Annamaria Ajmone – La costruzione spaziale come paradigma della condizione abitativa

Danzatrice dalla tecnica impeccabile, Annamaria Ajmone risponde a quella moda tutta contemporanea di una danza tanto precisa da esaurirsi in un’estetica del gesto iper-accurata e meravigliosamente plastica. Autrice emergente nel recente panorama coreografico, formatasi alla Paolo Grassi, è stata poi supportata da numerosi contesti progettuali (da Cango a Mosaico Danza), entrando di recente nella compagnia CAB 008, la cui direzione artistica è curata, fra gli altri, da Cristina Rizzo. Nel 2015 ha vinto il premio Danza&Danza come migliore “interprete emergente-contemporaneo”. Sarebbe però riduttivo parlare della Ajmone solo come di un’autrice in linea con la moda e semplicemente brava a rappresentarla. Quello che in questa sede si vuole sottolineare è ciò che, ai consueti linguaggi contemporanei, la coreografa ha aggiunto all’interno dei suoi lavori creati appositamente per gli spazi non teatrali. Quelle che l’autrice ha anche definito Pratiche di Abitazione Temporanea e che ha recentemente raccolto e raccontato in un libricino stampato in proprio, intitolato Arcipelago. Questi pezzi, numerosi e variegati, sono infatti accomunati da un’attenzione minuziosa, riservata allo spazio circostante, il quale, unito alla preparazione atletica di Annamaria, dà vita ad una qualità coreografica unica nel suo genere. Ad un togliere drammaturgico, insomma, corrisponde una poetica del movimento assai più elaborata ed in grado, da sola, di giustificare un’intera linea autoriale. Linea in cui la coreografia diviene scrittura dello spazio, ancora prima che scrittura della danza nello spazio. Una categoria, questa della danza come architettura, che se si conferma una tendenza già consolidata in molta estetica contemporanea (sienismi a parte), con la Ajmone acquista una rilevanza esclusiva in virtù della tonalità motoria che il caratteristico virtuosismo proprio dell’interprete le conferisce. Un corpo particolare si plasma attraverso una moda consolidata e, allo stesso tempo, una moda particolare si inscrive su di un corpo consolidato (che qui vale per preparato).

A questa serie di abitazioni temporanee appartiene Trigger, un breve solo scritto da Annamaria e da lei interpretato, nel quale l’azione si svolge in un piccolo rettangolo (e fuori di esso) appositamente tracciato per terra, in qualsiasi luogo la performance si svolga, che gli spettatori stessi andranno a ridisegnare sedendosi sui quattro lati. Lo abbiamo visto due volte, per meglio comprenderne variazioni e similitudini: la prima in uno spazio più contestualmente “teatrale”, il foyer della Lavanderia a Vapore (all’interno del Festival Interplay), la seconda, un anno dopo, in un luogo più elegante e più architettonicamente importante, il Palazzo de Grazia di Gorizia (nel contesto della NID Platform).

Foto di Andrea Macchia

La creazione sonora di Simone Bertuzzi, aka Palm Wine, che percorre interamente i venti minuti dello spettacolo, è tratta dal suo Mixtape Hypnomaghia e divide acusticamente e drammaturgicamente in due momenti l’azione. Nel primo, la danzatrice carica fisicamente un “grilletto” (la cui forma inglese, trigger, dà il titolo all’opera) con i movimenti ripetuti e spasmodici di un braccio che culminano più volte nel rilascio di una scarica tensionale che porta il corpo a riconfigurarsi più o meno aleatoriamente all’interno dello spazio. Nel secondo la danzatrice “vaga”, fuoriuscendo dal tracciato rettangolare, avvicinandosi (a volte quasi toccandolo) al suo pubblico, allontanandosene, sfidandolo, giocando con esso, ma sempre rimanendo dentro una percezione dello spazio accuratissima. Pur nella dicotomia di questi due momenti, di un giorno e di una notte, di un lato A e un lato B del mixtape, la performance è attraversata dalla stessa sottostante intenzione dell’interprete/autrice. È l’architettura, organica e inorganica, ad essere indagata, con una qualità interrogativa che mano a mano si rivelerà abitativa, nella misura in cui la danzatrice pare cercare riparo in un luogo che non ancora le appartiene.

Ecco che la Ajmone, con il suo personalissimo modo di interpretare quella che abbiamo definito una “danza dell’architettura”, si fa mediatrice coreutica della contemporanea attitudine umana ad abitare. La sua danza testimonia così di una disarmante dispersione abitativa che l’individuo è solito vivere, solitario, fuggiasco o viaggiatore. È l’episteme del moderno globetrotter trasposta in estetica coreografica, del quale mantiene le medesime difficoltà a dimorare, lo stesso sforzo incoffessabile a rendere domestico il luogo in cui si trova. Privo di un sentimento di riparo, il difetto abitativo diviene drammaticamente incomunicabile poiché non più percepito come difetto. Così Annamaria “trotta”, in conclusione allo spettacolo, al di fuori dello spazio scenico consueto, ben cosciente del vantaggio rappresentato da una tale vicinanza agli spettatori: la sua danza spesso si manifesta in minime variazioni muscolari, estetiche microscopiche che osservate da vicino rendono al meglio la loro studiata intenzione. Ecco che quell’incrollabile tecnica alla base di ogni suo gesto, in questo senso, si rivela la dimora vera e propria della danzatrice, il suo più autentico riparo. Allo stesso tempo il rischio della minima distanza col pubblico corrisponde ad una maggiore vulnerabilità, ancora simile a quella sociale di chi non dimora, costretto all’esodo forzato o alla fuga sottoforma di viaggio avventuroso. I sempre nuovi sguardi che sul suo corpo si poseranno, raramente le concederanno il lusso di nascondersi, come ogni attore saprebbe fare su di un grande palcoscenico o come chiunque normalmente fa trovandosi al riparo fra le mura di casa propria.

Annamaria disegna su pareti diverse le coordinate di un nuovo rapporto di fiducia tra spettatore e danzatore, dove i corpi sono reciprocamente coinvolti e mossi ad una coralità nella quale la danzatrice è corifera e non coreografa. Gli spettatori seduti intorno a lei sono, insieme, il limite del movimento ed il motivo della danza che indaga “termicamente” (usando un aggettivo della stessa danzatrice) lo spazio fisico ridotto ed accuratamente costellato di altri ingombranti corpi umani. Se nel lavoro della Ajmone, dunque, la danza può ancora dirsi sensuale, lo fa in un’etica della comunione, cioè come volontà di aggregazione e non di seduzione. Una sensualità, la sua, che con spiazzante sincerità ricerca l’ambiente domestico e non la relazione predatoria, sospinta a tale ricerca dall’assenza epistemologica di una dimora. Ma non è la rappresentazione di questa stessa ricerca già tragedia, al di là di ogni sensuale? La tragedia di tutte quelle isole che, nel tentativo di farsi arcipelago (e anche riuscendovi, talvolta) sono tuttavia costrette a rimanere isole.

Foto di Ela Bialkowska

Foto di copertina di Akiko Miyake

Tobia Rossetti

 

 

 

 

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