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Human Animal -FDCT

Debutta a Torino, all’interno del Festival Delle Colline Torinesi, lo spettacolo della compagnia La ballata dei Lenna, risultato del progetto vincitore di Hangar Creatività.

Human Animal. Se sei immune alla noia non c’è niente che tu non possa fare.” è il suo titolo. L’autore contemporaneo americano David Foster Wallace -e in particolare “Il re Pallido”, suo ultimo libro lasciato incompiuto-, è invece la fonte ispiratrice dalla quale Paola di Mitri decide di partire per la scrittura dello spettacolo. Un romanzo che affronta in particolar modo i temi della noia della quotidianità e dell’angoscia esistenziale che attanagliano l’uomo, oggi più che mai.

Se Wallace descrive la vita di un gruppo di funzionari della IRS (agenzia tributaria statunitense), e nello specifico la necessità di elaborare ed affrontare nel migliore dei modi la tediosità del loro lavoro, Paola Di Mitri trasporta la vicenda in Italia, concentrandosi sugli impiegati dell’agenzia delle entrate. Con alcuni di loro gli attori trascorrono un primo momento di ricerca, durante il quale raccolgono informazioni, suggestioni, pensieri, gesti e nevrosi, per poi passare ad una seconda fase di selezione e rielaborazione. Costruiscono a questo punto i tre personaggi cardine dello spettacolo – a tratti al di là e al di qua dello schermo in un’alternanza che integra e consegna talvolta personaggi cinematografici, talvolta teatrali -, all’interno di una performance che lascia ampio spazio –come d’altronde richiesto da Hangar- all’utilizzo delle nuove tecnologie, nonché ad una particolarissima interdisciplinarità.

La scenografia è scarna ed essenziale. Il palcoscenico non c’è. Di fronte al pubblico soltanto un piccolo spazio vuoto interrotto da uno schermo, dietro al quale talvolta si nascondono gli attori. Questi ultimi, infatti, in alcuni punti completano, danno voce e corpo al filmato, che s’interrompe, che continua muto, che lascia fuori campo un personaggio ora di fronte al pubblico, in carne ed ossa. Gli attori poi -bisogna precisare- non sono soltanto dei semplici attori, ma dei performer. Si dimenano sulle note di Je t’aime… moi non plus (Serge Gainsbourg e Jane Birkin) e cantano, oltre a recitare, per spogliarsi infine anche della loro maschera d’attore. O forse per svelarne un’altra, liberandosi ad ogni modo dal personaggio fino a quel momento interpretato.

La performance si divide infatti in due parti: durante l’ultima mezz’ora tutti si spostano nella sala accanto. Qui, su di una pedana, gli attori -pur continuando a recitare- hanno un colloquio diretto con il pubblico, che si vede (con grande timore) chiamato in causa. Giocano con gli spettatori, che – a questo punto- contribuiscono attivamente alla costruzione del senso dell’opera. Come fosse uno sguardo in macchina, quindi, i tre performer sono ora portatori dei pesanti pensieri dell’autore. Quei pensieri che, il 12 settembre dell’anno 2008, probabilmente lo spinsero al suicidio. Scelgono di dare voce e forma alle sue ultime parole, completando la parte mancante di quel libro, lasciato da Wallace -come già detto- inconcluso. E decidono di fare del finale un’esortazione alla vita. Un incitamento che ha come obiettivo quello di risvegliare ciascuno da quella condizione di assopimento e alienazione di cui troppo spesso oggi l’uomo è vittima.. ormai, purtroppo, senza più accorgersene. Cercano di far capire che il tempo passa incessantemente e che ogni giorno abbiamo perso un altro giorno che non tornerà piú. Che ci stiamo dimenticando dei veri valori, e del significato della bellezza, quella autentica. “Il mondo così com’è oggi è una burocrazia” scrive Wallace. Viviamo in un mondo troppo complicato. E’ vero. Ma ciò non può impedire (per lo meno non del tutto) di essere felici. Di vivere davvero. Di lasciarsi scompigliare e spettinare dalla vita, senza che questa si limiti a passarci sopra. O di fianco. Di riuscire ad intravedere quella meraviglia con cui un tempo eravamo capaci di vivere. Sarà forse più difficile, ma non impossibile. E il loro compito, oggi, è quello di darci un po’ più di coraggio. Di darci un piccolo spintone in avanti, per avvicinarci alla vita. Quella vera.

