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A caccia di consapevolezza

Nel buio e nel silenzio del teatro si apre il sipario. Undici attori vestiti di nero sono disposti a schiera –in proscenio- con le spalle al pubblico. All’incirca al centro, il dodicesimo guarda verso la platea e veste di bianco. Intanto una gigantesca stella cometa -tempestata di 4300 crisantemi giallo-oro- discende dall’alto, molto lentamente, accompagnata dalle note dolci di Tu scendi dalle stelle.

Nessuno ha ancora proferito parola, eppure lo spettacolo ha già rivelato – a questo punto- molto di sé. Uno degli elementi scenici più simbolici è in scena, e l’aria pesante, mesta e sofferta –costante nel corso dello spettacolo- inizia, fin da subito, ad impregnare la sala. Latella, sin dall’inizio, sembra volerci avvisare: siamo di fronte a un testo più crudo e più violento di quel che si pensa, o che si è sempre pensato.

Inizia così questo percorso che attraverso la famiglia Cupiello ci parla anche e soprattutto di Eduardo De Filippo e della sua grande eredità. Ma l’eredità, come diceva lo stesso Eduardo, è la vita che continua: la vita che dalla morte viene rigenerata. Ed è esattamente su questo che Latella sembra voler rivolgere la propria attenzione.

Antonio Latella, attore e regista teatrale anticonvenzionale, ha da tempo a cuore il problema dell’eredità. Convinto, da un lato, dell’importanza della tradizione e della conoscenza del nostro passato teatrale, egli sottolinea, dall’altro, la necessità di assimilarla, digerirla, e quindi di interiorizzarla. Rifare significa morire, poiché la riproposta del teatro dei grandi maestri del passato preclude la possibilità -urgente e necessaria- di procedere: “I morti non ritornano” ci dice -non a caso- l’Arlecchino (interpretato da Roberto Latini) de Il servitore di due padroni (riscrittura integrale a cura di Ken Ponzio, regia di Antonio Latella).

Da qui uno spettacolo distante dall’ormai lontana messinscena eduardiana, di fronte al quale la perplessità del pubblico è palpabile. Ai più lo spettacolo non piace. Tra questi c’è chi ritiene indegno stravolgere in tal modo un capolavoro qual è l’originale Natale in casa Cupiello. A loro si aggiunge chi si sforza di capire, ma il cui sguardo nasconde in realtà una forte disillusione. Altri, semplicemente non riescono a mantenere la concentrazione. Per queste ragioni, durante l’intervallo che separa la prima parte (I e II atto) dall’epilogo(III atto), molte persone abbandonano la sala.

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Ora, che il lavoro di Latella sfoci verso l’intellettualismo è evidente. Così come è chiaro l’impegno e la preparazione che le sue messinscene presuppongono. Per meglio capire ciò di cui si sta parlando è bene soffermarsi un momento sull’interpretazione delle didascalie, elemento caratteristico e importante della rappresentazione. Ormai da tempo Latella adotta la particolare soluzione di affidare agli attori non soltanto la recitazione delle battute, ma anche quella delle didascalie: si tratta di un accorgimento tanto usato dal regista da essere stato più volte definito una sua cifra stilistica. Siamo di fronte a una modalità non sconosciuta prima di lui, ma sicuramente inusuale. Soluzione antinaturalistica e talvolta straniante, essa infatti, se da un lato amplia lo spazio scenico stimolando l’immaginazione dello spettatore –così come un romanzo-, dall’altro presuppone una conoscenza più o meno approfondita del testo, senza la quale, la fruizione dello spettacolo diventa problematica.

Chiarito questo, ci si potrebbe interrogare sulle svariate motivazioni per le quali il pubblico potrebbe avere ragione o meno a non apprezzare il lavoro di Latella, ma sarebbe un’operazione superficiale, oltre che scontata. E’ chiaro che uno spettatore digiuno di Eduardo e che per di più di napoletano se ne intende ben poco non capisca granché della messinscena del regista e per questo ne resti amareggiato. Più interessante sarebbe invece soffermarsi su un particolare atteggiamento -ormai diffuso, e, purtroppo, non solo interno al teatro-, che sembra attanagliare, sempre più, l’uomo moderno.

Ciò su cui preme far luce è una generale attitudine a rimanere sulla superficie delle cose. Lavoriamo per associazioni e accenniamo a due termini: società liquida -coniato dal sociologo, da poco mancato, Z. Bauman- e cultura della fretta, che Stephen Bertman crea per indicare il modo in cui si vive nel nostro tipo di società. Ci bastino per comprendere alcune delle ragioni di tale atteggiamento “superficiale”.   Ma in cosa consiste, nello specifico, questa incapacità di entrare nel significato profondo delle cose, in relazione allo spettatore che -addirittura innervosito per i soldi sprecati- lascia la sala a rappresentazione inconclusa? La risposta è semplice e breve tanto che la si potrebbe ridurre ad una sola parola: consapevolezza. O meglio nella mancanza di consapevolezza che lo spettatore dimostra nel presentarsi ad uno spettacolo senza conoscere, se non il testo, per lo meno la linea artistica- in questo caso fortemente anticonvenzionale- del regista. Come si è detto prima questa non vuole essere una polemica, ma una presa di coscienza, che ci permette di definire superficiale (non nella sua accezione negativa, ma come dato di fatto) l’atteggiamento di chi abbandona la sala con frustrazione, come se gli fosse stato fatto un torto. Quando, in realtà, l’unico responsabile del torto che pensa gli sia stato fatto è sé stesso.

Che il teatro sia fonte di divertimento non significa che esso rappresenti una banale evasione che ci permette di “spegnere il cervello”. Il teatro, così come altre forme di intrattenimento presuppone una certa consapevolezza. Che ci si trovi di fronte ad uno spettacolo teatrale, o ad un film, anche nel caso in cui esso sia un cinepanettone -per fare due esempi-, è diritto dello spettatore sapere dove si trova e cosa sta facendo.

Latella non contamina né rielabora i contenuti del testo. La sua messa in scena restituisce allo spettatore il testo intonso. E’ l’interpretazione visiva quella che varia, funzionale al regista per allontanarsi dall’autore quanto necessario a ritrovarlo.   Sì, si può certo non essere in sintonia con la linea artistica di Latella. No, non ci si può indispettire di fronte ad uno spettacolo perché esso non è “come ci aspettavamo”. Per quanto possa sembrare strano, anche quando la rappresentazione non piace il teatro può essere importante, ancora una volta è motivo di confronto, di riflessione. Anzi è importante soprattutto quello che “non piace”, che lascia “insoddisfatti” perché aiuta a formare un gusto e una consapevolezza che permetterà di essere critici e di pensare con la propria testa.

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Di Eduardo De Filippo
Drammaturgia Linda Dalisi
Con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone, Emilio Vacca, Alessandra Borgia
Regia Antonio Latella
Scene Simone Mannino, Simona D’amico
Costumi Fabio Sonnino
Luci Simone De Angelis
Musiche Franco Visioli
Teatro di Roma