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Il Cielo non è un fondale – FDCT

Soli come nei sogni, così si apre Il cielo non è un fondale, che inizia proprio da un sogno, a sua volta generato da una canzone dall’omonimo titolo. In questo modo spontaneo e naturale inizia il lavoro dell’attore: sognare ad occhi aperti e lasciarsi trasportare dagli eventi. Un sogno che piano piano diventa collettivo, collocato in una scenografia scarna, dove l’unico elemento è un termosifone bianco, posto a lato della scena. In questa situazione onirica Antonio ci racconta di aver sognato Daria nei panni di una barbona e, pur avendola riconosciuta, l’ha ignorata. Da questo sogno si instaurano a catena tanti racconti sconnessi  ma legati da qualche particolare che permette il passaggio da una storia all’altra. Gli attori si interrompono nei loro racconti e tra una pausa e l’altra riprendono parola, tutto apparentemente sconnesso ma con un senso come all’interno di un sogno. Continua la lettura di Il Cielo non è un fondale – FDCT

Zoo[m]out! Some other place, some other time

La sera del 6 giugno presso la Casa Teatro Ragazzi la compagnia Th[on]gu, un duo di espressione scenica fondato nel 2013 da Guendalina Tondo e Riccardo Giovinetto, presente per la prima volta al Festival delle Colline torinesi, ha proposto una prima “versione per voce, musica e video” di Zoo[m]out, alla quale seguirà una versione integrale.

Quali sentimenti verrebbero risvegliati se si provasse a guardare il pianeta Terra come se lo si scoprisse per la prima volta? Sembra sia questo l’interrogativo attraverso il quale l’attrice invita a riflettere.  Su un palco minimale, Guendalina Tondo veste in total black, nero appunto, termine intermittente come un’insegna  Retro Wave che si accende e si spegne, nero come la metafora di qualcosa di prezioso che sfugge all’attenzione, piccoli pezzi di mondo che non vengono visti, “come fosse nero”. Ma se è una verità che dopo il nero sopraggiunge sempre la luce, tutto ciò che essa potrebbe illuminare sarebbe visibile in un baleno, anche quello che non si è mai visto. Zoo[m]out prende spunto dal romanzo di fantascienza L’uomo che cadde sulla Terra, scritto da Walter Tevis e che nel ’76 diventa un film interpretato da David Bowie. La fascinazione nei confronti dell’alieno Bowie la si può ricostruire attraverso l’elemento espressivo della luce, che diventa un presupposto necessario all’intento scenico, e a guardar bene, i lineamenti del volto dell’attrice stessa ricordano quelli delicati dell’uomo delle stelle degli anni ’70.

E se ci si trovasse catapultati  sul pianeta Terra, vestiti di silver e incapaci di comunicare in una lingua universale, e senza che nessuno se ne accorga? Su questo secondo punto di domanda sembra poggiare una critica esplicita verso la smodata e tutta moderna manìa di trasferire tutto su istantanea. Istantanea come una fotografia, istantanea come una dipartita, quella metaforica di chi fa tutto questo “senza mai guardare fuori”.

La sonorizzazione di Riccardo Giovinetto (Ozmotic), in palcoscenico insieme all’attrice, non è rimasta un elemento subordinato rispetto alla narrazione. Gesti, suoni e ambiente sono il risultato di un unico infuso.

Probabilmente Zoo[m]out vuole invitare a posare lo sguardo sul nostro pianeta (e anche sugli altri, chissà!), facendone esperienza  e percependolo non come è, ma per come si è. Per dirla con gli argentati Rockets, some other place, some other time, it’s a world deep inside of you!

Alessandra Pisconti

6 giugno 2017, Casa Teatro Ragazzi, Torino

di th[on]gu

musiche e visual Ozmotic

in scena Guendalina Tondo

con il sostegno di Campo Teatrale e Festival delle Colline Torinesi

e la collaborazione di Micron

Dust e In Verdis al TOFringe

“Il grande male del mondo è il Disagio, che abolisce la Bellezza e abolisce la bellezza della Diversità.” Così ha dichiarato Barbara Altissimo della compagnia LiberamenteUnico, durante il dibattito  alla fine dell’evento speciale ospitato nella quinta edizione del Torino Fringe Festival. È però solo una delle tante  stimolanti riflessioni che hanno concluso la serata di martedì 16 maggio alla Casa del Teatro Ragazzi e Giovani,  serata dedicata alla proiezione di due opere video.   L’obiettivo era quello di  mostrare al pubblico gli “invisibili”,  le persone che la società emargina facendole scomparire agli occhi, di mettere in luce quelli  che normalmente passano inosservati. Ma farlo senza cedere alla retorica.

Il primo dei due video, il documentario Dust – The wanted life di Gabriele Falsetta, ha mostrato  come la città di Torino si sia dimenticata per anni di bambini che, rinchiusi tra le mura dell’ospedale Cottolengo per essere stati colpiti in tenera età da qualche disturbo mentale,  hanno avuto l’unico desiderio di  poterne uscire, un giorno. Con questa speranza,  di anni ne sono passati fin troppi, tanti da far appassire quei sorrisi gioiosi e infantili. Nessun principe azzurro è arrivato a salvarli come nelle fiabe, ma qualche anno fa si sono ritrovati a far parte di questo documentario grazie a delle volontarie molto determinate che videro in questo progetto  una vera “battaglia per la dignità”. Il documentario, tratto dal progetto teatrale POLVERE  e prodotto da Kess Film e Frömell Films Production,  ha ottenuto segnalazioni e riconoscimenti.

