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Tra ozio e noia c’è spazio per l’amore

Leonce und Lena Anplagghed

Sala buia illuminata da poche luci, pareti totalmente nere, una sedia e una porta al centro del palco. Questa è la scenografia di Leonce und Lena Anplagghed , spettacolo che racconta la vicenda di due giovani che decidono di fuggire dal proprio regno per scappare al matrimonio impostogli dalla famiglia.

Leonce, il principe del regno di Popo, è un ragazzo estremamente annoiato dalla vita e per questo non sa come gestire le proprie azioni. La sua unica occupazione è quella di oziare tutto il giorno. Per caso, un giorno incontra un ragazzo di nome Valerio; una persona semplice che vorrebbe poter dedicarsi a tutto quello che lo aggrada. Valerio è l’esatto opposto di Leonce, ma nonostante questo diventano amici e introducono il discorso della morte, che sarà poi il tema principale dello spettacolo. Nonostante l’opera sia ottocentesca (l’autore è Buchner) i protagonisti riescono a coinciliare alla perfezione il passato e il presente inserendo nello spettacolo alcuni elementi dei nostri giorni spezzando momentaneamente il filo logico della vicenda. Elementi come il telefonino utilizzato dalla consigliera del Re di Popo, le canzoni cantate che risalgono a qualche anno fa e ai discorsi di Valerio su Raffaella Carrà, i pokemon e sulla filastrocca molto famosa che recita “C’era una volta un re seduto su un sofà che disse alla sua serva raccontami una storia. La serva incominciò” e che si ripete all’infinito. E’ proprio durante uno di questi discorsi che viene annunciato a Leonce l’imminente matrimonio, che riporterà la scena da chiave ironica a nuovamente seria. Il principe non è intenzionato a sposare la giovane e misteriosa principessa Lena che ricorda nella peggiore delle sue forme con gli occhi enormi ad occupare quasi tutto il viso e dei solchi al posto delle fossette intorno alla bocca. Valerio decide che l’unica possibilità per impedire il matrimonio è che Leonce scappi lontano e così i due decidono di intraprendere un viaggio verso l’Italia.

La seconda scena si svolge nel regno di Pipi dove anche la principessa Lena è consapevole che da lì a qualche ora sarebbe diventata la sposa di uno sconosciuto e anch’essa si rifiuta categoricamente di assecondare il matrimonio e di soffocare così la propria libertà e decide di scappare con la propria governante in un posto lontano.

La terza scena ha luogo all’interno di una locanda dove entrambi i principi decidono di passare la notte. Leonce, a detta sua troppo impegnato a non fare nulla per dedicarsi all’amore, viene colpito da Lena dopo che quest’ultima ha continuato con una vena malinconica e con allusioni alla morte il discorso del principe sul destino dell’umanità. Nasce così da parte sua un interesse per questa donna così affine a lui e il sentimento è palesemente ricambiato. Leonce si confida con l’amico Valerio che decide di presentare i due innamorati al regno di Popo sotto forma di due automi, rappresentati dai due attori grazie a delle maschere di cartapesta, per essere sposati dal Re.

Il Re, apparso un paio di volte all’interno dello spettacolo ha fatto sorridere il pubblico con la sua ironia, riuscendo a distogliere lo sguardo dalla vena malinconica di alcune situazioni. Nonostante il sovrano sia un po’ sbadato, appare molto serio nel proprio lavoro e intende mantenere la promessa che aveva fatto ai suoi sudditi di celebrare il matrimonio tra il principe Leonce e la principessa Lena. Grazie alla richiesta di Valerio si presenta la possibilità per il Re di mantenere la parola data e quindi decide di sposare i due giovani automi come se fossero realmente Leonce e Lena. Una volta celebrato il matrimonio gli sposi si levano cautamente la maschera e il Re riconosce prima il principe e poi meravigliato anche la principessa Lena e così anche i due ragazzi a loro volta si riconoscono e non si vedono più con disprezzo, ma come due persone che hanno imparato a conoscersi ed amarsi. Insieme decidono di vivere a Capri e di allontanarsi dalla vecchia vita,di distruggere tutti gli orologi e contare il tempo che passa attraverso le stagioni e la natura,di circondarsi di specchi ustori per far in modo che non ci sia mai il freddo,di costruire un teatro per divertirsi e di avere una comoda religione. Valerio inoltre dichiara che chi vuole darsi da fare nella società verrà dichiarato pazzo e il lavoro illegale. Esisterà solo l’ozio.

La scenografia è spoglia ma essenziale. La porta che si trova al centro del palco è appoggiata su una tavola di legno con le rotelle così da potersi muovere con semplicità, caratteristica molto utile per gli attori. Inizialmente infatti viene affisso un cartello per far capire che la scena si svolge nel regno di Popo. Successivamente ne vengono appesi altri sopra quello per trasportare il pubblico ,in ordine, nel regno di Pipi, nel vasto mondo, in una locanda e in fine di nuovo nel regno di Popo. Tutta la storia è accompagnata dalla musica suonata dal vivo poichè in un angolino, a lato del palco , seduta su una sedia quasi a sembrare anche lei una spettatrice, una ragazza tiene in mano una chitarra e all’occasione suona qualche melodia o canzone che viene poi interpretata dagli attori. Un’altra caratteristica , che il pubblico ha apprezzato particolarmente, è lo scambio di battute con gli spettatori. Il teatro è piccolo ed è forse grazie a questo che gli attori sono riusciti a creare un rapporto molto intimo con le persone presenti. Con maestria e anche un tocco di furbizia gli attori riescono a creare un bellissimo rapporto con il pubblico ed ad affrontare la grande importanza del testo di Georg Buchner con simpatia e leggerezza facendo riflettere e allo stesso tempo strappando un sorriso a tutti i presenti.