Distruggono il mondo/ In pezzi/ Distruggono il mondo/ A colpi di martello/ Ma non mi importa/ Non mi importa davvero/ Ne rimane abbastanza per me/ Ne rimane abbastanza/ Basta che io ami/ Una piuma azzurra/ Una pista di sabbia/ Un uccello pauroso/ Basta che io ami/ Un filo d’erba sottile/ Una goccia di rugiada/ Un grillo di bosco/ Possono rompere il mondo/ In frantumi/ Ne rimane abbastanza per me/ Ne rimane abbastanza/ Avrò sempre un po’ d’aria/ Un filetto di vita/ Un barlume di luce nell’occhio/ E il vento nelle ortiche (..)   (Boris Vian, ’51-‘52, Non vorrei crepare)

 

di Paola di Mitri
regia Nicola Di Chio, Paola di Mitri, Miriam Fieno

con Martin Chishimba, Paola di Mitri, Miriam Fieno
luci e visual concept Eleonora Diana
video e riprese Vieri Brini e Irene Dionisio 

produzione La Ballata dei Lenna
produzione esecutiva ACTI Teatri Indipendenti
sostegno alla produzione Hangar Creatività (Assessorato alla Cultura Regione Piemonte, Fondazione Piemonte dal Vivo), Zona K Milano, Factory Compagnia Transadriatica,
Principio Attivo Teatro
in collaborazione con Scuola Holden
vincitore bando Funder35
vincitore progetto Hangar Creatività

 

 

XXII Festival delle Colline Torinesi , Conferenza Stampa

Mercoledì 19 aprile presso il Goethe-Institut ha avuto luogo la conferenza stampa di presentazione della XXII edizione del Festival delle Colline Torinesi, un appuntamento da non perdere dedicato alla creazione teatrale contemporanea. Dialogano sull’argomento: Jessica Kraatz Magri, direttrice dell’Istituto Culturale della Repubblica Federale di Germania, Sergio Ariotti, direttore del Festival, Antonella Parigi, assessore della regione e Barbara Graffino (Compagnia di San Paolo).

Qui si racconta e si anticipa un’edizione tutta dedicata alla donna, che porta alla ribalta moltissime autrici (come Sasha Marianna Salzmann, Mirjana Bobic Mojsilovic, Milena Costanzo..), registe (tra le quali Paola Rota, Daniela Nicolò, Fiona Sansone, Chiara Guidi..) nonché interpreti e performer di altissima qualità. E, come se non bastasse, di una donna è anche il segno d’artista del Festival 2017: parliamo di Marisa Mertz, artista italiana di altissimo talento, per di più unica rappresentante femminile della corrente dell’Arte Povera. Ventisette sono le compagnie che presentano i loro lavori, alcuni dei quali sono in prima assoluta (altri in prima nazionale o quantomeno regionale), con nomi di spicco della creazione contemporanea. Diciannove i giorni a disposizione (4/22 giugno).
Italia, Germania, Grecia, Serbia, Somalia e Libano sono invece i Paesi ospiti da cui provengono gli spettacoli internazionali.
Segio Ariotti ha guidato i presenti nella lettura del programma, attraverso un breve ma efficace focus sugli spettacoli, raggruppabili per famiglie tematiche. Delle ventisette rappresentazioni complessive, sei presentano al centro dell’attenzione poetesse e letterate. Tra queste vanno ricordate: Lettere della notte, che vede l’incontro tra Chiara Guidi e Nelly Sachs, scrittrice e poetessa tedesca di origine ebraica, Premio Nobel 1966; L’amica geniale, che prende spunto dal notissimo ciclo di romanzi dell’autrice senza volto Elena Ferrante; Il cielo non è un fondale, un atto drammatico apparentemente “senza trama e senza finale” che prova a restituirci i continui spostamenti di senso tra quello che noi siamo e quello che ci succede intorno; Emily di e con Milena Costanzo, seconda parte del progetto su Sexton, Dickinson e Weil; Amelia la strega che ammalia and friends (dove Amelia è Amelia Rosselli) di Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa e Corale numero uno, di e con Elena Bucci, che racconta di una singolare e sventurata eroina zingara, Bronislawa Wajs (nome d’arte Papusza), poetessa anch’essa, liberamente tratto dal testo Sputa tre volte di Davide Reviati, uno dei più interessanti autori di graphic novel internazionale.
Hanno invece a che fare con l’identità di genere, tema principe dell’edizione passata, dal quale il festival non sembra essersi ancora liberato del tutto –continua a spiegare il direttore- , lo spettacolo dei Motus, che ritornano a furor di popolo con Raffiche, reinvenzione di una pièce minore di Jean Genet, in una versione provocatoriamente al femminile; Pedigree, messa in scena di un testo inedito, firmato da Valeria Raimondi e Enrico Castellani, dedicato alle famiglie arcobaleno; 50 Grades of Shame, lo spettacolo del collettivo femminile tedesco She She Pop, appuntamento clou del cartellone 2017; Masculu e Fiammina di e con Saverio La Ruina, che interpreta un uomo che racconta se stesso e la propria identità sessuale davanti alla tomba della madre, e infine un performer greco, Euripides Laskaridis, il quale con Titans, nome dello spettacolo, propone le sue trasformazioni, cercando di comprendere perché facciamo ciò che facciamo e di cosa abbiamo realmente bisogno.
Un altro gruppo di titoli combina teatro e musica. Allora nominiamo: Abebech-Fiore che sboccia fiore che sboccia, spettacolo di Saba Anglana, cantante italo-somala, dedicato al sacro nella cultura d’Etiopia, con un personaggio meraviglioso di nonna sullo sfondo; Personale Politico Pentothal che vede in scena Marta Dalla Via, accompagnata dal vivo da cinque rapper; The black’s tales tour di Licia Lanera, al dancing neo-liberty Le Roi Music Hall, la cui architettura, particolare e suggestiva venne progettata nel ’59 dal famosissimo architetto Carlo Mollino.
Infine l’ultima famiglia tematica, che raccoglie tra gli spettacoli del cartellone quelli che presentano interessanti legami con il cinema. Tra questi: Roberta va sulla luna, Ifigenia in Cardiff, con le regia di Valter Malosti, Pixelated Revolution, So little time, Elephant woman, Zoo(m)out, ed infine il lavoro dei fratelli De Serio, Stanze/Qolalka, pronto ad anticipare il nuovo triennio dedicato alle diaspore. Un altro percorso che si completa al Festival è quello di Elvira Frosini e Daniele Timpano. I due presentano Acqua di colonia che affronta il tema del colonialismo italiano. Da non dimenticare, ovviamente, i molti giovani artisti, in relazione ai quali menzioniamo: Diario di una casalinga serba, tratto dal romanzo omonimo di Mirjana Bobic Mojsilovic, L’inquilino, Human animal, Educazione sentimentale. Un cenno finale naturalmente va alla drammaturga prescelta: Sasha Marianna Salzmann, la quale porta in scena Lingua Madre Mameloschn, il cui spettacolo fa parte del progetto Fabulamundi.Playwriting Europe della Pav di Roma ed è coprodotto dallo Stabile di Genova.

