Parma ogni anno.

L’istruttoria a Parma per la regia di Gigi Dall’Aglio

Il lavoro curato da Leonardo Lidi a cui abbiamo assistito adotta invece un’impronta estremamente minimale. Nel voler portare a teatro il racconto delle vittime e dei carnefici di Auschwitz l’intento di Lidi, assieme agli allievi della scuola per attori del Teatro Stabile, sembra quello di voler spogliare di ogni orpello il rito della recita, lasciando la nuda testimonianza unica vera protagonista. Scrive infatti Lidi nel programma di sala che “l’importante non fosse creare un vero e proprio spettacolo, ma un momento di sincera condivisione sociale assieme alle persone venute per ascoltare ma anche per partecipare ad una giornata di grande importanza”. È per creare un’atmosfera di condivisione, dunque, che il pubblico entra in sala trovando già presenti gli interpreti sparpagliati per la platea, quasi come entrassero in una piazza, e che le luci rimangono accese fino agli ultimissimi istanti della performance. Il pubblico vede gli interpreti, gli interpreti vedono il pubblico. Sul palco l’impianto scenico è asettico, composto unicamente da una struttura a gradoni bianchi. I performer, in giacca nera e camicia bianca (eccezion fatta per i carnefici, in sola camicia bianca), una volta presa posizione su di essi restano quasi esclusivamente fermi sul posto, alzandosi solo per parlare. Il movimento più presente è quello dei microfoni, passati di mano in mano per far parlare i vari testimoni. La testimonianza viene trasmessa in maniera diretta, pronunciando il testo senza particolare inflessione, senza lasciar trasparire alcun sentimento di troppo. Sarebbe stato fin troppo facile lasciarsi andare ad un’interpretazione emotiva del testo, lasciarsi trasportare dall’orrore delle immagini da esso evocate. Troppo spesso le opere che trattano questo argomento tendono a scadere nel sentimentalismo, nella riproposizione patetica degli eventi, andando così a minare il messaggio di fondo: “è accaduto. Può accadere ancora. Non dobbiamo lasciare che accada”. In questo senso Lidi e gli allievi dello Stabile operano invece un rigoroso esercizio di sottrazione, e le poche emozioni che traspaiono dai volti dei performer sappiamo essere autentiche, uno scorcio nei loro pensieri che ci è dato vedere quasi per sbaglio, non simulate o evocate per la scena. Lo stesso non si può dire di alcuni individui del pubblico, che forse perché illuminati per tutto il tempo e dunque presi nell’insieme tendono talvolta a dimostrare platealmente con ampi movimenti della testa il proprio sdegno per gli eventi descritti. Questo lavoro porta all’estreme conseguenze l’atto del vedere insito nel teatro sin dal suo etimo, mentre guardiamo, da una parte il racconto è talmente insostenibile che dobbiamo abbassare lo sguardo, dall’altra è una mano che ci fa alzare la testa e ci riporta al dovere della memoria. Il dolore dell’olocausto, che poi è dolore dell’umanità tutta perché è il fallimento per antonomasia dell’umanità, traspare in tutta la sua violenza dalle semplici parole, dalla pulizia con cui vengono enunciate. In un terreno d’indagine in cui ogni cosa, anche dare e ricevere applausi, rischia di apparire irrispettoso o non adatto, un approccio come quello qui messo in atto mostra una qualità di giudizio lodevole da parte di Lidi e degli interpreti. Tutto è sottratto per lasciare posto all’evidenza di ciò che è stato. “È fondamentale” scrive sempre Lidi nel foglio di sala “evitare il più possibile il rischio inopportuno di spettacolarizzazione del dolore, una trappola frequente che dovremmo combattere proprio a fianco delle nuove generazioni”.  