Ilaria Lavia

 

10 marzo 2017, Teatro bellARTE

commedia rivisitata di Georg Buchner, Leonce und Lena – Ein Lustspiel (1836)

Regia Angelo Maria Tronca

Aiuto Regia Salvatore Agli | Dramaturg Marco Lorenzi

con Cecilia Bozzolini, Valeria Camici, Angelo Tronca, Nicola Marchitiello e Marcello Spinetta

La sacralità della vita nel teatro civile. Pasolini e la morte: un rito culturale

“È teatro sociale”, esclama Mauro Avogadro, uno degli attori dello spettacolo Pasolini e la morte: un rito culturale, dopo il debutto al Teatro Baretti di Torino, mercoledì 15 Marzo scorso.

Con una sigaretta in bocca, il sorriso di chi è stanco ma soddisfatto, scambia qualche parola con me e altri curiosi che vogliono sentire qualcosa in più su uno spettacolo che ha lasciato a tutti qualcosa su cui riflettere. “Non esiste più” continua Avogadro, “ma io credo che sia essenziale. I greci hanno iniziato a fare teatro per questo. Io in questo spettacolo inizio a parlare con calma, perché gli argomenti sono importanti e non voglio spaventare lo spettatore. Poi cerco di evocare qualcosa su cui riflettere tutti insieme”. Ed è questo che lui e i suoi due colleghi hanno fatto, con l’aiuto di una troupe fantastica. Ma facciamo adesso un passo indietro.

Mauro Avogadro

Il Teatro Baretti è intimo, raccolto, un luogo dove la magia del teatro non fa fatica a materializzarsi. Questa volta però, gli spettatori entrando non si trovano di fronte a un sipario chiuso, curiosi di sapere cosa nasconda. Il sipario è aperto, gli attori sono già sulla scena e camminano immersi nei loro pensieri, mentre il resto dei collaboratori sistema le ultime cose. La quarta parete viene quindi abbattuta, noi sappiamo che quelli sono gli attori che, attraverso le loro parole, ci faranno intraprendere un viaggio in cui lo spettatore non potrà essere passivo e coccolato, e sedendoci non possiamo far altro che accettare la sfida.

Quando le luci si abbassano, gli attori attirano la nostra attenzione con le loro bellissime voci e subito comprendiamo che la storia è semplice: un regista (Mauro Avogadro) vuole girare un documentario su Pasolini. Egli stesso interpreterà lo scrittore che risponde alle domande di un giornalista (Gianluca Gambino), che sembra incarnare un po’ l’idea dell’”uomo medio” tanto odiato da Pasolini e bersaglio di Orson Welles ne La ricotta, mentre Lorenzo Fontana interpreta Pasolini durante alcuni momenti di stasi della narrazione.

Lo svolgimento e i temi dello spettacolo però sono tutto tranne che scontati: partendo dall’ipotesi che Pasolini sia stato coscientemente regista del film della sua vita, viene ripercorso sinteticamente il montaggio di esso, attraverso stralci di un intervista lasciata a Duflot e alcune sue poesie. Del resto, come mi suggerirà più tardi Avogadro “si parla solo della morte di Pasolini e del mistero attorno ad essa. Ma è importante parlare dell’uomo che è stato, perché quello che ha scritto è incredibilmente attuale”.

Ma andiamo con ordine: gli argomenti toccati dall’intervista sono molti ed eterogenei. Il giornalista e Pasolini sono seduti su due sedie bianche, che contrastano con il nero dello sfondo e dell’impalcatura. Su quest’ultima si muove l’alter-ego di Pasolini, al quale è affidata la declamazione delle poesie, accompagnate da proiezioni di immagini o di fotogrammi dei suoi film. In particolare questi momenti creano un’atmosfera sospesa, grazie anche all’uso della musica e, mentre la voce profonda e ferma di Avogadro sembra dare vita ai pensieri più profondi di Pasolini, la voce sottile e drammatica di Fontana recita le poesie con un dolore, una sofferenza e una consapevolezza che presagiscono già il terribile epilogo da tutti conosciuto.

Pasolini

Uno dei primi temi trattati è quello della sacralità della vita, molto caro a Pasolini: egli affermava infatti che tutto è santo, ma la santità è al tempo stesso una maledizione. Diceva di avere nostalgia del sacro perché rimaneva legato agli antichi valori, tanto che sperava che venisse costruita una democrazia senza cancellare il sentimento del sacro.

Successivamente viene trattato un argomento attuale più che mai, l’immigrazione, parlando di un’integrazione necessaria alla convivenza nelle città, perché se si accetta il “colore” di quelli che vogliono entrare con “innocente ferocia” nella nostra società, potremo arricchirci grazie alla loro “sacra tribalità” e così raggiungere un effettivo progresso.

Purtroppo però Pasolini si era già reso conto che non solo essi spesso vogliono occidentalizzarsi e non mantenere la loro cultura, ma anche che la maggioranza degli italiani è diventata di una “intolleranza violenta”, persone che non vogliono ricordare la povertà che li aveva caratterizzati.

Memorabile e commovente è stato sicuramente il momento in cui è stata proietta una parte de La ricotta, ovvero quella della citazione figurativa della Deposizione di Pontormo (1526-28).

In questa occasione l’intervistatore chiede a Pasolini della sua misoginia ed egli risponde di non essere affatto misogino, ma di “raffaellizzare le donne, di voler donare loro una forte aura di sacralità”.

