Human Animal -FDCT

Debutta a Torino, all’interno del Festival Delle Colline Torinesi, lo spettacolo della compagnia La ballata dei Lenna, risultato del progetto vincitore di Hangar Creatività.

Human Animal. Se sei immune alla noia non c’è niente che tu non possa fare.” è il suo titolo. L’autore contemporaneo americano David Foster Wallace -e in particolare “Il re Pallido”, suo ultimo libro lasciato incompiuto-, è invece la fonte ispiratrice dalla quale Paola di Mitri decide di partire per la scrittura dello spettacolo. Un romanzo che affronta in particolar modo i temi della noia della quotidianità e dell’angoscia esistenziale che attanagliano l’uomo, oggi più che mai.

Se Wallace descrive la vita di un gruppo di funzionari della IRS (agenzia tributaria statunitense), e nello specifico la necessità di elaborare ed affrontare nel migliore dei modi la tediosità del loro lavoro, Paola Di Mitri trasporta la vicenda in Italia, concentrandosi sugli impiegati dell’agenzia delle entrate. Con alcuni di loro gli attori trascorrono un primo momento di ricerca, durante il quale raccolgono informazioni, suggestioni, pensieri, gesti e nevrosi, per poi passare ad una seconda fase di selezione e rielaborazione. Costruiscono a questo punto i tre personaggi cardine dello spettacolo – a tratti al di là e al di qua dello schermo in un’alternanza che integra e consegna talvolta personaggi cinematografici, talvolta teatrali -, all’interno di una performance che lascia ampio spazio –come d’altronde richiesto da Hangar- all’utilizzo delle nuove tecnologie, nonché ad una particolarissima interdisciplinarità.

La scenografia è scarna ed essenziale. Il palcoscenico non c’è. Di fronte al pubblico soltanto un piccolo spazio vuoto interrotto da uno schermo, dietro al quale talvolta si nascondono gli attori. Questi ultimi, infatti, in alcuni punti completano, danno voce e corpo al filmato, che s’interrompe, che continua muto, che lascia fuori campo un personaggio ora di fronte al pubblico, in carne ed ossa. Gli attori poi -bisogna precisare- non sono soltanto dei semplici attori, ma dei performer. Si dimenano sulle note di Je t’aime… moi non plus (Serge Gainsbourg e Jane Birkin) e cantano, oltre a recitare, per spogliarsi infine anche della loro maschera d’attore. O forse per svelarne un’altra, liberandosi ad ogni modo dal personaggio fino a quel momento interpretato.

La performance si divide infatti in due parti: durante l’ultima mezz’ora tutti si spostano nella sala accanto. Qui, su di una pedana, gli attori -pur continuando a recitare- hanno un colloquio diretto con il pubblico, che si vede (con grande timore) chiamato in causa. Giocano con gli spettatori, che – a questo punto- contribuiscono attivamente alla costruzione del senso dell’opera. Come fosse uno sguardo in macchina, quindi, i tre performer sono ora portatori dei pesanti pensieri dell’autore. Quei pensieri che, il 12 settembre dell’anno 2008, probabilmente lo spinsero al suicidio. Scelgono di dare voce e forma alle sue ultime parole, completando la parte mancante di quel libro, lasciato da Wallace -come già detto- inconcluso. E decidono di fare del finale un’esortazione alla vita. Un incitamento che ha come obiettivo quello di risvegliare ciascuno da quella condizione di assopimento e alienazione di cui troppo spesso oggi l’uomo è vittima.. ormai, purtroppo, senza più accorgersene. Cercano di far capire che il tempo passa incessantemente e che ogni giorno abbiamo perso un altro giorno che non tornerà piú. Che ci stiamo dimenticando dei veri valori, e del significato della bellezza, quella autentica. “Il mondo così com’è oggi è una burocrazia” scrive Wallace. Viviamo in un mondo troppo complicato. E’ vero. Ma ciò non può impedire (per lo meno non del tutto) di essere felici. Di vivere davvero. Di lasciarsi scompigliare e spettinare dalla vita, senza che questa si limiti a passarci sopra. O di fianco. Di riuscire ad intravedere quella meraviglia con cui un tempo eravamo capaci di vivere. Sarà forse più difficile, ma non impossibile. E il loro compito, oggi, è quello di darci un po’ più di coraggio. Di darci un piccolo spintone in avanti, per avvicinarci alla vita. Quella vera.

