La famiglia Popoch, o come lavorare per vivere.

I due protagonisti Yona e Leviva appaiono come due figurine su uno schermo.  Se si accetta l’idea secondo cui tra attore e pubblico, a teatro, non dovrebbe ergersi un vetro, nel caso de Il lavoro di vivere non è del tutto chiaro se questo vetro esista o meno. Questa rappresentazione è un quadro dipinto perfettamente. L’atmosfera è talmente fedele che viene da domandarsi se si assista a una storia raccontata già mille volte o a un pezzo di vita vera che assomiglia troppo a una finzione. La risposta che viene da darsi è che forse gi attori desideravano rendere proprio questa sensazione ibrida.
Carlo Cecchi, che intrepreta un uomo stanco della vita coniugale, sul palco si muove proprio come se fosse a casa sua. Inciampando e balbettando si comporta davvero come un marito che discute con la moglie. Se la sua intenzione era di trasmettere un dubbio, è stato eccezionale.
La camera da letto che accoglie i due coniugi è costruita con precisione analitica. Le serrande abbassate e i dettagli di luce contribuiscono a creare quella sensazione di “essere a casa”. Il lavoro di Gian Maurizio Fercioni è stato pertanto sobrio e corretto. Al centro di questa stanza c’è il letto attorno a cui girano i due personaggi, è il campo di battaglia loro e degli attori.
Fulvia Carotenuto interpreta Leviva e senza di lei Cecchi e Yona avrebbero poco senso. Nelle prime battute la sua interpretazione pare sotto tono rispetto a quella di Cecchi. L’attrice sembra semplicemente meno a suo agio con la parte. A un certo punto, però, Leviva si prende uno schiaffo e la recitazione di Fulvia Carotenuto dà uno schiaffo al pubblico. Diventa talmente vera che in lei si riconosce – al di là delle potenzialità del testo che lo permette – la chiave di lettura per capire l’interpretazione di Cecchi e il gusto di tutta la rappresentazione. Carotenuto diventa davvero una donna ossessionata dal “mettere su del tè” per risolvere i conflitti. Entra del tutto nel personaggio. Allora quando il testo richiede agli attori di rivolgersi al pubblico apostrofandolo direttamente, Cecchi e Carotenuto non parlano al vuoto, per pura retorica testuale, come potrebbe apparire superficialmente, ma è davvero come se fossero a casa loro a palare agli angoli, da soli, come a volte succede.
Carotenuto lascia un po’ di amaro in bocca solamente nel finale, dal momento che non si è goduta la sua tragedia, è andata veloce alla chiusura della rappresentazione, e tutta la scena ha perso di intensità.
Gunkel, il terzo personaggio, interpretato da Massimo Loreto è un personaggio senza né lode né infamia e la resa dell’attore non si discosta molto da questa definizione. Indubbiamente era fedele al clima della rappresentazione, ma mancava delle sfumature degli altri due interpreti.
Questo clima così intrigante è diretto dalla regia di Andrée Ruth Shammah che ha evidentemente compreso il testo di Hanoch Levin in tutte le sue virtù e potenzialità inespresse.
Un lavoro dunque, per quanto rodato a lungo, che ancora colpisce con ironie sottili e frecciatine ben piazzate, che sembrano uscite spontaneamente  ed è per questo che risultano ancora più amare. Il testo è costruito per aumentare in asprezza più ci si avvicina al finale e gli attori nelle ultime battute sono ormai riusciti a portare completamente il pubblico nella intimità della loro stanza. I movimenti di Yona diventano sempre più stentorei – reso da Cecchi fisicamente molto bene – finché a un certo punto, carico di angosce, si ferma. Non si muove più. Si alzano le serrande ed è giorno. Nella casa in cui tutti ci eravamo abituati a stare entra la luce. Questo finale, scenicamente incisivo, illumina tutte le sfumature.

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