Questo in particolare è stato un momento in cui il pubblico ha tenuto il fiato sospeso e si è ritrovato a riflettere su tutte le tematiche che lo spettacolo ha tirato fuori e che sono in realtà insite in ognuno di noi, solo che a volte serve un po’ d’aiuto per ragionare sulla realtà.

ricotta_deposizione

 

A spettacolo quasi finito, in un momento di buio dominato dalla musica, Fontana-Pasolini si spoglia, rimanendo nudo in scena: questo gesto vuole forse alludere alla morte dello scrittore, interpretando la vita in maniera circolare e quindi la fine di essa come un ritorno al ventre materno. Dopo questo gesto, infatti, l’attore si rannicchia su una poltrona, coperta da un telo bianco, in posizione fetale e recita un’ultima poesia, con una certa quiete e serenità. Questa tranquillità è sottolineata dall’uso della luce calda che crea quasi un’immagine caravaggesca di un uomo che nella morte ritrova una condizione di umanità.

L’ultima battuta è affidata ad Avogadro che nel frattempo è salito sull’impalcatura per annunciare agli spettatori di sapere che “siamo tutti in pericolo”, una delle frasi dell’ultima intervista che Pasolini ha rilasciato proprio il giorno prima di morire. Sicuramente un finale che ha fatto correre a tutti un brivido lungo la schiena, anche a coloro che non conoscevano bene le vicende e i pensieri dell’intellettuale, ma hanno seguito con attenzione lo spettacolo.

Gli attori hanno mostrato in scena di aver profondamente interiorizzato la lezione di Pasolini e incontrando successivamente Avogadro dietro le quinte ne ho avuto la conferma, poiché ha rivelato di averlo da sempre amato e studiato e che sentiva fortemente l’esigenza di realizzare uno spettacolo non di Pasolini, ma su Pasolini.

Da segnalare la scenografia, essenziale ma ben costruita, che in realtà è parte integrante dello spettacolo proprio perché su alcune sezioni specifiche vengono proiettate non solo scene da film pasoliniani ma anche riprese dal vivo della performance da angolazioni invisibili allo spettatore, ricordando proprio i documentari pasoliniani; scenografie che sottolineano anche la poliedricità degli argomenti trattati. Inoltre, tramite le riprese proiettate in real-time, si è potuto sottolineare ancora di più la forte contemporaneità degli argomenti, ma anche della figura stessa di Pasolini in quanto uomo.

Le luci sono state usate in modo da sottolineare la drammaticità degli argomenti e dei momenti rappresentati.

Tutti questi elementi hanno richiamato l’attenzione di un pubblico che di certo ha avuto molto da metabolizzare ed è stato così invitato a riflettere anche sulla nostra attualità attraverso le parole di un uomo davvero contemporaneo e che rimarrà per sempre nella Storia.

di Alice Del Mutolo

 

“Pasolini e la morte: un rito culturale”

Drammaturgia di Ola Cavagna

Con Mauro Avogadro, Lorenzo Fontana, Gianluca Gambino

Regia e allestimento Ola Cavagna, Ginevra Napoleoni, Massimiliano Siccardi

Regia video live Umberto Sareaceni

Musiche a cura di Tommaso Ziliani

Luci Alberto Giolitti

Associazione Baretti

 

L’innocenza degli anziani – Schegge In

Il 18 e 19 febbraio, presso il CuboTeatro e all’interno della stagione treatrale Schegge In 2016/17, la compagnia Teatro Presente ha portato in scena Il vecchio principe, candidato al “Premio Teatro del Mundo 2013” di Buenos Aires come Miglior Spettacolo Straniero.

_1390991In un spazio scenico vuoto e circondato da pareti nere, dopo che il pubblico si è seduto, i tre attori attendono il massimi silenzio per poi presentarsi come Antoine, il Principe e il Vecchio. Questi tre attori ci racconteranno la storia de Il vecchio Principe attraverso dialoghi, un grande uso del linguaggio corporeo e pochi oggetti scenici, inseriti di volta in volta durante lo spettacolo.

Il testo si rifà al racconto Il piccolo principe ma con protagonista un anziano altrettanto bizzarro e innocente quanto il bambino che conosciamo dalla storia originale . Questo anziano ci viene presentato solo come il Vecchio ed  è ricoverato in un ospedale geriatrico. Di lui si occupa un giovane infermiere che lentamente viene addomesticato e che piano piano si lascerà trasportare dalla vivacità del Vecchio.

Antoine desiderava fare il pittore ma la sua fantasia è smisurata, al posto di cappelli vedeva serpenti che inghiottono elefanti e per questo abbandona l’idea di fare l’artista per un lavoro più concreto, ovvero l’infermiere. Sapendo della passione per l’arte e la grandissima immaginazione di Antoine, il Vecchio gli chiede di disegnargli una pecora tutta per sé. Possibilmente una pecora giovane e  felice. Antoine gli disegna una pecora che è talmente piccola da non vedersi sul foglio e il Vecchio ne è entusiasta: è proprio ciò che voleva lui.