Il secondo video, Uno studio per In Verdis, produzione di  LiberamenteUnico e ideazione di Azul, ha come sottotitolo Appunti di viaggi, nella speranza che il prossimo anno il progetto iniziato possa avere un seguito. Il percorso iniziato quest’anno ha compreso non solo ragazzi disabili, ma racconti di adolescenti e non, ognuno con una propria lotta da combattere, cercando di mettere a nudo le proprie fragilità. Attraverso il teatro e  il corpo i ragazzi hanno avuto modo di mettersi in rapporto con realtà diverse dalla loro e imparare dall’esperienza dei loro compagni. Un ottimo lavoro di condivisione e di rispetto verso l’altro. È un progetto di Formatico, in collaborazione con la Cooperativa Valdocco e a cura di Barbara Altissimo e Ivana Messina, ovvero le conduttrici di entrambi i percorsi che hanno anche partecipato al dibattito alla fine delle proiezioni insieme a Rita Fabbris dell’Università degli Studi di Torino, a Beppe Quaglia della Cooperativa Valdocco e ad alcuni giovani protagonisti del progetto In Verdis.

Spero si presenterà  l’occasione di vedere in scena uno spettacolo realizzato da coloro che ne hanno fatto parte, per avere davanti agli occhi, in tutta la loro concreta presenza, quei volti, quei corpi e quei vissuti. L’intensità durante la discussione finale e l’emozione di tutti erano palpabili. Forse per chi, come me,  non conosceva i protagonisti, sarebbe stato di  impatto ancora maggiore poter conoscere più a fondo ciò che  il video ha mostrato per accenni.  L’idea che il diverso sia un problema da gestire e da guidare  dall’esterno, ha provocato la falsa necessità di dover essere necessariamente tutti uguali, tutti “normali”. Queste testimonianze video, a parer mio soprattutto Dust, hanno voluto inquadrare il mondo che conosciamo da un’altra prospettiva: come se quello che, nella realtà di tutti i giorni, viene percepito come “sbagliato”, come un “errore”, avesse potuto finalmente mostrare il proprio, speciale, valore.

Alessandra Botta

“SIATE CORAGGIOSI”

Quando si parla di Angelo Tronca, non si fa certo un nome sconosciuto al panorama teatrale torinese. Tra i tanti artisti proveniente da tutta Italia che in questi giorni hanno letteralmente invaso la città con il Torino Fringe Festival, arrivato alla quinta edizione, Angelo ha portato la bandiera locale andando in scena con il suo Don Chisciotte Amore Mio insieme al collega Francesco Gargiulio, volto altrettanto noto che interpreta il fedele compagno Sancho, Astrid Casali nel ruolo di Roberta, Beniamino Borciani per musica ed effetti sonori, con la regia di Alberto Oliva. Lo spazio è quello del “De Amicis art bistrot” in Corso Casale, che a un primo impatto lascia un po’ spiazzati. Scendiamo in quella che sembra una cantina e ci accomodiamo su sedie sistemate in file a forma di “L” che descrivono un luogo piuttosto stretto, tanto che ci si chiede: ma riusciranno a muoversi qui dentro? Ebbene, ciò che ci fa capire che ci troviamo di fronte ad attori molto bravi è anche la capacità di prendere uno spazio così piccolo e di renderlo infinito: Don Chisciotte e Sancho Panza viaggiano in groppa ai loro cavalli per praterie sconfinate, arrivano fino a una locanda dove trovano riposo, per poi imbarcarsi su una nave e solcare mari sconosciuti. E il pubblico riesce a vedere e a percepire ogni singolo chilometro percorso dai nostri epici eroi, che pur si muovono in pochi metri di stanza.

Tutto ha inizio con dei ringraziamenti, come ogni poema epico che si rispetti. Viene ringraziato Dio per l’ispirazione ricevuta. Poi il teatro, inteso come pavimento senza il quale si sprofonderebbe giù, e come luci che illuminano così bene i teatranti permettendo agli spettatori di assistere allo spettacolo. Infine si ringrazia il pubblico tramite una giusta quanto semplice osservazione: sarebbe potuto starsene a casa o fare altro, e invece è venuto. Questi i presupposti che aprono un’ora di risate e di meditazione, di battute quasi demenziali che si muovo in parallelo a concetti estremamente seri. Il tema del coraggio, come ci dice l’autore, domina tutto il testo. Ma si tratta di un coraggio timido, che agisce in sordina. I due protagonisti, per quanto a volte molto plateali, non sono eroi gradassi e pieni di sé che pensano di essere sempre nel giusto. Li ascoltiamo parlare delle loro difficoltà e delle loro paure e non ci sembra quasi che siano veri eroi. Del resto, come dice lo stesso autore, Don Chisciotte è un eroe per necessità, ma non per questo è meno eroe dei più classici degli eroi.

“Siate coraggiosi”, questo è l’augurio finale che l’attore riserva al suo pubblico.

