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Intervista con l’attrice Beatrice Vecchione :” Il rapporto col corpo nasce dal rapporto con la lingua”

È Spontanea e dolcissima, l’abbiamo incontrata al teatro Gobetti dopo aver finito lo spettacolo Arialda di cui è stata protagonista.

È Beatrice Vecchione, nata il 26 marzo del 1993 in una clinica con vista sul mare a Napoli. Ultima di sette figli è cresciuta in un paesino di tremila abitanti in provincia di Avellino. Diplomata alla scuola del Teatro stabile di Torino diretta da Valter Malosti.

Dopo il diploma ha preso parte a molte produzioni dello Stabile stesso  tra cui La morte di Danton con la regia di Martone e Come vi piace con la regia di Leo Muscato. Nell’estate del 2017 viene selezionata dal Centro teatrale di S. Cristina Fondato da Luca Ronconi e Roberta Carlotto. Attualmente è impegnata con Le baruffe chiozzotte con la regia di Jurij Ferrini.

L’intervista di Abdelmjid El Farji (MAGID)

Lei è una ex allieva di Valter Malosti, direttore della scuola per attori del Teatro Stabile e regista di Arialda, di cui è stata protagonista. Risulta difficile oppure facile lavorare con il proprio maestro? 

È bello perché Valter mi ha visto crescere nei tre anni di scuola. E in questo tempo ho avuto modo di conoscere bene il suo linguaggio e questo è solo un vantaggio per lavorare bene insieme.

La presenza del corpo molto forte nel testo L’Arialda: secondo lei, la sua bellezza l’ha aiutata?

Il rapporto col corpo nasce dal rapporto con la lingua, in questo caso con la lingua di Testori che è pulsante, materica, violenta, popolare e lirica e visionaria al contempo.

Ti ringrazio del complimento, comunque non credo che Valter abbia scelto me per l’aspetto fisico, comunque dovresti chiederlo a lui (Ridendo)

E come ha sviluppato  il suo rapporto con il corpo dell’Arialda, che, come abbiamo visto da spettatori, era fortemente presente (sensuale, maturo)  sul palcoscenico? 

Comunque più concretamente ho cercato di lavorare, aiutata anche da Alessio Maria Romano, in una direzione più controllata mentendo quindi  una certa tensione nella verticalità, nella prima parte dello spettacolo e man mano che l’Arialda sprofondava nel suo delirio ossessivo, ho cercato di rompere il respiro e quindi il corpo… di andare verso una volgarità, uno stato più bestiale che liberasse gli istinti, le parole, le ragioni, i dolori repressi.

Lei rappresenta un personaggio che vive negli anni ’60 con la sua dimensione sociale e psicologica diversa dai personaggi della società attuale.  Qual è  stata la sua modalità di  indagine e ricerca del personaggio di Arialda?

Ho cercato di conoscere Testori prima di tutto, di entrare nel suo immaginario nel suo modo di vedere la vita, di leggere la realtà che viveva.

Era un uomo che si interrogava profondamente  sul mistero della  vita e quindi della morte

Nell’Arialda, che Testori scrive anni prima della  sua conversione, si sente forte la domanda sul perché dell’esistere soprattutto di fronte alla  sofferenza. Eros dopo la morte del Lino, l’unica persona che ama veramente, dice guardando il cielo :” ma se il Padreterno fa così cosa può pretendere che facciamo noi?”

Il rapporto tra alcuni personaggi  si mescola tra il senso della  morte e della vita, come ha affrontato questa complessità ?

L’Arialda stessa non comprende (d’altronde non si può!) e quindi non accetta  la morte tanto che è perseguitata dai fantasmi e dunque non dice il suo sì alla vita, morendo lei stessa ogni giorno  nel passato.

Ma in lei vive comunque, anche se non riesce a vederlo, un gran desiderio d’amore e quindi di salvezza, di riscatto dalla miseria materiale ed esistenziale in cui lei e tutti gli altri personaggi vivono.

Dice infatti alla Gaetana “lei un uomo l’ha pure avuto, uno con cui parlare uno da chi farsi abbracciare, uno con cui fare quelle tre o quattro scemate che mettono a posto tutto”.

L’impossibilità di realizzare tale desiderio e quindi di vivere pienamente la propria condizione umana, la spingerà ad un delirio di distruzione.

Avete lavorato in un spazio quasi vuoto, tranne una tavola e due porte mobili, e si vede un  lavoro figurativo nel Suo personaggio legato a un “Teatro Povero”: quanto è stato utile per lei  il metodo Grotowski in questo?

Non ho usato una tecnica particolare, mi sono lasciata guidare da Malosti ed ho cercato di aderire quanto più potevo a ciò che dicevo.

L’astrazione della regia ha dato al testo uno respiro più ampio mettendo in risalto la sua natura tragica, ed ha anche permesso a gran parte di noi attori, anagraficamente distanti rispetto al età dei personaggi, di risultare comunque credibili. E non ho avuto Grotowski come riferimento.