_1390637Il Vecchio racconta di essere venuto da un pianeta tutto suo, dove poteva guardare tutti i tramonti che voleva spostando poco più in là la sedia, in cui doveva pulire i crateri dei vulcani ed estirpare le radici dei terribili baobab. Proprio mentre si dedicava al giardinaggio aveva notato la crescita di una nuova pianta, molto diversa dai baobab. Davanti agli occhi increduli del  Vecchio stava sbocciando una rosa vanitosa e bisognosa di attenzioni.  Ne rimane subito affascinato e le dedica tutto il suo tempo, attribuendole un grande valore e facendola diventare la sua rosa.
Ma questa rosa è troppo capricciosa, vuole stare al riparo sotto una teca per non prendere freddo, si lamenta di qualsiasi cosa e il Vecchio, stufo di non vederla mai contenta, decide di abbandonarla e andarsene dal suo pianeta.

Mentre il Vecchio ci racconta tutto ciò, sul palco si crea come una seconda dimensione, quella del ricordo e del suo pianeta, dove vediamo la rosa effettivamente parlargli. Intanto Antoine nella stanza dell’ospedale cerca di farlo ritornare alla ragione dicendogli che sono stati i suoi parenti a farlo ricoverare, che non arriva da nessun pianeta e di prepararsi alle visite.
A fare visita al Vecchio sono la direttrice dell’ospedale, una donna vanitosa che vuole farsi applaudire e che dà ordini a tutti – persino alle sue stesse gambe -, una parente che parla solo di affari e non ha un minuto per il Vecchio, un ubriacone che beve per dimenticare la vergogna di bere e un  lampionaio che deve accendere e spegnere il lampione di continuo.

Il Vecchio non riceve attenzioni né dai parenti né dai dottori. In realtà l’unica persona che gli è realmente vicina è Antoine. Tra loro si è creato un rapporto di abitudine e quotidianità ma anche di affetto, al Vecchio rincuora sapere che ad una certa ora Antoine verrà a dargli le medicine, che gli rifarà il letto e gli dedicherà qualche minuto del suo tempo per chiacchierare. Pur avendo questo amico, il Vecchio non smette di pensare alla sua rosa e una sera, malato e con la febbre, saluta Antoine dicendo che sta per tornare al suo pianeta.

_1390981La compagnia Teatro Presente ha portato in scena uno spettacolo che ci ricorda quanto sia importante dare attenzione alle persone care, soprattutto agli anziani che tendiamo ad allontanare quando raggiungono una certa età e tornano a comportarsi come bimbi. Il piccolo principe con leggerezza riesce a trasmettere insegnamenti importanti e questi si rispecchiano anche nel testo scritto da César Bie, che è riuscito a mantenere lo stile dell’opera originale rendendo alcuni passaggi in scena particolarmente gioiosi, anche grazie alla musica di Chango Spasiuk, ma sempre offrendoci uno spettacolo capace di far riflettere.

Andreea Hutanu
Foto di Bruno Garetto

Il vecchio principe
Testo e regia di César Brie
Con Manuela De Meo, Daniele Cavone Felicioni, Pietro Traldi
Musiche Chango Spasiuk
Costumi Anna Cavaliere
Produzione Teatro Presente / ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione
Uno spettacolo di Teatro Presente

L’ultima performance: la vita

All’interno della stagione del TPE Teatro Piemonte Europa, Eros Pagni va in scena con Minetti di Thomas Bernhard, testo classico del teatro contemporaneo. Un magistrale attore diretto da un amico, Marco Sciaccaluga; due artisti che sono riusciti a trovare una perfetta intesa e a creare una reciproca collaborazione. Lo spettacolo prodotto dal Teatro stabile di Genova è stato in scena a Torino dal 15 al 19 febbraio.

Minetti racconta la storia di un attore ormai anziano, Bernhard Minetti appunto, che viene chiamato per interpretare uno spettacolo che segnerebbe il suo ritorno sulla scena teatrale dopo trent’anni di assenza. Minetti arriva dunque all’albergo e attende il suo amico e direttore del teatro, che gli ha dato appuntamento nella hall la notte di San Silvestro. Quest’ultimo tarda però ad arrivare; durante la lunga attesa l’attore incontra vari ospiti che alloggiano all’hotel, e racconta loro in modo ossessivo la storia della sua vita. Il suo attaccamento quasi morboso al passato si manifesta fin da subito, non solo tramite le storie che racconta, spesso ridondanti e sempre uguali, ma anche nell’atteggiamento che ha nei confronti della sua valigia. Questa, dalla quale non si allontana mai, contiene infatti un oggetto estremamente prezioso: la maschera del Re Lear. Il vecchio attore racconta con passione di come la sua  interpretazione del dramma shakespeariano lo abbia portato al successo, interpretazione però dalla quale non è più riuscito a separarsi, e lo capiamo dai racconti della sua vita quotidiana. Egli stesso afferma che ogni giorno, facendosi la barba o preparando la cena, ripete la parte per almeno venti minuti, e ogni domenica l’intera opera. Minetti spaccia questo comportamento come un “tener viva la memoria”, in realtà guardandolo da un punto di vista esterno sembra più un disperato tentativo di sentirsi ancora un attore vivo e presente sulla scena.    Continua la lettura di L’ultima performance: la vita

JE TE HAIME. Teatrodanza che racconta

“Odi et Amo”. Ti odio e ti amo scriveva Catullo, due sentimenti contrastanti, che mettono, però, radici nello stesso terreno, si scoprono complementari, come le facce di una stessa medaglia, si fondono e si saldano. Proprio come, nel titolo dello spettacolo, i vocaboli francesi “haine” odio e “aimer” amare, si uniscono a formare l’inesistente verbo “haime”. Inesistente solo sul vocabolario, ma assai presente e concreto nella vita di relazione. Il carme prosegue, nella traduzione di Salvatore Quasimodo “Forse chiederai come sia possibile; non so, ma è proprio così e mi tormento”. A questo rispondono i corpi dei due danzatori in scena. JETEHAIMEfoto-Olivier-GoirandCorpi tecnicamente impeccabili, che ricamano la narrazione legando tecnica di danza contemporanea, contact e una solida formazione teatrale. Continua la lettura di JE TE HAIME. Teatrodanza che racconta

A caccia di consapevolezza

Nel buio e nel silenzio del teatro si apre il sipario. Undici attori vestiti di nero sono disposti a schiera –in proscenio- con le spalle al pubblico. All’incirca al centro, il dodicesimo guarda verso la platea e veste di bianco. Intanto una gigantesca stella cometa -tempestata di 4300 crisantemi giallo-oro- discende dall’alto, molto lentamente, accompagnata dalle note dolci di Tu scendi dalle stelle.