Uno dei primi momenti a cui assistiamo è un divertentissimo elogio di Sancho alla caffettiera. Inginocchiato davanti a questa, posta sopra a un tavolino come fosse una reliquia, l’attore viene travolto da un sentimento di profonda gratitudine per quell’oggetto di metallo che sbuffando ogni mattina permette di ricevere quella scossa di energia necessaria per cominciare la giornata. Il pubblico capisce subito, e non potrebbe essere più d’accordo con l’attore.

Come narra la storia, i due cominciano a viaggiare, diventando cavalieri erranti della Mancha. Quando scendono dai loro destrieri, il punto di vista si sposta più “in basso”. Sistemati nelle loro stalle, legati e con poco o niente da mangiare, i due animali si confrontano. Il cavallo di Don Chisciotte, Ronzinante, chiede all’asino di Sancho Panza se secondo lui i due si stancheranno, prima o poi. “Magari muoiono”, si augura a un certo punto. L’asino è esasperato dalle lamentele di Ronzinante. Innanzi tutto, obbietta, come mai potranno stancarsi se se ne stanno seduti in groppa a loro due, e loro due continuano a portarli in giro? Poi quasi si offende al desiderio espresso dal cavallo, che augura la morte del suo padrone. Lo odia, sì, ma non vuole che si parli male di lui: l’asino prova sentimenti contrastanti. In una scena successiva, i due animali sono legati a un palo o a una staccionata probabilmente, noi vediamo solo le due corde intorno ai colli che si tendono, tenute saldamente da due spettatori. Questa volta Ronzinante chiede all’amico asino cosa pensa del futuro. Gli racconta un sogno fatto recentemente, e nel sogno l’asino, stremato per il caldo e per l’assenza di cibo, cade a terra morto mentre dei corvi staccano pezzetti di carne via dalla sua groppa. A questo punto l’asino perde la pazienza, e si sfoga in un esilarante considerazione su questi uccelli: in un mondo dove sono tutti vegetariani, vegani, celiaci e intolleranti, questi corvi non potevano mangiare semi come fanno tutti gli altri? Dovevano proprio accanirsi sulla sua carcassa?

Particolarmente divertente è la scena dove l’autore dichiara di non aver scritto più niente da quel momento in avanti, finale compreso. Il collega rimane giustamente spiazzato, trovandosi senza più niente da dire al pubblico, e chiede furioso come mai non ci sia un finale. Così l’autore ci confessa di essere stanco, di essersi annoiato mentre scriveva e di aver semplicemente smesso. Giustamente si è fatta una certa ora e ci dice di avere fame e che vorrebbe andare a mangiarsi una pizza, e qui di nuovo il pubblico non potrebbe sentirsi più vicino all’attore, alla faccia dell’immedesimazione. Ma questo non può assolutamente essere: lo spettacolo deve andare avanti. Le idee che escono fuori sono molte. Perché non concludere andando sul simbolico, si chiede Angelo, come per esempio riempire di mollette la faccia del collega. Francesco sembra entusiasta, propone addirittura di giocare la carta del teatro d’avanguardia. “Mi spoglio!” esclama, come se fosse l’idea più originale di tutti i tempi. In questo modo i due aprono un siparietto sul fare teatro oggi, non lasciandosi sfuggire l’occasione per lanciare un’acuta e sottile critica che, personalmente, mi ha divertita molto.

Così, mentre uno corre in un angolo a inventarsi qualcosa all’ultimo minuto, l’altro si esibisce in una serie di barzellette sul tema “Dottore, dottore!” per intrattenere il pubblico che attende. Alla fine l’autore propone il suo finale: i protagonisti muoiono. Non troppo originale, secondo il suo collega.

Queste e tante altre sono le trovate di Angelo Tronca che possiamo gustare in questa rappresentazione. Ultima in ordine di tempo, una chicca che ha lasciato il pubblico incredulo e ancora una volta molto divertito. Sancho e Don Chisciotte si trovano in mezzo a un temporale, di notte, stretti stretti sotto un ombrello. Nella stanza però, comincia a piovere sul serio: fissata in cima all’ombrello c’è una bottiglia di plastica, forata, con dell’acqua dentro. Dai fori della bottiglia l’acqua comincia a uscire e a colare dolcemente dalle punte dell’ombrello, incorniciando i due in piccole cascatine di “pioggia”. Un tocco di classe per finire in bellezza.

Eleonora Monticone

DON CHISCIOTTE AMORE MIO

testo di Angelo Tronca

regia di Alberto Oliva

musiche di Beniamino Borciani

costumi di Lucia Giorgio

Don Chisciotte – Angelo Tronca

Sancho – Francesco Gargiulo

Roberta – Astrid Casali

 

Teatro Decomposto o L’Uomo Pattumiera – Torino Fringe Festival 2017

Tra gli spettacoli del Torino Fringe Festival 2017 ha debuttato Teatro Decomposto o L’Uomo Pattumiera, testo del drammaturgo Matei Visniec con la regia di Girolamo Lucania della compagnia Parsec Teatro.
Lo spettacolo si tiene all’interno dei locali del Cap10100. Al cento della platea troviamo un tavolo con tre sedie e distribuiti attorno alcuni oggetti di scena, tra cui anche le uniche fonti di luce,  e dei divanetti disposti a cerchio attorno a questo particolare spazio scenico. L’atmosfera è intima e molto particolare, del tutto inusuale e preannuncia uno spettacolo coinvolgente.