Ma il festival non si riduce al cartellone. Al contrario, porta con sé interessanti appuntamenti, approfondimenti ed esposizioni, che arricchiscono e coronano l’appuntamento torinese. Prosegue il progetto “Mezz’ora con..” a cura di Laura Bevione, che consiste in incontri con gli artisti del Festival (e non solo), al quale si aggiungono “Un teatro pieno di interrogativi”, tre incontri per ricordare il Convegno di Ivrea, che nel giugno 1967 radunò alcuni protagonisti del cambiamento teatrale allora in atto e “Cinema in scena” in collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema, che prevede, come ogni anno, proiezioni abbinate agli spettacoli in cartellone. Non solo. Ritorna l’appuntamento con gli allievi del corso di laurea in Dams che raccontano attraverso il loro blog (teatrodamstorino.it) la realtà del festival tramite interviste agli artisti, presentazioni, approfondimenti e recensioni degli spettacoli, e Tipstheater, una piattaforma web ideata da Valentina Passalacqua, Giulia Menegatti e Chiara Lombardo dedicata a spettatori, compagnie teatrali, organizzatori.

Per concludere, e a voler sottolineare la forte transculturalità che permea il Festival e che quest’ultimo a sua volta effonde e restituisce, uso l’espressione inglese “last but not least”, per parlare della complicità necessaria e vitale dello spettatore, al quale si richiede, come ogni anno, curiosità e partecipazione. Per i più affamati e impazienti segnaliamo allora le due settimane speciali (20/4-3/5) durante le quali i biglietti possono essere comprati online a prezzi scontatissimi. In alternativa i punti vendita dal 20 aprile sono il Teatro Astra, Rivendite vivaticket, infopiemonte-Torinocultura, vendita serale (online: www.vivaticket.it).
Vi aspettiamo!

@Contatti (per info e abbonamenti):+3901119740291; +393462195112; +info@festivaldellecolline.it
@Luoghi: Le Roi Music Hall (Via Stradella 8), Scuola Holden (Piazza Borgo Dora 49), Polo del ‘900 (Corso Valdocco ang. Via del Carmine), Pratici e Vaporosi (Via Donizetti 13), Ristorante Marechiaro (Via San Francesco d’Assisi 21), Teatro Astra, Teatro Gobetti, Teatro Marcidofilm!, Serming- Arsenale della Pace (piazza Borgo Dora 61), Casa Teatro Ragazzi e Giovani (Coso Galileo Ferraris 266), Cinema Massimo, Le Petit Hotel.
@Sponsor e collaboratori: Regione Piemonte, Città Di Torino, Compagnia Di San Paolo, Teatro Stabile Torino-Teatro Nazionale, Fondazione Piemonte dal Vivo, Fondazione Crt..
@Media partner: La Repubblica, RaiRadio3, Torinosette, TrovaFestival, klpteatro.it, Radioenergy.