Nessuno ha ancora proferito parola, eppure lo spettacolo ha già rivelato – a questo punto- molto di sé. Uno degli elementi scenici più simbolici è in scena, e l’aria pesante, mesta e sofferta –costante nel corso dello spettacolo- inizia, fin da subito, ad impregnare la sala. Latella, sin dall’inizio, sembra volerci avvisare: siamo di fronte a un testo più crudo e più violento di quel che si pensa, o che si è sempre pensato.

Inizia così questo percorso che attraverso la famiglia Cupiello ci parla anche e soprattutto di Eduardo De Filippo e della sua grande eredità. Ma l’eredità, come diceva lo stesso Eduardo, è la vita che continua: la vita che dalla morte viene rigenerata. Ed è esattamente su questo che Latella sembra voler rivolgere la propria attenzione.

Antonio Latella, attore e regista teatrale anticonvenzionale, ha da tempo a cuore il problema dell’eredità. Convinto, da un lato, dell’importanza della tradizione e della conoscenza del nostro passato teatrale, egli sottolinea, dall’altro, la necessità di assimilarla, digerirla, e quindi di interiorizzarla. Rifare significa morire, poiché la riproposta del teatro dei grandi maestri del passato preclude la possibilità -urgente e necessaria- di procedere: “I morti non ritornano” ci dice -non a caso- l’Arlecchino (interpretato da Roberto Latini) de Il servitore di due padroni (riscrittura integrale a cura di Ken Ponzio, regia di Antonio Latella).

Da qui uno spettacolo distante dall’ormai lontana messinscena eduardiana, di fronte al quale la perplessità del pubblico è palpabile. Ai più lo spettacolo non piace. Tra questi c’è chi ritiene indegno stravolgere in tal modo un capolavoro qual è l’originale Natale in casa Cupiello. A loro si aggiunge chi si sforza di capire, ma il cui sguardo nasconde in realtà una forte disillusione. Altri, semplicemente non riescono a mantenere la concentrazione. Per queste ragioni, durante l’intervallo che separa la prima parte (I e II atto) dall’epilogo(III atto), molte persone abbandonano la sala.

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Ora, che il lavoro di Latella sfoci verso l’intellettualismo è evidente. Così come è chiaro l’impegno e la preparazione che le sue messinscene presuppongono. Per meglio capire ciò di cui si sta parlando è bene soffermarsi un momento sull’interpretazione delle didascalie, elemento caratteristico e importante della rappresentazione. Ormai da tempo Latella adotta la particolare soluzione di affidare agli attori non soltanto la recitazione delle battute, ma anche quella delle didascalie: si tratta di un accorgimento tanto usato dal regista da essere stato più volte definito una sua cifra stilistica. Siamo di fronte a una modalità non sconosciuta prima di lui, ma sicuramente inusuale. Soluzione antinaturalistica e talvolta straniante, essa infatti, se da un lato amplia lo spazio scenico stimolando l’immaginazione dello spettatore –così come un romanzo-, dall’altro presuppone una conoscenza più o meno approfondita del testo, senza la quale, la fruizione dello spettacolo diventa problematica.

Chiarito questo, ci si potrebbe interrogare sulle svariate motivazioni per le quali il pubblico potrebbe avere ragione o meno a non apprezzare il lavoro di Latella, ma sarebbe un’operazione superficiale, oltre che scontata. E’ chiaro che uno spettatore digiuno di Eduardo e che per di più di napoletano se ne intende ben poco non capisca granché della messinscena del regista e per questo ne resti amareggiato. Più interessante sarebbe invece soffermarsi su un particolare atteggiamento -ormai diffuso, e, purtroppo, non solo interno al teatro-, che sembra attanagliare, sempre più, l’uomo moderno.

Ciò su cui preme far luce è una generale attitudine a rimanere sulla superficie delle cose. Lavoriamo per associazioni e accenniamo a due termini: società liquida -coniato dal sociologo, da poco mancato, Z. Bauman- e cultura della fretta, che Stephen Bertman crea per indicare il modo in cui si vive nel nostro tipo di società. Ci bastino per comprendere alcune delle ragioni di tale atteggiamento “superficiale”.   Ma in cosa consiste, nello specifico, questa incapacità di entrare nel significato profondo delle cose, in relazione allo spettatore che -addirittura innervosito per i soldi sprecati- lascia la sala a rappresentazione inconclusa? La risposta è semplice e breve tanto che la si potrebbe ridurre ad una sola parola: consapevolezza. O meglio nella mancanza di consapevolezza che lo spettatore dimostra nel presentarsi ad uno spettacolo senza conoscere, se non il testo, per lo meno la linea artistica- in questo caso fortemente anticonvenzionale- del regista. Come si è detto prima questa non vuole essere una polemica, ma una presa di coscienza, che ci permette di definire superficiale (non nella sua accezione negativa, ma come dato di fatto) l’atteggiamento di chi abbandona la sala con frustrazione, come se gli fosse stato fatto un torto. Quando, in realtà, l’unico responsabile del torto che pensa gli sia stato fatto è sé stesso.