E se qualcuno ahimè quest’anno volesse mettere in discussione la legittimità di ricordare la shoah, bisogna ricordare che la memoria della shoah è di tutti, come scrive Anna Foa: “In questo terribile conflitto, in cui due estremismi opposti si combattono nel dolore delle vittime di entrambe le parti, ora l’importante è fermare l’operazione bellica che sta distruggendo Gaza e che sempre più precisa come suo obiettivo l’annessione dei territori occupati a formare una grande Israele. Vedremo risorgere, con tutti i suoi limiti, ma anche con le sue aperture e le sue speranze, l’antica Israele dei suoi padri fondatori, e vedremo i palestinesi disfarsi degli estremisti e lavorare alla creazione di uno stato che viva in pace coi suoi vicini? Per quanto difficile sia, distruggere la memoria del maggiore genocidio del Novecento, oppure anche soltanto lasciarla come patrimonio solo degli ebrei, sottraendola all’umanità intera, non può certo aiutare a raggiungere questo obiettivo.

È importante che a realizzare questo lavoro siano degli attori in formazione: tra le prerogative di un attore non è secondaria quella di porsi come custode della storia. In un presente in cui la memoria tout-court tende a essere merce rara, gli attori possono esserne il veicolo.

Giuseppe Rabita e Edoardo Perna

Per un’approfondimento sulle precedenti messe in scena in Italia: “ Storia e performance: un confronto fra due scritture sceniche de L’istruttoria di Peter Weiss” di Roberta Gandolfi

di Peter Weiss
con gli allievi della
Scuola per Attori del Teatro Stabile di Torino
(in ordine alfabetico)
Alessandro Ambrosi, Francesco Bottin, Cecilia Bramati
Ilaria Campani, Maria Teresa Castello, Hana Daneri
Alice Fazzi, Matteo Federici, Iacopo Ferro
Samuele Finocchiaro, Christian Gaglione, Sara Gedeone
Francesco Halupca, Martina Montini, Greta Petronillo
Diego Pleuteri, Emma Francesca Savoldi
Andrea Tartaglia, Nicolò Tomassini, Maria Trenta

regia Leonardo Lidi
regista assistente Francesca Bracchino
scene Fabio Carpene
Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale

Arlecchino Furioso – Stivalaccio Teatro

Dal 19 dicembre 2023 all’1 Gennaio 2024, al Teatro Gobetti, è andato in scena lo spettacolo Arlecchino Furioso.
La compagnia Stivalaccio Teatro, che si occupa di teatro popolare, teatro per ragazzi e arte di strada, in questa occasione ci riporta indietro nel tempo seguendo la tradizione della Commedia dell’Arte.

“Sono dinamici e creativi i giovani di Stivalaccio Teatro, e anche coraggiosi nel dedicare le loro energie a un genere di nobile tradizione e di alta specializzazione qual è la Commedia dell’Arte, che li porta a confrontarsi con interpreti giganteschi e insuperabili”.

Questo ciò che viene detto della compagnia in occasione del Premio ANCT – Associazione Nazionale Critici Teatro 2023, che gli viene assegnato proprio al Teatro Gobetti.

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TARTUFO – di JEAN BELLORINI

O si dà piena approvazione alla commedia del Tartuffo, o bisognerà condannare tutte le commedie senza eccezione!

Dal 25 al 28 gennaio il Teatro Astra ospita una produzione del Teatro di Napoli – Teatro Nazionale e Théâtre National Populaire de Villeurbanne per la regia di Jean Bellorini: il Tartufo di Molière, tradotto da Carlo Repetti.

La linea di programmazione del teatro torinese per la stagione 2023/2024 propone il tema della cecità, un tema in effetti presente nella commedia molierana e incarnata dal personaggio di Orgone.

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Wonder Woman

SIAMO IL GRIDO ALTISSIMO E FEROCE

DI TUTTE QUELLE DONNE

CHE PIÙ NON HANNO VOCE

Questa è la storia di una ragazza, come di altre migliaia, peruviana, giovane e ingenua, come dovrebbe essere ogni ragazza della sua età. Etichettata con il soprannome “vichingo”, per le sue forme mascoline dicono, adescata. derisa, stuprata e poi abbandonata, dagli stessi tre, forse quattro ragazzi. Non ricorda, è sola, sanguinante e lacerata, raggiunge la stazione di polizia, vuole denunciare. Altri uomini la attendono, varcata la soglia, è di nuovo etichettata, adescata, derisa, interrogata, costretta a ricordare ciò che avrebbe voluto dimenticare per sempre, poi, abbandonata.