”Questi testi sono i pezzi di uno specchio rotto. C’è stato, un tempo, l’oggetto in perfetto stato. Rifletteva il cielo, il mondo e l’animo umano. E c’è stata, non si sa quando, né perché, l’esplosione. Il gioco consiste nel cercare di ricostruire l’oggetto iniziale. Ma il fatto è impossibile perché lo specchio originario nessuno l’ha mai visto, non si sa com’era.”

Matei Visniec nella prefazione del suo Teatro Decomposto o l’uomo pattumiera invita i lettori e i registi a scomporre  e ricomporre l’opera a proprio piacimento. Questa ricomposizione personale è possibile grazie ai continui rimandi tematici presenti nei ventiquattro testi monologici e dialogici. Sulla traccia delle indicazioni del drammaturgo, Girolamo Lucania ha portato in scena uno spettacolo con moduli che cambiano disposizione ogni volta che viene messo in scena.

I frammenti contengono aspetti grotteschi e assurdi, sono pregni di inquietudine e ci mostrano la solitudine e alienazione dell’uomo contemporaneo.
Un uomo ci narra di come dopo la guerra siano state inventate delle macchine che raccolgono i corpi dei morti, provvedono a seppellirli e fare le condoglianze ai parenti del defunto. Ci dice di essere un tecnico che ripara queste macchine quando si guastano e che nel tempo libero si diletta a scrivere poesie sulla natura.
Ci viene raccontata la storia del uomo che passeggiando la notte si ritrova ad essere divorato in pochi minuti da un mostriciattolo portato a passeggio da una signora. L’uomo dice di non provare dolore ma anzi piacere, ci descrive come gli viene mangiato il cuore e  tutto si conclude con l’attimo in cui il mostro lo guarda in faccia prima di mangiargli gli occhi.
Veniamo coinvolti nella storia dell’uomo pattumiera, ogni giorno riempito di spazzatura, alla ricerca di una risposta sensata per comprendere il perché della sua condizione di cestino umano. Ma non troverà risposte e col passare del tempo rischierà la vita.

“Mi scusi le sembro una pattumiera? ”
“Si, signore. Del tutto. ”
“Ma è impossibile veramente… Come potrei essere io una pattumiera? ”
“Non lo so,signore, ma lei è esattamente questo.”

Un verme realizza di essere parte del universo e prima di riuscire ad uscire da una mela viene mangiato. Un uomo si trova all’improvviso da solo al mondo, si abitua a questa condizione e vive in solitudine per anni finché un giorno inizia ad essere perseguitato da squilli di telefoni. Un cavallo decide di perseguitare un uomo, attendendolo sotto casa e seguendolo ovunque. Queste e altre sono le storie scritte da Visniec e rappresentate in scena dagli attori Stefano Accomo, Jacopo Crovella e Annamaria Troisi. Tra un frammento e il successivo ci viene interpretata anche la storia dell’uomo all’interno del cerchio. Basta prendere un gessetto e disegnare un cerchio per isolarsi in una dimensione in cui nessuno ti può disturbare. Questo racconto è il più suggestivo se si pensa alla disposizione delle sedute. Le luci si fanno  soffuse, poi si spengono,  per riaccendersi a sottolineare particolari passaggi.

Il lavoro realizzato da Girolamo Lucania fa sprofondare, per un’ora circa,  lo spettatore in un mondo assurdo,  nel teatro  inquieto e ossessivo di Matei Visniec.

Andreea Hutanu

Teatro Decomposto o L’Uomo Pattumiera
Di Matei Visniec
Regia Girolamo Lucania
Habitat scenotecnico e regia video Andrea Gagliotta
Con Stefano Accomo, Francesca Cassottana, Jacopo Crovella, Annamaria Troisi

METAmORFOSI: LO SCARAFAGGIO SOCIALE A PANCIA IN SU

All’interno del variegato programma del Torino Fringe Festival 2017 troviamo con diverse repliche  lo spettacolo, vincitore di Maldipalco 2014, METAmORFOSI della compagnia Officina per la scena. La rappresentazione, di e con Luca Busnengo e con la supervisione artistica di Michele Guararldo, si tiene presso l’Unione Culturale Franco Antonicelli, un luogo intimo e raccolto, particolarmente adatto per un tipo di lavoro  quale quello proposto da Busnengo.

Sembra infatti quasi di scendere in un sotterraneo, i soffitti sono a volta e le sedie per accomodarsi poche, situate vicine al palco, che è molto basso. Ed è proprio per questo che quando l’attore fa il suo ingresso e inizia a parlare, non si può fare a meno di sentirsi parte della sua narrazione, di sentire il suo respiro; non c’è distanza tra il pubblico e chi gli si sta rivolgendo, siamo immersi insieme a lui nella storia. L’attore è talmente vicino a noi da farci sentire tutto il dolore del personaggio, e l’empatia cresce sempre di più, mano a mano che lo spettacolo prende vita. Dobbiamo accettare l’idea che assisteremo ad uno spettacolo che non ci vuole passivi, che proveremo emozioni intense,  e che ascolteremo argomenti che forse ci toccheranno nel profondo.
Tutti gli elementi per una forte immedesimazione sembrano quindi essere presenti, ma grazie all’uso della luce, talvolta colorata e psichedelica, e della musica, che vede l’utilizzo di brani di Caparezza o Giorgio Gaber, si crea un’atmosfera straniante che porta lo spettatore a distaccarsi quanto basta per poter ragionare razionalmente sui temi trattati.