Che il teatro sia fonte di divertimento non significa che esso rappresenti una banale evasione che ci permette di “spegnere il cervello”. Il teatro, così come altre forme di intrattenimento presuppone una certa consapevolezza. Che ci si trovi di fronte ad uno spettacolo teatrale, o ad un film, anche nel caso in cui esso sia un cinepanettone -per fare due esempi-, è diritto dello spettatore sapere dove si trova e cosa sta facendo.

Latella non contamina né rielabora i contenuti del testo. La sua messa in scena restituisce allo spettatore il testo intonso. E’ l’interpretazione visiva quella che varia, funzionale al regista per allontanarsi dall’autore quanto necessario a ritrovarlo.   Sì, si può certo non essere in sintonia con la linea artistica di Latella. No, non ci si può indispettire di fronte ad uno spettacolo perché esso non è “come ci aspettavamo”. Per quanto possa sembrare strano, anche quando la rappresentazione non piace il teatro può essere importante, ancora una volta è motivo di confronto, di riflessione. Anzi è importante soprattutto quello che “non piace”, che lascia “insoddisfatti” perché aiuta a formare un gusto e una consapevolezza che permetterà di essere critici e di pensare con la propria testa.

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Di Eduardo De Filippo
Drammaturgia Linda Dalisi
Con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone, Emilio Vacca, Alessandra Borgia
Regia Antonio Latella
Scene Simone Mannino, Simona D’amico
Costumi Fabio Sonnino
Luci Simone De Angelis
Musiche Franco Visioli
Teatro di Roma

 

La famiglia Popoch, o come lavorare per vivere.

I due protagonisti Yona e Leviva appaiono come due figurine su uno schermo.  Se si accetta l’idea secondo cui tra attore e pubblico, a teatro, non dovrebbe ergersi un vetro, nel caso de Il lavoro di vivere non è del tutto chiaro se questo vetro esista o meno. Questa rappresentazione è un quadro dipinto perfettamente. L’atmosfera è talmente fedele che viene da domandarsi se si assista a una storia raccontata già mille volte o a un pezzo di vita vera che assomiglia troppo a una finzione. La risposta che viene da darsi è che forse gi attori desideravano rendere proprio questa sensazione ibrida.
Carlo Cecchi, che intrepreta un uomo stanco della vita coniugale, sul palco si muove proprio come se fosse a casa sua. Inciampando e balbettando si comporta davvero come un marito che discute con la moglie. Se la sua intenzione era di trasmettere un dubbio, è stato eccezionale.
La camera da letto che accoglie i due coniugi è costruita con precisione analitica. Le serrande abbassate e i dettagli di luce contribuiscono a creare quella sensazione di “essere a casa”. Il lavoro di Gian Maurizio Fercioni è stato pertanto sobrio e corretto. Al centro di questa stanza c’è il letto attorno a cui girano i due personaggi, è il campo di battaglia loro e degli attori.
Fulvia Carotenuto interpreta Leviva e senza di lei Cecchi e Yona avrebbero poco senso. Nelle prime battute la sua interpretazione pare sotto tono rispetto a quella di Cecchi. L’attrice sembra semplicemente meno a suo agio con la parte. A un certo punto, però, Leviva si prende uno schiaffo e la recitazione di Fulvia Carotenuto dà uno schiaffo al pubblico. Diventa talmente vera che in lei si riconosce – al di là delle potenzialità del testo che lo permette – la chiave di lettura per capire l’interpretazione di Cecchi e il gusto di tutta la rappresentazione. Carotenuto diventa davvero una donna ossessionata dal “mettere su del tè” per risolvere i conflitti. Entra del tutto nel personaggio. Allora quando il testo richiede agli attori di rivolgersi al pubblico apostrofandolo direttamente, Cecchi e Carotenuto non parlano al vuoto, per pura retorica testuale, come potrebbe apparire superficialmente, ma è davvero come se fossero a casa loro a palare agli angoli, da soli, come a volte succede.
Carotenuto lascia un po’ di amaro in bocca solamente nel finale, dal momento che non si è goduta la sua tragedia, è andata veloce alla chiusura della rappresentazione, e tutta la scena ha perso di intensità.
Gunkel, il terzo personaggio, interpretato da Massimo Loreto è un personaggio senza né lode né infamia e la resa dell’attore non si discosta molto da questa definizione. Indubbiamente era fedele al clima della rappresentazione, ma mancava delle sfumature degli altri due interpreti.
Questo clima così intrigante è diretto dalla regia di Andrée Ruth Shammah che ha evidentemente compreso il testo di Hanoch Levin in tutte le sue virtù e potenzialità inespresse.
Un lavoro dunque, per quanto rodato a lungo, che ancora colpisce con ironie sottili e frecciatine ben piazzate, che sembrano uscite spontaneamente  ed è per questo che risultano ancora più amare. Il testo è costruito per aumentare in asprezza più ci si avvicina al finale e gli attori nelle ultime battute sono ormai riusciti a portare completamente il pubblico nella intimità della loro stanza. I movimenti di Yona diventano sempre più stentorei – reso da Cecchi fisicamente molto bene – finché a un certo punto, carico di angosce, si ferma. Non si muove più. Si alzano le serrande ed è giorno. Nella casa in cui tutti ci eravamo abituati a stare entra la luce. Questo finale, scenicamente incisivo, illumina tutte le sfumature.