La platea si spegne della luce di accoglienza che illuminava il teatro, una dolce musica accompagna i riflettori sopra le nostre teste che inaspettatamente si riaccendono, ricominciando ad illuminarsi di una luce pura, abbagliante che si fa sempre più intensa, sembra il sol levante, ho la sensazione che una nuova alba stia per  ergersi inesorabile  nel cielo. Passi, falcate per meglio dire, scandiscono un ritmo deciso, si percepisce un’energia viscerale e travolgente che spezza il religioso silenzio creatosi tra il pubblico curioso. La vista spodesta l’udito come senso predominante, quattro paia di scarpe rosse, lucide, ci si pongono davanti, attraversando da destra tutta la platea. Quattro donne, disposte di fronte a noi, vestite di tessuti tinti di nero, mi appare in contrasto con tutta quella luce, quasi divina, questo colore sembra spiccare come simbolo di fede e lutto, di autorità e fragilità, di oblio. Non ci sono quinte, non c’è nessun palcoscenico, dei fili rossi con dei microfoni all’apice sono accuratamente disposti dinanzi alle attrici, dietro di loro invece, quasi ad una spanna dal fondale, si intravedono quelle che sembrano essere collane.  Resta tuttavia la luce, la protagonista indiscutibile ed insostituibile della scenografia, una scelta inusuale e forte. Ogni  attrice prende il suo posto, inizia il primo monologo, vengono pronunciati articoli della costituzione e raccontate storie, gridate a gran voce, l’emozione è  travolgente, vibrano le corde vocali delle donne come una viola che finalmente spicca in un concerto. Un’altra voce si intreccia alla prima, poi tutte e quattro, solidarietà e solitudine vengono veicolate perfettamente in una retorica polifonica pulita e precisa, quattro voci che ne diventano una soltanto e poi quattro di nuovo. La potenza della musica, un linguaggio senza confini, questa è la scelta di Antonio Latella e Federico Bellini, due uomini che hanno lavorato con le donne e per le donne che ora, prima di essere persone, sono super eroine, donne raccontate come “amazzoni, donne senza una mammella significa, nate da uno stupro per essere forti ed indomabili”. Lo spettacolo teatrale Wonder Woman, presentato con coraggio a Torino l’11 gennaio 2024, si immerge in una narrativa intensa e scomoda che tocca quindi tematiche cruciali della società. La vicenda rivela il lato oscuro dell’ingiustizia sociale.La scelta di affrontare tali questioni attraverso il teatro si configura come una strada importante per prevenire l’oblio collettivo e dare voce alle vittime spesso trascurate. Il regista, seguendo una tradizione educativa che risale all’Antica Grecia, trasmette un messaggio potente attraverso l’opera teatrale.

Nonostante la polifonia, la rappresentazione soffre forse di  una recitazione monodimensionale delle giovani attrici. Sebbene la storia affronti temi tragici, la mancanza di una trasformazione drammatica può lasciare lo spettatore, sia esso uomo o donna, poco coinvolto emotivamente.

La storia, sebbene tragica, potrebbe risultare più coinvolgente se drammatizzata in modo più completo. Wonder Woman si presenta come un tentativo coraggioso di affrontare questioni sociali spinose attraverso il teatro, anche se la performance avrebbe potuto beneficiare di una recitazione più vibrante e di una maggiore attenzione agli aspetti visivi.

Rosella Cutaia e Roozbeh Ranjbarian

di

Antonio Latella e Federico Bellini

Regia: Antonio Latella

Le attrici: Maria Chiara Arrighini, Giulia Heathfield Di Renzi, Chiara Ferrara, Beatrice Verzotti

Costumi: Simona D’Amico

Musiche e suono: Franco Visioli

Movimenti: Francesco Manetti, Isacco Venturini

Produzione: TPE – Teatro Piemonte Europa

in collaborazione con Stabilemobile