Colpisce l’estrema attualità di quello che viene narrato: il disagio che le generazioni provano in questo tempo dove i cambiamenti e le regole della società sono talmente rapidi che per stare al passo non si può far altro che abbandonare la propria identità. Per parlare di questo vediamo sulla scena un personaggio anonimo che racconta cosa succede a coloro che invece non vogliono omologarsi, ma che finiscono con il sentirsi inadeguati alla vita poiché questa società non premia più la diversità come una ricchezza.
Storie comuni di disagi, di suicidi, storie individuali e collettive, di cambiamenti e di trasformazioni, prendono vita attraverso le parole di uno “scarafaggio” che rappresenta tutti e nessuno. Il richiamo a Kafka è chiaro e la capacità di Luca Busnengo di muoversi e modificare la voce per ricordare l’insetto è ammirevole. Lo scarafaggio non è altro che colui che decide di uscire allo scoperto e mostrarsi nella sua particolarità, sicuro di essere protetto dalla sua forte corazza. Ma, come viene detto  nella parte finale del monologo, se lo scarafaggio viene capovolto dalla società e non viene aiutato da nessuno, non può far altro che mostrarsi vulnerabile, soffrire per la sua condizione personale e annegare nelle proprie lacrime. Perché quando viene accesa la luce e non ci sono più le tenebre a nasconderti, non si può più scappare.

Oltre al richiamo letterario a La metamorfosi di Franz Kafka, è presente anche quello a Amleto di William Shakespeare, in particolare al  celebre monologo “Essere o non essere…”, usato nel momento in cui la soluzione di chi soffre sembra essere solo quella del suicidio, ovvero quella di abbandonarsi ad un sonno senza sofferenze che possa anche includere sogni.

La scenografia è composta da uno sgabello nero e anche i costumi usati dall’attore sono scuri, eccezion fatta per la camicia bianca, che viene però coperta per la maggior parte del tempo da un cappotto. Non siamo quindi di fronte ad un’ambientazione naturalistica e questo non può far altro che attivare l’immaginazione del pubblico, che cerca di dare un luogo e un tempo nella sua mente alle storie narrate. L’unico oggetto colorato che viene usato come un simbolo è una mela verde, bellissima e perfetta, in grado proprio per questo di adattarsi ad ogni situazione, esattamente come le regole sociali vorrebbero che fosse ogni individuo.

di Alice Del Mutolo

di e con Luca Busnengo
supervisione artistica Michele Guaraldo
spettacolo vincitore MALDIPALCO 2014
Tangram Teatro

 

 

QUESTI FANTASMI! Guardare ma non vedere, o vedere ma fingere di non vedere?

 

“Pasquà ma dove hai preso tutti ‘sti soldi? E‘sto diamante?” chiede, in preda alla rabbia e al nervosismo, Maria (Carolina Rosi) a suo marito Pasquale Lojacono (Gianfelice Imparato).

Così si apre il terzo e ultimo atto di Questi Fantasmi, commedia scritta da Eduardo De Filippo nel 1945, che ben si presta però anche ai giorni nostri.

Quanti di noi, almeno una volta nella vita, non hanno non pensato al fatto che, seppur il denaro non fosse tutto, qualche spicciolo in più non avrebbe guastato per essere felici? Questo, il protagonista- interpretato da un composto Gianfelice Imparato-  lo sa bene: egli, difatti, rinunciando ai suoi valori di uomo e ai suoi doveri coniugali,  e accogliendo con estrema passività le vicende della vita, si dimostra un uomo debole, ma soprattutto, un inetto disposto a tutto pur di possedere del denaro. È un personaggio per cui è impossibile non provare un po’ di tenerezza; un uomo apparentemente normale, che anzitutto pensa a se stesso e che non intende rinunciare ai piccoli piaceri della vita: un pollo caldo e del buon cibo; le sigarette e il caffè che si prepara in assoluta autonomia, dal momento che la moglie -essendo, a detta sua, di un’altra generazione- non è in grado di prepararlo come si deve. Pur di non abbandonare tutto questo, Lojacono, spogliatosi oramai di qualsiasi “virtus” in senso lato, accetta qualsiasi cosa: cosa sono, infatti, un tradimento e la perdita dell’onore in confronto alla perdita dell’agiatezza economica? Per Lojacono sicuramente alcunché di tollerabile: tant’è vero che, alla domanda che gli rivolge la moglie, quest’ultimo non è in grado di rispondere, né è interessato a farlo: entrambi, infatti, sanno che tutto il denaro e i gioielli ricevuti in dono, sono una gentile “offerta” da parte di Alfredo Marigliano, amante della moglie, che ripaga Lojacono per l’accordo che, tacitamente tra i due, è venuto a stabilirsi.