Tante facce nella memoria e le sue vedove “assenti”

Lo spettacolo, andato in scena il 17 gennaio 2017 alle Fonderie Limone di Moncalieri, è una drammaturgia a sei voci. Scenografia di Paola Comencini, disegno e luci di Gianni Staropoli e regia di Francesca Comencini (regista di “Gomorra la serie”). Interpretato dalle bravissime Bianca Nappi, Lunetta Savino, Carlotta Natoli, Simonetta Solder, Chiara Tomarelli e Mia Benedetta che ne ha curato insieme alla regista i testi.tante-facce-6

Sei storie di donne protagoniste, a vario titolo, dell’eccidio di uomini a loro cari nelle Fosse Ardeatine quando nel 1944, a seguito dell’attentato di Via Rasella, i nazisti coadiuvati dai fascisti si vendicarono con atrocità devastante contro uomini colpevoli di aver difeso il loro onore, amor di patria e libertà. A causa della morte di 33 soldati delle SS furono arrestati e uccisi 335 italiani, l’ordine era “per ogni tedesco ucciso dovevano morire 10 italiani”.

Una voce fuori campo ci ricorda che non siamo di fronte ad uno sceneggiato né a racconti di fantasia, ma a testimonianze dirette raccolte da Alessandro Portelli, uno dei principali studiosi della storia orale, che ha ispirato la regista.                                                                       Lo spettacolo, incentrato sulla memoria e sulla necessità di ricordare, mette al centro la figura femminile ricordandoci quante donne coraggiose hanno partecipato attivamente come partigiane o compagne di partigiani. Non c’è ricordo più forte di chi realmente l’ha vissuto, ricordo che con grande abilità le sei attrici hanno incarnato con molta emotività e sensibilità tanto da non distinguere più l’attore dai personaggi realmente esistiti. Sei monologhi carichi di emozioni, ricordi e qualche nostalgico rimpianto.   Le tre donne partigiane (Bianca Nappi, Mia Benedetta e Chiara Tomarelli) rievocano in tono freddo, duro e umile le gesta violente quanto necessarie compiute.  Le donne non partigiane, con le eccellenti interpretazioni di Lunetta Savino,tante-facce-10Carlotta Natoli e Simonetta Solder, invece, raccontano con più pathos quei momenti di intime sofferenze e di privazioni vissute per la mancanza dei loro cari (padri e mariti).

Viene rappresentato un lutto mai veramente rielaborato perché per anni la storia non ha mai riconosciuto e ricordato abbastanza il sacrificio e il supplizio che quegli uomini e indirettamente quelle donne, ora finalmente unite nel ricordo, hanno vissuto per difendere un’ideale nobile e la patria. E’ un lutto strano, un lutto di figlie, madri e vedove assenti. Assenti perché per anni non hanno potuto raccontare, perché emarginate, perché parenti di antifascisti caduti; assenti perché madri sole con figli da accudire. Non avevano avuto neanche il tempo di piangere. Assenti perché non sapevano nulla, avevano visto arrestare i loro cari, avevano immaginato e anche sperato che fossero stati deportati nei campi di concentramento. Invece no, un trafiletto su “Il Messaggero” il giorno seguente diceva: “L’ordine è già stato eseguito”. Non restava che riconoscerei cadaveri quasi irriconoscibili.                                                                                                 Colpisce una scenografia scarna ma d’impatto, essenziale ma non spoglia: in primo piano le sei sedie e in quinta tanti cappotti appesi quante furono le vittime. L’attenzione è tutta focalizzata su quelle sei donne illuminate da una luce lieve. Sono sei voci che come un’orchestra ben diretta diventano un solo afflato di dolore ma anche di fiducia. E quando lo spettacolo, che ha tenuto un silenzio ingombrante in sala, arriva al finale, le sei donne si raccolgono sotto i cappotti come fossero un’unica persona e a chiudere la pièce teatrale viene suonata la canzone Sempre di Gabriella Ferri.  Le attrici sono sensibilmente commosse, quasi consapevoli che non ci sarà mai un altro ruolo che le farà ritornare a essere quelle donne così fragili ma forti, così comuni ma eroiche. A fine spettacolo tutto il pubblico le richiama con applausi svariate volte dalle quinte e le attrici rientrano sempre ringraziando e riapplaudendo a loro volta il pubblico.

Virginia Cappuzzo.