A caccia di consapevolezza

Nel buio e nel silenzio del teatro si apre il sipario. Undici attori vestiti di nero sono disposti a schiera –in proscenio- con le spalle al pubblico. All’incirca al centro, il dodicesimo guarda verso la platea e veste di bianco. Intanto una gigantesca stella cometa -tempestata di 4300 crisantemi giallo-oro- discende dall’alto, molto lentamente, accompagnata dalle note dolci di Tu scendi dalle stelle.

Nessuno ha ancora proferito parola, eppure lo spettacolo ha già rivelato – a questo punto- molto di sé. Uno degli elementi scenici più simbolici è in scena, e l’aria pesante, mesta e sofferta –costante nel corso dello spettacolo- inizia, fin da subito, ad impregnare la sala. Latella, sin dall’inizio, sembra volerci avvisare: siamo di fronte a un testo più crudo e più violento di quel che si pensa, o che si è sempre pensato.

Inizia così questo percorso che attraverso la famiglia Cupiello ci parla anche e soprattutto di Eduardo De Filippo e della sua grande eredità. Ma l’eredità, come diceva lo stesso Eduardo, è la vita che continua: la vita che dalla morte viene rigenerata. Ed è esattamente su questo che Latella sembra voler rivolgere la propria attenzione.

Antonio Latella, attore e regista teatrale anticonvenzionale, ha da tempo a cuore il problema dell’eredità. Convinto, da un lato, dell’importanza della tradizione e della conoscenza del nostro passato teatrale, egli sottolinea, dall’altro, la necessità di assimilarla, digerirla, e quindi di interiorizzarla. Rifare significa morire, poiché la riproposta del teatro dei grandi maestri del passato preclude la possibilità -urgente e necessaria- di procedere: “I morti non ritornano” ci dice -non a caso- l’Arlecchino (interpretato da Roberto Latini) de Il servitore di due padroni (riscrittura integrale a cura di Ken Ponzio, regia di Antonio Latella).

Da qui uno spettacolo distante dall’ormai lontana messinscena eduardiana, di fronte al quale la perplessità del pubblico è palpabile. Ai più lo spettacolo non piace. Tra questi c’è chi ritiene indegno stravolgere in tal modo un capolavoro qual è l’originale Natale in casa Cupiello. A loro si aggiunge chi si sforza di capire, ma il cui sguardo nasconde in realtà una forte disillusione. Altri, semplicemente non riescono a mantenere la concentrazione. Per queste ragioni, durante l’intervallo che separa la prima parte (I e II atto) dall’epilogo(III atto), molte persone abbandonano la sala.

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Ora, che il lavoro di Latella sfoci verso l’intellettualismo è evidente. Così come è chiaro l’impegno e la preparazione che le sue messinscene presuppongono. Per meglio capire ciò di cui si sta parlando è bene soffermarsi un momento sull’interpretazione delle didascalie, elemento caratteristico e importante della rappresentazione. Ormai da tempo Latella adotta la particolare soluzione di affidare agli attori non soltanto la recitazione delle battute, ma anche quella delle didascalie: si tratta di un accorgimento tanto usato dal regista da essere stato più volte definito una sua cifra stilistica. Siamo di fronte a una modalità non sconosciuta prima di lui, ma sicuramente inusuale. Soluzione antinaturalistica e talvolta straniante, essa infatti, se da un lato amplia lo spazio scenico stimolando l’immaginazione dello spettatore –così come un romanzo-, dall’altro presuppone una conoscenza più o meno approfondita del testo, senza la quale, la fruizione dello spettacolo diventa problematica.

Chiarito questo, ci si potrebbe interrogare sulle svariate motivazioni per le quali il pubblico potrebbe avere ragione o meno a non apprezzare il lavoro di Latella, ma sarebbe un’operazione superficiale, oltre che scontata. E’ chiaro che uno spettatore digiuno di Eduardo e che per di più di napoletano se ne intende ben poco non capisca granché della messinscena del regista e per questo ne resti amareggiato. Più interessante sarebbe invece soffermarsi su un particolare atteggiamento -ormai diffuso, e, purtroppo, non solo interno al teatro-, che sembra attanagliare, sempre più, l’uomo moderno.