È questo il vero dramma: entrambi sanno di sapere eppure fingono di non vedere, un po’ per vergogna di loro stessi, un po’ per comodità; ecco perché, fino alla fine della commedia, indosseranno, senza mai togliere, la loro maschera, qui rappresentata da uno dei temi più cari al pubblico napoletano, quello del “munaciello”, ossia del fantasma. In una società dove è più importante l’apparenza rispetto alla sostanza, dove è meglio sembrare anziché essere; dove è necessario possedere per sopravvivere, anche al prezzo di svendere la propria identità, indossare un velo bianco da fantasma sembra quasi inevitabile. Lojacono stesso arriverà ad affermare che “I fantasmi non esistono… li creiamo noi, siamo noi i fantasmi!”.

 

Lo spettacolo si apre nell’ingresso di una casa che- come leggenda vuole-  sarebbe infestata da diversi e stravaganti fantasmi, e per questo sino a ora disabitata. Nonostante ciò, e al corrente di tale fatto, accompagnato dallo sgrammaticato portiere, interpretato da un esilarante Nicola Di Pinto, Lojacono decide di trasferirsi nell’abitazione- a titolo gratuito- insieme alla moglie, ignara del fatto. Non è, però, il solo ad aver mentito, o meglio, ad avere omesso dettagli apparentemente insignificanti ma che in realtà racchiudono il succo della vicenda: Maria, infatti tradisce il marito con Alfredo Marigliano (Massimo De Matteo).

Lojacono non paga alcunché di affitto, deve però, rispettare alcuni “rituali” stabiliti, in precedenza, con i vecchi proprietari: sbattere un tappetto sui sessantotto balconi della casa, cantare e apparire sempre felice e spensierato per sfatare la leggenda agli occhi dei vicini. Ecco che anche qui, ci imbattiamo nuovamente, nel tema della maschera, tanto caro alle opere pirandelliane, e cardine di tutto lo spettacolo.

Egli poi, vorrebbe affittare le restanti stanze della casa e adibirle a pensione. Purtroppo però, i piani non vanno come aveva sperato: nessuno si presenta per l’affitto; inoltre, Lojacono non gode nemmeno più dei benefici economici del “fantasma buono”, il quale ha smesso, di punto in bianco, di far trovare danari nella tasca della giacca appesa all’appendiabito nell’ingresso. A Pasquale non resta che sperare in un suo ritorno e per farlo, tenderà una trappola al fantasma, al fine di poterlo sorprendere e chiedergli quanto ha bisogno. Fingerà quindi, di partire, ma invece si nasconderà sul balcone.

Finalmente sorprenderà Alfredo, il fantasma venuto per fuggire con la sua amante, il quale commosso dalla disperazione di Pasquale, decide di concedergli un ultimo aiuto economico, a patto che quest’ultimo acconsenta alla sua fuga con Maria; gli lascerà sul tavolo un ultimo fascio di banconote, prima di scomparire per sempre.

Nel frattempo la donna- interpretata da una fredda e decisa Carolina Rosi-  stufa del comportamento vile del marito, sceglierà la libertà, slegandosi da ogni tipo di dovere coniugale: ma non per fuggire con il suo amante, bensì per “fuggire” con se stessa, dimostrando di avere molto più carattere del marito Pasquale.

In questa regia, affidata a Marco Tullio Giordana, -vincitore di quattro David di Donatello, e due Nastri d’oro per I cento passi e La meglio gioventù– che ormai da tempo affianca la regia cinematografica a quella teatrale, il personaggio di Maria diventa padrone del proprio destino.

Nel frattempo, Pasquale conta le banconote sul balcone di fronte al professor Santanna – l’anima utile, che non si vede-,  lo ringrazia per lo stratagemma da lui suggerito, con quelle che sono le ultime parole dell’intera commedia: “Mi ha lasciato una somma di denaro… però dice che ha sciolto la sua condanna… che non comparirà mai più… Come?… Sotto altre sembianze? È probabile. E speriamo…”!

C’è chi va dall’oculista per vedere meglio; altri, per lo stesso motivo, utilizzano una lente di ingrandimento mentre leggono o sono alla disperata ricerca di minuziosi dettagli; chi invece, come Pasquale Lojacono, seppur dotati di un’ottima vista, si ostinano a non voler vedere. Costruirsi un alibi, una scusa quando qualcosa non ci piace è un tipico atteggiamento che riguarda ognuno di noi; è una sorta di medicina che ci auto prescriviamo, un’automedicazione essenziale e inevitabile per delle creature fragili e spaventate quali siamo, ma come tutte le medicine, bisogna, però, esser capaci di saper dosare, altrimenti è un attimo cadere nel baratro e perdere tutto, ma soprattutto perdere noi stessi.

In questa commedia, che valse a De Filippo un successo europeo, egli, con strema franchezza, ci mette di fronte al fatto compiuto: siamo tutti alla ricerca del quieto vivere e della fantomatica e agognata felicità. Si sa, il lavoro modesto non paga molto e chi vive una vita dignitosa, sogna di diventare milionario; chi è milionario, invece, sogna di poter tornare a star bene e in buona salute; ogni persona e ogni famiglia ha il suo cruccio; ogni persona vive come un’anima in pena e trovare la serenità di questi tempi, sembra, sempre di più, diventare una ricerca utopica.

 

Martina Di Nolfo

 

QUESTI FANTASMI!