Distruggono il mondo/ In pezzi/ Distruggono il mondo/ A colpi di martello/ Ma non mi importa/ Non mi importa davvero/ Ne rimane abbastanza per me/ Ne rimane abbastanza/ Basta che io ami/ Una piuma azzurra/ Una pista di sabbia/ Un uccello pauroso/ Basta che io ami/ Un filo d’erba sottile/ Una goccia di rugiada/ Un grillo di bosco/ Possono rompere il mondo/ In frantumi/ Ne rimane abbastanza per me/ Ne rimane abbastanza/ Avrò sempre un po’ d’aria/ Un filetto di vita/ Un barlume di luce nell’occhio/ E il vento nelle ortiche (..)   (Boris Vian, ’51-‘52, Non vorrei crepare)

 

di Paola di Mitri
regia Nicola Di Chio, Paola di Mitri, Miriam Fieno

con Martin Chishimba, Paola di Mitri, Miriam Fieno
luci e visual concept Eleonora Diana
video e riprese Vieri Brini e Irene Dionisio 

produzione La Ballata dei Lenna
produzione esecutiva ACTI Teatri Indipendenti
sostegno alla produzione Hangar Creatività (Assessorato alla Cultura Regione Piemonte, Fondazione Piemonte dal Vivo), Zona K Milano, Factory Compagnia Transadriatica,
Principio Attivo Teatro
in collaborazione con Scuola Holden
vincitore bando Funder35
vincitore progetto Hangar Creatività

 

 

RAFFICHE di RIVOLUZIONE tra CORPI e PAROLE

I Motus non potevano mancare ad impreziosire – con la loro provocatoria presenza – la rassegna torinese che nella sua XXII edizione li vede coinvolti in qualità di ospiti per la quattordicesima volta. Intervistata da «Repubblica», Daniela Nicolò regista e co-fondatrice di Motus – racconta: «Venire al Festival delle Colline è come tornare in famiglia […] siamo stati presenti praticamente ogni anno con tutti gli spettacoli». Al Festival la compagnia avevo esordito nel 2003 proprio con Spelndid’s, spettacolo nel quale affonda le sue radici Raffiche – riscrittura dell’originale genetiano andata in scena al Petit Hotel di Torino dal 7 al 9 giugno.

L’opera di Genet, scritta nel 1948, ma pubblicata postuma nel 1993 è ambientata in un albergo dove una banda di gangster si ritrova accerchiata dalla polizia per aver preso in ostaggio una ricca ereditiera americana. Dopo il grande successo riscosso nei primi anni duemila, a muovere la compagnia riminese verso un nuovo allestimento di Splendid’s è stata l’esigenza di farne una versione tutta al femminile. Esigenza però ostacolata dall’agenzia che detiene i diritti dell’opera del drammaturgo francese che, imponendo il mantenimento integrale dei testi, non prevede cambiamenti di genere per i personaggi. Regole quasi paradossali, dal momento che tradimento e travestitismo sono nodi tematici ricorrenti nella drammaturgia dello stesso Genet.

Nasce così Raffiche – testo interamente originale, scritto da Magdalena Barile e Luca Scarlini – che si ispira alla stessa situazione narrativa di Splendid’s per sviluppare una riflessione sul superamento delle barriere identitarie e sulle dinamiche del potere. Un’operazione di questo genere non comporta la semplice assegnazione di ruoli originariamente maschili ad un cast di sole donne, ma prevede una scrittura appositamente pensata per la fisicità delle attrici che determina una risemantizzazione dell’intera vicenda.

Le identità dei personaggi genetiani migrano e si sfaldano nel dare vita alle Raffiche, un gruppo di misteriose mutanti che hanno rapito ed ucciso la scienziata di una multinazionale farmaceutica – simbolo dei dettami imposti dal potere capitalistico. Se i componenti di questo gruppo di lotta siano uomini o donne non è dato sapere. Ogni etichetta è qui presentata nella sua arbitrarietà e vacuità. Chiamatele “gender-hackers” o piuttosto “transtreghe”, come la stesso gruppo ama definirsi: streghe trans-moderne al cui cospetto tremano anche gli spettatori quando le vedono arrivare – imbracciate le armi e stereo alla mano – nella hall dell’hotel. È qui che ci si trova caricati sull’ascensore che conduce al luogo del delitto, nonché della rappresentazione teatrale, divenendone direttamente partecipi. Niente a che vedere con le fin troppo usurate velleità metateatrali. Le Raffiche, con passo severo e seducente, coinvolgono l’ignaro spettatore in uno spazio totalmente inedito e liminare in cui – in piena consonanza con la tematica genetiana dell’attraversamento del confine – non si possono più praticare distinzioni tra assediati ed assedianti, leader e gregari, vittime e carnefici.