Ciò su cui preme far luce è una generale attitudine a rimanere sulla superficie delle cose. Lavoriamo per associazioni e accenniamo a due termini: società liquida -coniato dal sociologo, da poco mancato, Z. Bauman- e cultura della fretta, che Stephen Bertman crea per indicare il modo in cui si vive nel nostro tipo di società. Ci bastino per comprendere alcune delle ragioni di tale atteggiamento “superficiale”.   Ma in cosa consiste, nello specifico, questa incapacità di entrare nel significato profondo delle cose, in relazione allo spettatore che -addirittura innervosito per i soldi sprecati- lascia la sala a rappresentazione inconclusa? La risposta è semplice e breve tanto che la si potrebbe ridurre ad una sola parola: consapevolezza. O meglio nella mancanza di consapevolezza che lo spettatore dimostra nel presentarsi ad uno spettacolo senza conoscere, se non il testo, per lo meno la linea artistica- in questo caso fortemente anticonvenzionale- del regista. Come si è detto prima questa non vuole essere una polemica, ma una presa di coscienza, che ci permette di definire superficiale (non nella sua accezione negativa, ma come dato di fatto) l’atteggiamento di chi abbandona la sala con frustrazione, come se gli fosse stato fatto un torto. Quando, in realtà, l’unico responsabile del torto che pensa gli sia stato fatto è sé stesso.

Che il teatro sia fonte di divertimento non significa che esso rappresenti una banale evasione che ci permette di “spegnere il cervello”. Il teatro, così come altre forme di intrattenimento presuppone una certa consapevolezza. Che ci si trovi di fronte ad uno spettacolo teatrale, o ad un film, anche nel caso in cui esso sia un cinepanettone -per fare due esempi-, è diritto dello spettatore sapere dove si trova e cosa sta facendo.

Latella non contamina né rielabora i contenuti del testo. La sua messa in scena restituisce allo spettatore il testo intonso. E’ l’interpretazione visiva quella che varia, funzionale al regista per allontanarsi dall’autore quanto necessario a ritrovarlo.   Sì, si può certo non essere in sintonia con la linea artistica di Latella. No, non ci si può indispettire di fronte ad uno spettacolo perché esso non è “come ci aspettavamo”. Per quanto possa sembrare strano, anche quando la rappresentazione non piace il teatro può essere importante, ancora una volta è motivo di confronto, di riflessione. Anzi è importante soprattutto quello che “non piace”, che lascia “insoddisfatti” perché aiuta a formare un gusto e una consapevolezza che permetterà di essere critici e di pensare con la propria testa.

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Di Eduardo De Filippo
Drammaturgia Linda Dalisi
Con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone, Emilio Vacca, Alessandra Borgia
Regia Antonio Latella
Scene Simone Mannino, Simona D’amico
Costumi Fabio Sonnino
Luci Simone De Angelis
Musiche Franco Visioli
Teatro di Roma

 

L’uomo dal fiore in bocca

«Quando uno vive, vive e non si vede. Orbene fate che si veda, nell’atto di vivere, in preda alle sue passioni, ponendogli uno specchio davanti» (…) «e se piangeva, non può più piangere, e se rideva non può più ridere… Questo guaio è il mio teatro».

Questo è il teatro di Pirandello: è mostrare l’atto di vivere, addentrarsi nei labirinti delle contraddizioni umane, dare forma a quella realtà altra, nascosta, che gli espressionisti avevano cominciato ad individuare e ad esprimere attraverso la deformazione dei corpi, una prospettiva distorta, l’esasperazione dei colori e un linguaggio radicale, a volte eccessivo. Non a caso, Bonn – importantissimo centro culturale del tempo, e fulcro dell’espressionismo tedesco, appunto – è la città in cui Pirandello conclude i propri studi e in cui matura, molto probabilmente, parte della propria ispirazione. Qui, lo scrittore-drammaturgo interiorizza questa nuova modalità di interpretazione della realtà, e, una volta tornato in Sicilia, ha la folgorazione. Inizia a scrivere di personaggi sghembi, contorti, distorti, vedendo deformazione e contraddizione- temi tipici di quell’arte germanica- nella realtà che lo circonda e che da sempre lo aveva circondato; ad Agrigento. Ne nasce -restando circoscritti ad un discorso teatrale- un teatro rivoluzionario, attraverso il quale Pirandello distrugge dall’interno le fondamenta del dramma borghese naturalistico (dominante sulla scena all’inizio del Novecento), ossia la verosimiglianza, la logica consequenzialità degli eventi e la tendenza a proporre personaggi dalla psicologia unitaria e coerente. Tragico e comico si mescolano, dando vita alla poetica del grottesco, variante teatrale del concetto di umorismo teorizzata nel saggio L’umorismo del 1908. Due tratti, quello rivoluzionario e quello grottesco, che ci fanno risuonare nella mente un altro attore, il più importante attore italiano dell’Ottocento, Gustavo Modena, seppure i due abbiano poi -come è giusto che sia- reso personali e fatto uso in modo diverso di queste cifre stilistiche. Un fatto che ci conferma ulteriormente la sua grande intelligenza e forza espressiva e la grandezza della sua persona, oggi indiscussa, al contrario di allora, quando, quanto detto veniva condiviso da pochi (ricordiamo fra gli altri l’interesse per la scrittura pirandelliana di Antonio Gramsci).