“IL LAVORO DI VIVERE” – UNA NOTTE TORMENTATA

Un enorme letto, posto su un piano inclinato verso il pubblico, domina la scena. Gli spettatori osservano, o per meglio dire “spiano”, come guardando attraverso le veneziane della camera da letto, l’aspro scontro che si scatena fra i due protagonisti, Yona e Leviva, sposati da trent’anni. Imprigionati nella routine di una vita ormai consumata e monotona, che per Yona è diventata così insopportabile da spingerlo ad alzarsi, in piena notte, e a svegliare la moglie, scaraventandola a terra con tutto il materasso, chiedendole: “Perché sto con te Leviva?”. E mentre lei cerca di placarlo, di parlargli con calma, lui, insultandola, si veste e prepara la valigia, pronto ad andarsene, per staccarsi da quella vita che ormai gli si stringe addosso come una prigione. A questo punto l’iniziale calma di Leviva viene meno. Anche lei comincia a rispondere aspramente alle offese del marito, dando così inizio a uno scontro spietato, dove i due infieriscono l’uno sull’altro, sputandosi addosso i rancori, le frustrazioni, le delusioni , incolpandosi a vicenda di non avere avuto la vita che avevano sognato. Quella camera matrimoniale, simbolo di intimità e affetto, si trasforma così, sotto lo sguardo del pubblico, in una sorta di ring, dove la coppia si affronta con ironia e ferocia. Sarà l’arrivo di un terzo personaggio, Gunkel, l’indiscreto amico di Yona, straziato dal celibato e dalla sua vita desolata, a portare a una sorta di svolta nel conflitto. Infatti, dopo la sua comparsa, Yona mette fine al suo proposito di andarsene e si arrende alla realtà delle cose. Lui non può andare via, gli manca il coraggio di apportare un vero cambiamento, perché ciò che lo tiene ancorato a quella vita che ormai disprezza è la paura schiacciante di rimanere soli, “soli nel buio della notte”. Ed ecco quindi la rivelazione che si spiega davanti ai due, loro stanno insieme, e staranno ancora insieme, continuando ad andare avanti nel loro quotidiano lavoro di vivere, preferendo quella vita grigia e ormai spenta, piuttosto che affrontare la solitudine. Solitudine che alla fine giunge comunque, Yona muore, l’infarto lo spegne, in quel letto che ha dominato la scena.

Con un’ottima recitazione, gli attori hanno saputo esprimere appieno la triste realtà in cui vivono i loro personaggi. Carlo Cecchi, con una recitazione un po’ trascinata, con delle frasi biascicate e il passo strisciante, ha saputo mostrare l’angoscia e lo sfinimento interiore del personaggio di Yona. Accanto a lui Fulvia Carotenuto, con una voce squillante e decisa, ha interpretato e ha reso vivo il personaggio di Leviva. Buona anche la recitazione di Massimo Loreto nei panni di Gunkel.

La regia di Andrée Ruth Shammah, grazie al grande lavoro degli attori, ha saputo mettere in scena al meglio il testo di uno dei maggiori drammaturghi israeliani, Hanoch Levin, poco conosciuto e rappresentato in Italia. Un autore criticato da coloro che non apprezzano il suo approccio libero e sincero nel raffigurare i tabù, lo stile di vita e il modo di pensare della sua gente. Il suo modo di rappresentare con sincerità il mondo che vedeva, senza censure o perbenismo, gli ha permesso di rendere vivi, veri, i suoi personaggi. Di creare un testo che svela le ombre e le meschinità che si celano dietro a ognuno di noi, e che fa riflettere sulle pieghe amare della vita e sulle debolezze dell’animo umano.

Gisella Marcuz

 

Slava’s Snowshow – Solo Animali da Palcoscenico

Per la terza volta, il teatro Bellini di Napoli ha ospitato lo spettacolo Slava’s Snowshow con la regia di Viktor Kramer e Slava Polunin riuscendo ancora a far sognare grandi e piccini.

Con una scenografia semplice fatta di stelle, costumi buffi, trucco appariscente e trovate tecnico-artistiche geniali, Slava e i suoi clown accompagnano il pubblico in un viaggio poetico, malinconico ed emozionante, trasformando il teatro in un luogo sorprendete.
Ma chi è Slava?
Nato in una piccola città russa, trascorre l’infanzia a stretto contatto con la natura sviluppando una grande creatività. Inizia il suo percorso di clown a Salisburgo che lo porterà a studiare mimo e a cambiare la figura del clown del XXI secolo; una figura non più legata al circo ma libera e teatrale.

Lo spettacolo  è anarchico come anarchici sono tutti i clown che si muovono sul palco e tra il pubblico. Tutto è possibile: può piovere, nevicare, ci si può trovare incatenati in una gigantesca ragnatela o in mezzo a una bufera, si possono smarrire oggetti o trovarsi in una spa.
Quello che fa Slava è spostare la quarta parete, quella parete immaginaria, che divide il pubblico dagli attori, creando un muro protettivo tra il teatro Bellini, luogo per due ore fantastico e il resto del mondo.

Il grammelot, con intercalari partenopei, è l’unico momento in cui il clown interrompe una musica narrativa, sempre presente. Una musica che accompagna movimenti precisi e silenziosi, ritmati e ben incastrati nello spazio scenico, ricordando il lavoro pantomimico portato avanti da due dei grandi artisti che lo hanno ispirato: Charlie Chaplin e Marcel Marceau.

La tenerezza, la semplicità e la fisicità di Slava coinvolgono tutto il pubblico. Il clown con la sua tragicommedia e travolgenza conquista tutti: dai più piccoli ai più grandi. Un pubblico in balia della follia dei clowns, un pubblico che deve sapersi divertire lasciandosi andare, dimenticandosi della propria età e che forse deve avere un po’ di pazienza.

Sembra non esserci una narrazione in Slava’s Snowshow per cui la forza dello spettacolo non va trovata nella storia, ma nelle emozioni, nelle sensazioni e nello stupore che le trovate artistiche e la presenza fisica dei clown, suscitano. Tutto è fuori dalle convenzioni e per un attimo non si comprende se si è pagato un biglietto per uno spettacolo teatrale o circense, se si è adulti o bambini o se si è fuori luogo, perché non si sono portati i nipotini a seguito. Ma una cosa è certa, l’esperimento di Slava riesce solo se ci si ricorda che si è stati bambini, tutti.

La tournée, per chi non volesse perderla, approderà a Bergamo e a Bologna rispettivamente a febbraio e a marzo.

È consigliato portare il bambino che è in ogni adulto; magari senza essere passati prima dal parrucchiere e non indossando quella giacca di camoscio che tanto ci piace.