Attraversamento del confine che non viene dunque declinato nella sola macro-accezione identitaria, ma assume anche i contorni più subdoli e sottili del tradimento. A condividere con le Raffiche la reclusione forzata c’è infatti una poliziotta volontariamente aggregatasi al gruppo del quale sembra inizialmente condividere i principi rivoluzionari, per poi rivelarsi determinante nell’arresto della banda stessa.

Un dispositivo drammatico con queste caratteristiche spinge alle estreme conseguenze la critica delle opposizioni dicotomiche alle quali non si può pretendere di ricondurre la fluidità pulsante del reale.

Non è un caso che i campi su cui le Raffiche giocano la loro battaglia investano tanto i corpi, quanto i comunicati, quindi le parole – quella ferocissima arma in grado di plasmare il reale pur senza contenerlo. E se con rivoluzione si intende il tentativo o per lo meno l’auspicio di trasformare la realtà, ogni slancio sovversivo – anche il più anarchico – dovrà venire a patti con le parole. Linguaggio fisico e linguaggio verbale rivelano così lo stesso carico di eloquenza.

Le parole – fastidiosamente infedeli, disperatamente necessarie – guidano il cambiamento e come tali hanno un forte potenziale politico. Ogni forma di potere, pur nei diversi gradi di legittimazione ed istituzionalizzazione, deve saper fare buon uso della retorica. Così Rafale a Scott:

Tu mi insegni, Scott, la grammatica è un’invenzione capitalistica patriarcale che regola e dispone i corpi del discorso secondo modelli imposti che vanno scardinati. Dobbiamo riappropriarci del discorso, ri-sessualizzare la punteggiatura.

No al punto e alla virgola, sì ai due punti e al punto e virgola. No all’assolutismo dei punti esclamativi, sì all’incognita aperta dalle X e dalle Y. Anche i morfemi di genere vengono sbugiardati in tutta la loro convenzionalità.

Come le Raffiche, che dividono la loro resistenza tra linguaggio del corpo e linguaggio verbale, così la sceneggiatura alterna serrati scambi di battute a momenti strettamente performativi. Il tutto brillantemente condotto da interpreti diverse per età e provenienza, ma accomunate da un carisma fuori dal comune.

Non solo dialoghi dunque, ma anche passi di danza, fatali attrazioni, rombanti colluttazioni, spari e suicidi… fino alla tragica disfatta. Quanto suggerito da Scott prima della resa lascia aperti interessanti spiragli di riflessione. Al machismo imperante di chi per farsi rispettare sa solamente esibire i muscoli, si deve rispondere anche scoprendo le caviglie e mostrando il volto struccato. E se il lusso dell’arrendevolezza – invocato sul finale – fosse la vera rivoluzione?

Cecilia Nicolotti

RAFFICHE

RAFALES | MACHINE (CUNT) FIRE

di Motus

regia Enrico Casagrande e Daniela Nicolò

dedicato a Splendid’s di Jean Genet
con Silvia Calderoni (Jean), Ilenia Caleo (Rafale), Sylvia De Fanti (Bravo), Federica Fracassi (il Poliziotto), Ondina Quadri (Pierrot), Alexia Sarantopoulou (Riton), Emanuela Villagrossi (Scott), I-Chen Zuffellato (Bob)
la voce della radio Luca Scarlini e Daniela Nicolò
testi Magdalena Barile e Luca Scarlini

produzione Elisa Bartolucci e Claudia Casalini
distribuzione estera Lisa Gilardino
comunicazione Marta Lovato

produzione Motus
con Ert, Comune di Bologna
in collaborazione con Biennale Teatro, L’arboreto – Teatro Dimora Mondaino, Santarcangelo Festival Internazionale del Teatro in Piazza, Teatro Petrella Longiano
con il sostegno di MiBACT, Regione Emilia Romagna

EMILY: LA POESIA DELLA SOLITUDINE

Durante la 22^ edizione del Festival delle Colline Torinesi, è andato in scena al Teatro Astra lo spettacolo Emily di e con Milena Costanzo.