E’ su questo grandissimo autore, i cui tratti fondamentali- seppur ripercorsi sommariamente- non potevano esser tralasciati, che Gabriele Lavia decide di lavorare, ancora una volta. Dopo aver portato in scena Sei personaggi in cerca d’autore (gennaio 2016), in questa occasione, opta per un lavoro più complesso, un lavoro di mappatura, di intertestualità che gli permetta di dare forma ad una riflessione organica sul tema della morte, attraverso l’analisi e la concatenazione di diverse opere di Pirandello. Fulcro dello spettacolo è l’atto unico intitolato “L’uomo dal fiore in bocca”, al quale si intrecciano poi gli altri lavori. Da qui il sottotitolo “E non solo..”. Un lavoro pensato, non dettato soltanto dalla brevità che quest’opera, lasciata sola, avrebbe riservato. “L’uomo dal fiore in bocca” era stato appunto commissionato a Pirandello dall’attore Ruggero Ruggeri , il quale aveva bisogno di un qualcosa di breve, di circa un quarto d’ora, da poter recitare dopo lo spettacolo, come era d’uso una volta. Così il drammaturgo aveva dato vita al suo dramma, inizialmente una novella intitolata Caffè notturno (sottotitolo: la morte addosso).

Ma veniamo alla forma che Lavia sceglie di dare a questo capolavoro. Si spengono le luci in platea. Ad un silenzio segue un qualcosa di molto singolare singolare. Un suono forte, quasi disturbante, piuttosto prolungato: è il suono di un treno che passa. Una scenografia imponente: una stazione ferroviaria del Sud-Italia, come tradisce il lieve accento siciliano degli attori -perfettamente studiato, sia chiaro- che rompe, rende popolare e sporca la dizione. Una stazione che si rivelerà presto essere una sala d’attesa, la sala d’attesa della morte. Poi una lunga panca. Ad un estremo, un uomo accucciato. Ed infine un orologio senza lancette, una delicata citazione al cinema di Ingmar Bergman che introduce l’idea, molto cara al surrealismo, di un tempo liquido e malleabile. Un inizio cinematografico, come conferma anche il regista durante l’intervista di Retroscena al teatro Gobetti. Sensazione che restituisce forse l’atmosfera noir, gotica che pervade lo spettacolo, insieme alla silhouette sfocata di una donna che passa dietro al vetro, e il cui passo lento è accompagnato da una musica dolce e malinconica. Poi d’improvviso un uomo, piuttosto buffo, impicciato da pacchetti e pacchettini tutti colorati. Ne sorregge venti, due per ogni dito.. mica uno scherzo! Per quest’ultima ragione, benché apparentemente banale, così come per altre (tra cui il rumore incessante della pioggia, o la complessità di restituire uno spettacolo organico partendo da una concatenazione di diverse opere di uno stesso autore), Gabriele Lavia definisce “L’uomo dal fiore in bocca. E non solo..” lo spettacolo più complicato e difficile che abbia mai realizzato.

Infine il contenuto. Di che cosa parla questo spettacolo?
Un uomo malato di tumore(nello spettacolo Gabriele Lavia), che sa di dover morire a breve, dialoga con un uomo pacifico (Michele Demaria), un uomo come tanti, che vive un’esistenza convenzionale senza porsi il problema della morte. Quest’ultimo, dopo aver perso il treno, si accosta disperato all’altro e, seduto all’estremo opposto della stessa panchina, incomincia a dare sfogo alle sue più svariate frustrazioni. L’altro ascolta con massima attenzione. Da un lato quindi l’uomo immerso nella vita, che si esaurisce a causa degli sciocchi impicci quotidiani che questa gli riserva, dall’altro un uomo che sta per morire, un uomo che, dopo tanto riflettere, capisce che uno dei suoi bisogni più grandi è quello di attaccarsi agli altri con l’immaginazione. Con tale forza, si attacca quindi alla vita di un uomo pacifico, ascoltandolo, e condividendo insieme a lui la sua saggia porzione di consapevolezza.

«Attaccarmi così – dico con l’immaginazione – alla vita. Come un rampicante attorno alle sbarre d’una cancellata.

Pausa

Ah, non lasciarla mai posare un momento l’immaginazione: – aderire, aderire con essa, continuamente, alla vita degli altri… – ma non della gente che conosco. No, no. A quella non potrei! Ne provo un fastidio, se sapesse, una nausea. Alla vita degli estranei, intorno ai quali la mia immaginazione può lavorare liberamente, ma non a capriccio, anzi tenendo conto delle minime apparenze scoperte in questo e in quello. E sapesse quanto e come lavora! fino a quanto riesco ad addentrarmi! Vedo la casa di questo e di quello; ci vivo; mi ci sento proprio, fino ad avvertire… sa quel particolare alito che cova in ogni casa? nella sua, nella mia. – Ma nella nostra, noi, non l’avvertiamo più, perché è l’alito stesso della nostra vita, mi spiego? Eh, vedo che lei dice di sì…»