Di Eduardo De Filippo

Regia Marco Tullio Giordana

Con Gianfelice Imparato, Carolina Rosi, Massimo De Matteo,

Paola Fulciniti, Federica Altamura, Andrea Cioffi, Nicola Di Pinto,

Viola Forestiero, Giovanni Allocca, Gianni Cannavacciuolo, Carmen Annibale

Scene e luci Gianni Carluccio

Costumi Francesca Livia Sartori

Musiche Andrea Farri.

ELLEDIEFFE- LA COMPAGNIA DI TEATRO DI LUCA DE FILIPPO

 

 

“MINETTI: LA FOLLIA NELL’ARTE”

Lo scorso martedì 4 Aprile ha debuttato al Teatro Carignano “Minetti”, un testo di Thomas Bernhard, con Roberto Herlitzka, in scena per la stagione teatrale 2016/2017 del Teatro Stabile di Torino.

Il testo è quasi un lungo monologo, inframmezzato solo da qualche battuta di alcuni personaggi che compaiono all’interno dell’albergo dove è ambientata la storia.
Siamo ad Ostenda, città sulla costa del Belgio, durante la notte di San Silvestro. Giunge in albergo un anziano signore con una pesante valigia da cui non si separa mai, Minetti, che annuncia di avere appuntamento con il direttore del teatro per portare in scena, dopo trent’anni di inattività, il Re Lear di Shakespeare.
Durante l’attesa, così prolungata da infondere il dubbio che in realtà l’incontro sia frutto dell’immaginazione dell’attore, Minetti racconta della sua vita e riflette sul teatro e sul mestiere di attore. Un personaggio che porta con sé la tristezza per essere stato esiliato dalla città dove era direttore del teatro, per essersi negato alla letteratura classica e che per trent’anni, nella soffitta della sorella, non ha fatto altro che ripetere il Re Lear di Shakespeare con la maschera che aveva creato per lui il celebre Ensor.

Per misurarsi con un personaggio così definito e per interpretare un testo tanto forte e complesso, ci vuole sicuramente una certa capacità e esperienza, attributi che chiaramente l’attore protagonista Roberto Herlitzka può vantare. Con grande intelligenza Herlitzka riesce a rendere il personaggio ironico nella sua follia, nonostante la drammaticità di una vita vissuta  esiliato dalla società. Molto dinamico in scena, non lascia mai l’occhio dello spettatore fisso in un punto e, comunicando con tutto il corpo, rende chiaro il messaggio e mantiene alta l’attenzione verso un testo che richiede per sua natura di essere seguito parola per parola.
Grazie ad un approccio intimo al personaggio, coinvolge lo spettatore a tal punto da indurlo a riflettere sulle questioni da lui affrontate. Questo aspetto viene sottolineato anche da alcune battute registrate con voce soffiata, che sembrano quasi svelare al pubblico le riflessioni personali di Minetti sull’arte.

Il protagonista si confronta principalmente con due personaggi, la cui presenza è per lui il pretesto per esporre le proprie idee: il primo è una signora, ospite ogni anno dell’albergo per passare il Capodanno sola con una maschera da scimmia e qualche bottiglia di champagne. Può essere vista come l’alter ego di Minetti, poiché entrambi vivono in una triste solitudine e sentono il bisogno di “recitare”  una parte nascosti dietro una maschera.
Il secondo personaggio è quello di una ragazza giovanissima che aspetta il fidanzato per andare a una festa mentre ascolta musica da una radiolina. Un po’ timida, scambia qualche parola con Minetti provando forse nei suoi confronti una certa tenerezza. Essa è chiaramente un contrasto con la sua situazione, è una giovane donna che ha ancora tutta la vita davanti e alla quale l’attore augura di non commettere errori.

La vicenda è interrotta qua e là da figure mascherate che entrano ed escono dall’albergo: si muovono lentamente, hanno maschere inquietanti e la loro presenza determina una situazione surreale che contrasta con il tono ironico e grottesco del racconto di Minetti. Si tratta di figure allusive che sembrano quasi uscire dalla mente del protagonista, come fantasmi del suo passato, delle sue paure e dei tormenti che alimentano la sua follia.

La scenografia ha un tratto naturalistico ed è ben curata in ogni dettaglio, come anche la musica e i vari suoni, ad esempio quello esterno del mare o quello dell’ascensore all’interno dell’albergo.
Le luci cambiano repentinamente a seconda dei momenti dello spettacolo per sottolineare ora l’introspezione del racconto, ora l’atmosfera quasi onirica dovuta alla presenza dei personaggi mascherati.

Importante è il ruolo delle maschere: quella della signora, quella di Re Lear di Ensor dalla quale Minetti non si separa mai e quelle indossate da chi festeggia San Silvestro. Maschera come rifugio dalla realtà e come unica possibilità per essere liberi.

Proprio perché la scenografia è così naturalistica, risulta forse un po’ stridente il finale, che secondo il testo dovrebbe essere ambientato all’esterno su una panchina mentre la neve cade su Minetti. In questo caso, il fondo della scenografia cambia, ma il contesto dell’albergo, così visivamente ben curato, rimane.
Inoltre, gli attori erano muniti di microfono, aspetto che può lasciare perplessi, perché una delle caratteristiche del teatro è per esempio poter notare negli attori un cambio di tonalità vocale a seconda della posizione del corpo nello spazio.
In ogni caso la recitazione del protagonista è riuscita a catturare con molto efficacia l’attenzione del pubblico, sia per la sua dinamicità, sia per l’ironia con cui si è approcciato al personaggio.