Una voce come da narratore onnisciente, di chi vede dall’alto, di chi, grazie alla sua condizione di uomo “fuori dal cerchio”, riesce a vedere ciò che chi è coinvolto non riesce a cogliere. E per questo risulta talvolta incomprensibile, talvolta assurdo. Ne nasce un’immagine dal tono a tratti farsesco, a tratti commovente. Il contrasto tra i due personaggi, il cui valore risiede proprio nella loro diversità, si fa capace di rendere assolutamente strutturata e coerente la riflessione alla quale vuole arrivare Pirandello, mai noiosa, mai accademica, mai fine a se stessa. Una riflessione appassionata sull’uomo in relazione a ciò che lo circonda, agli altri, alla sua vita, a se stesso. Un uomo talvolta arrabbiato con il tempo che scappa e fugge come il Bianconiglio, talvolta sereno e calmo, pervaso da quell’equilibrio che solo alla fine di un percorso si riesce a conquistare, perché, come disse Terzani:

«Una strada c’è nella vita, e la cosa buffa è che te ne accorgi solo quando è finita. Ti volti indietro e dici “Oh. ma guarda, c’è un filo. Quando lo vivi non lo vedi, eppure c’è. »

ilsettimosigillo3E poi ancora la relazione che ha l’uomo con la morte, parte integrante della vita e incomprensibile all’uomo, e che -colta la sottile citazione- non può che far venire almeno un pensiero tutto da dedicare al Settimo sigillo.

A questo serve quindi il contrappunto dell’uomo pacifico, ad alleggerire, ad organizzare. Un attore che si fa pertanto, non più semplice personaggio, ma co-protagonista.

Sono temi complicati quelli affrontati da Pirandello, il quale porta, non a caso, a fianco dell’etichetta di scrittore attore e drammaturgo anche quella di filosofo. Una complessità non tanto intrinseca agli argomenti trattati, quanto tutta propria del saper organizzare ed esprimere con semplicità e chiarezza tali garbugli. Ma ancora più complicato, forse, è doverli poi anche mettere in scena, mantenendo la materia viva del testo. Eppure Gabriele Lavia sembra tenere testa. Ci riesce, e il suo teatro appare efficace. Le anime degli spettatori -lo si vede sentendo il clima che c’è in platea- mescolano alla risata uno sguardo attento, riflessivo. Forse perché a Lavia preme, più di ogni altra cosa, essere chiaro; motivo per cui molto spesso dice ai suoi attori, così come diceva Marx, “saliamo al concreto”: il dovere di un regista è di farsi capire. E Gabriele Lavia si fa capire. Fin troppo bene. Così, nelle vesti di tanti piccoli uomini pacifici, anche noi restiamo, a luci accese, un po’ frastornati, scombussolati, un po’ più consapevoli. Consapevoli di quanto sia importante essere attaccati alla vita, spogli da tutto ciò che a questo sta sopra, spogli da tutto lo strato di superficie che ci portiamo addosso, e dovunque sia il puntino sul disegno del percorso del nostro breve passaggio sulla terra.

L’uomo dal fiore in bocca di Luigi Pirandello
adattamento Gabriele Lavia
con Gabriele Lavia, Michele Demaria, Barbara Alesse
regia Gabriele Lavia
Scene Alessandro Camera
Costumi Elena Bianchini
Musiche Giordano Corapi
Luci Michelangelo Vitullo
Regista Assistente Simone Faloppa

 

 

Gli Omini

E’ martedì 10 ottobre, sono le 9.50 del mattino e in aula 7 a Palazzo Nuovo siamo in tanti.  Aspettiamo gli Omini: questo il nome della compagnia teatrale, nata in Toscana nel 2006.
Francesco, Luca, Francesca e Giulia sono invece i nomi dei suoi componenti, di cui oggi qui a Torino sono presenti in tre. Sono giovani, persone intelligenti e di una straordinaria sensibilità, capaci di catturare, fin da subito, tutta la nostra attenzione, raccontandoci con sincerità e simpatia -durante il corso della mattinata- la loro storia, i loro progetti, il loro lavoro.

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Raccolgono “materiale umano”-ci dicono-, poi, lo rielaborano e lo portano in scena: questo è, in estrema sintesi, quello che fanno.  L’umanità, nella sua forma più diretta e travolgente è ciò che costituisce la linfa vitale dei loro spettacoli, l’elemento verso cui indirizzano tutte le loro energie. Un’umanità che riconoscono nella gente trovata per strada, nei bar, nei piccoli paesi, nelle bocciofile, in stazione, etc.
Il nome della compagnia non è quindi casuale. L’omino è, in dialetto toscano, un uomo qualsiasi, l’altra persona, noi stessi. Gli omini sono loro, ma siamo anche noi e gli altri. Quello che realizzano è, lo ricordiamo ancora una volta, un lavoro di indagine e di ricerca dell’umano, che si trova ovunque, anche laddove mai avremmo pensato ad un primo sguardo.

Ma come si svolge effettivamente il loro lavoro? Qual è il percorso che si nasconde dietro agli spettacoli che portano in scena?
A volte si parte da un canovaccio, da uno scheletro-guida -racconta Francesca-. Altre, lo si elabora strada facendo. Tre di loro si recano in un paese, o in un luogo specifico. Qui iniziano a guardarsi attorno, ad osservare. A questo punto si avvicinano, per una chiacchierata informale, agli individui che -ai loro occhi- sembra abbiano qualcosa di interessante, non tanto da raccontare, quanto piuttosto da comunicare. Poi li ascoltano, con semplicità. Muniti di telecamere, registratori, carta e penna, ne raccolgono i gesti e le parole.
“C’è un sacco di gente in giro che ha tantissima voglia di parlare, e che ha bisogno di essere ascoltata. Così, quando arriviamo noi, badabam, c’è chi ci vomita addosso una vita intera”-dice Francesco-.
Tutto questo si ripete per giorni, a volte addirittura settimane o mesi, alla fine dei quali si torna “a casa”. La prima fase, che viene definita “di indagine”, è conclusa. Il materiale raccolto viene consegnato a Giulia, la quale, all’interno della compagnia, ha il ruolo di dramaturg: scrive per la scena, pensando alla scena.
Tutti insieme s’impegnano infine in un difficile lavoro di interpretazione ed elevazione del materiale raccolto, sbobinato e riorganizzato. Così la realtà delle conversazioni e dei momenti vissuti viene trasformata in arte, in teatro. Passaggio necessario. Perché non sempre una conversazione è buona di per sé. Sta a loro, attraverso il teatro, cercare di trasmettere la spinta che hanno presentito dietro a quelle parole, il “non-detto”. La vivezza, per loro, qui è fondamentale. Il teatro dev’essere vivo e riuscire a toccare fin nella pancia lo spettatore seduto in poltrona, esattamente come hanno fatto con loro le persone incontrate per strada.
Per cui, nonostante questa apparente distinzione di ruoli, è facile capire come si tratti in realtà di un collettivo. Tra di loro c’è uno scambio e un confronto continuo di idee, di pensieri, di osservazioni: una fortissima passione per l’essere umano li lega in maniera profonda, portandoli a condividere quasi la totalità del loro tempo.

Quindi sul palcoscenico che cosa succede?
Gli Omini non lavorano per farci la morale, il loro teatro non vuole insegnare niente a nessuno. Loro, in maniera molto umile, cercano di rappresentare quello che hanno sentito, visto, vissuto. In realtà, il loro principale obiettivo- ci rivela Francesco- è quello di far scaturire la risata. “Perché la risata è vita ed è subito una risposta a quello che facciamo; al nostro lavoro.” -dice-. Una risata, tuttavia, insolita: sincera, ma allo stesso tempo mescolata ad una tristezza e ad un mal di stomaco infinito, con il quale lo spettatore si alza alla fine dei loro spettacoli.  Che forse non sono altro che la rappresentazione del dualismo  intrinseco all’esistenza: da un lato dolorosa ,contraddittoria, dall’altro meravigliosa. Così maledettamente e straordinariamente tragicomica.
Si potrebbe quindi parlare di una sorta di teatro terapeutico dalla direzione biunivoca. Se da un lato si ha, sul fronte degli attori, una sensibilizzazione all’ascolto in continua crescita, che diventa vero e proprio atteggiamento di vita; dall’altro abbiamo la “redenzione” di tutti quegli omini incontrati, il cui spirito viaggia ora più
leggero e meno appesantito, grazie ad una semplice chiacchierata.

Abbiamo passato insieme a loro due giorni intensi, durante i quali abbiamo avuto la possibilità di toccare con mano tutto ciò. Siamo stati mandati in strada -a gruppi di 5 persone- ad osservare, ascoltare, assorbire, lasciarci stupire, interpretare.
Abbiamo raccolto “materiale umano”; poi lo abbiamo messi in scena.  Ne siamo usciti un pochino più ricchi, un pochino più umili e un pochino più umani.
Sono stati soltanto due giorni, è vero, ma sono bastati a farci crescere.
E per questo li ringraziamo di cuore.

Loro sono gli Omini.
Vengono dalla Toscana.
E sono delle belle persone.
Verranno a trovarci il 10 Novembre al Cubo Teatro, con “Ci scusiamo per il disagio”(h21, via Pallavicino 35).
E in questa occasione non possono che farci del bene, altro bene. Perché in fondo, come dicono loro: “Siamo tutti soli, siamo tutti diversi, siamo tutti Omini”.
Siateci.

Beatrice Decaroli