Un testo che parla della vita, della società, dell’arte e che vede nell’attore colui che è in grado di vivere fino in fondo tutte le emozioni e perciò anche la frustrazione che porta inevitabilmente alla follia. Come afferma lo stesso Minetti, l’arte è “orrenda” e l’attore è “mostruoso” poiché è l’unico in grado di portare di fronte al pubblico la dura realtà. Ma proprio perché non viene compreso dalla società, l’attore è destinato a fallire sia nell’arte che nell’esistenza.

di Alice Del Mutolo

di Thomas Bernhard
traduzione Umberto Gandini
con Roberto Herlitzka
e con Pierluigi Corallo, Verdiana Costanzo, Matteo Francomano, Roberta Sferzi, Vincenzo Pasquariello
regia Roberto Andò
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Gianni Carluccio, Daniela Cernigliaro
suono Hubert Westkemper
Teatro Biondo Palermo

CASA DI BAMBOLA: UNA NORA HELMER LIBERA E VOLONTARIA

il 21 marzo ha debuttato al Teatro Carignano di Torino  Casa di Bambola, celeberrimo testo teatrale di Henrik Ibsen, del 1879. A calcare il palcoscenico Filippo Timi e Marina Rocco, che hanno simbolicamente ritratto in scena l’ipocrisia borghese, la critica ibseniana verso quella società ma anche i ruoli diversi dell’uomo e della donna nell’ambito del matrimonio in epoca vittoriana.

Per comprendere Casa di Bambola forse è utile conoscere la psicologia dei suoi personaggi, la morale del testo ibseniano,  il ricorso di Ibsen ai simboli, che esprimono una visione del mondo, dell’uomo e della vita. Nora è la giovane moglie dell’avvocato Torvald Helmer. I loro tre figli vengono allevati dalla bambinaia, come di consueto negli ambienti borghesi dell’epoca. Le sue giornate trascorrono tra frivolezze di ogni genere. Suo marito la ama, la coccola, le proibisce di mangiare dolci come si farebbe con una bambina, ma non le fa mancare abiti e feste da ballo. In passato, per curare il marito malato, ha contratto un debito con un tal Krogstad, falsificando la firma del padre per ottenere soldi in prestito. Nora tenta di ricoprire il ruolo della donna accanto a quello maschile del “rendimento dei conti”.

Torvald Helmer ha ottenuto il ruolo di direttore nella banca in cui lavora, ha maggiore potere sugli altri, e a Nora questo piace, ma è tormentato dall’idea di perdere la propria reputazione e per questo non ammette che la moglie ficchi il naso nelle faccende che
non le competono: la sua piccola allodola, come lui la chiama continuamente – nel testo più che in questa rappresentazione – non dovrebbe avere influenza sulle sue decisioni, anche se di fatto Nora lo supplica di non licenziare Krogstad, che lavora nella sua stessa banca.
Insidiato dal licenziamento, Krogstad minaccia Nora di rivelare tutto a Torvald. Venuto a conoscenza del fatto, Torvald non riconosce nel gesto di Nora un atto d’amore per lui ed è deciso ad allontanare dalla cura dei figli quella che egli considera una moglie bugiarda e madre indegna, salvo poi perdonarla quando il ricatto che minaccia la famiglia viene annullato e il timore dello scandalo svanisce.
Il comportamento vigliacco di Torvald delude profondamente Nora
che spinta da pulsioni vitali inarrestabili non sarà disposta ad essere ancora, come da bambina, una bambola nelle mani
degli uomini intorno a lei.

Per un testo che è stato considerato un forte esempio di femminismo, Filippo Timi ha deciso di “farsi in tre”, interpretando i tre personaggi maschili principali, probabilmente, come ha affermato la regista Andrée Ruth Shammah

“Per riequilibrare una storia che se la leggi senza pregiudizi non parla di una moglie che sfugge alle grinfie del marito, ma della relazione uomo- donna arrivando al cuore più profondo, là dove
tutto è meno innocuo e veniale, le donne più ambigue, violente, gli uomini meno semplici, forse più femminili”.

La scenografia vuole riprodurre il modello di spazio borghese ibseniano, un ambiente artificialmente sereno che piegherà sul noir.
Le tinte del rosa – delle pareti e del vestito di Nora – e del verde – della tovaglia di velluto e delle sedie – sottolineano il gusto di Nora nel curare i particolari della casa e del suo aspetto. Lo spazio scenico risulta accogliente anche grazie alle luci calde che,  progressivamente, si snodano in una freddezza glaciale.

L’inattesa rottura delle normali convenzioni della finzione teatrale sorprende il pubblico e produce un diffuso umorismo. La rottura della quarta parete crea un effetto brillante che al pubblico piace, come la scena dove il terzo escluso Dottor Rank ringrazia dopo aver cantato con romantica malinconia My Funny Valentine.

Alessandra Pisconti

21 marzo 2017, Teatro Carignano Continua la lettura di CASA DI BAMBOLA: UNA NORA HELMER LIBERA E VOLONTARIA