Cercando di ricreare la vita della poetessa statunitense Emily Dickinson, vengono rappresentati i turbamenti di ogni adolescente: non voler uscire di casa, non voler mangiare, fare le pulizie. Semplicemente, non voler crescere, voler rimanere bloccati in una giovinezza immortale ed eterea. Un testo a tratti commovente, divertente, inquietante che, anche se a volte sembra essere poco omogeneo, porta lo spettatore a riflettere su quali siano i doveri di ogni figlio nei confronti della famiglia, quelli della famiglia verso ogni componente di essa, e quali i doveri di ogni cittadino verso la società. Perché in fondo Emily vive in solitudine perché non si sente capita, ma nasconde una grande voglia di amare, e la sua solitudine è un po’ la solitudine che è in tutti noi. Nonostante questo, nonostante i suoi problemi, viene ripudiata dalla famiglia e considerata pazza: è vietato pronunciare il suo nome e ogni domanda su di lei viene aggirata con chiacchiere futili dalla madre e la sorella.

Emily ci mostra come uno spettacolo possa colpire anche senza l’ausilio di troppi oggetti scenografici e come l’uso intelligente delle luci e della musica possa elaborare soluzioni interessanti: fondale nero, un tavolo, tre sedie e tre lampadari usati a seconda delle esigenze. La musica, che sembra non coincidere quasi mai con la drammaticità dei momenti rappresentati, aiuta invece ad aumentare il pathos, a tenere alta l’attenzione degli spettatori e a creare, all’occorrenza, momenti divertenti, anche grazie all’abilità degli attori.

Uno spettacolo che unisce la ricostruzione della vita e delle sofferenze di una delle più sensibili poetesse vissute al ragionamento sui demoni di una società che tende a nascondere chi soffre.

Alice Del Mutolo

di Milena Costanzo
regia Milena Costanzo

con Milena Costanzo
e con Alessandra DeSantis, Rassana Gay, Alessandro Mor
assistente alla regia Chiara Senesi
costumi Elena Rossi
oggetti di scena OkkO Parma
organizzazione Antonella Miggiano

produzione Fattore K
con il sostegno di Danae Festival, Olinda

 

ELEPHANT WOMAN: LA PISTOLA DELLA FOLLIA

Un altro spettacolo del ricco programma del Festival delle Colline Torinesi 2017:  Elephant Woman, di Andrea Gattinoni con Silvia Lorenzo, in scena al Teatro Gobetti.

La scena è completamente vuota: quinte e fondale neri e una luce fissa. Nel buio sentiamo  un rumore di tacchi a spillo, poi  entra una donna con un rossetto rosso, seminuda, che inizia a parlare di sé, Topazio, e della sua amante, B. Dopo pochi minuti ci da le spalle ma,  girandosi di nuovo,  ci punta addosso una pistola: proprio questo oggetto  sarà il punto di tensione di tutto lo spettacolo, perché il pubblico non riuscirà mai a staccare gli occhi dall’arma e, proprio per la sua presenza, non abbasserà mai l’attenzione nemmeno per un secondo.

Topazio è una giovane donna che decide di abbandonare famiglia, lavoro e amicizie per vivere ai margini della legalità e per dare sfogo a ogni  pulsione. Il racconto procede con l’attrice sempre al centro della scena. Si muove lentamente e,  nonostante sia sola, non fa mai sembrare vuoto il palcoscenico. Ci cattura  con la mimica e con il corpo, con la voce suadente e con i racconti della sua vita: una vita di dolore, di abusi, di solitudine e di insicurezza.

Per tutto lo spettacolo abbiamo l’impressione di trovarci all’interno della mente un po’ malata di Topazio: i suoi racconti provengono dal buio, da un incubo, e non saremo mai sicuri della veridicità delle sue parole. Ma non è questo l’importante, non è necessario sapere se siano tutte bugie o se sia un sogno. Il testo, infatti, vuole farci riflettere sul doloroso destino di alcune donne maltrattate e poi abbandonate a loro stesse. Questo non può far altro che creare esseri umani che non distinguono più la realtà dalla finzione e finiscono per relegarsi ai margini della società.

Il perno emozionale dello spettacolo è la lettura di una lettera alla madre, che non ha mai aiutato la figlia abusata dal padre: la disperazione, il dolore e la follia che ne deriva si scatenano  come una tempesta,  amplificata dall’uso di un microfono panoramico.

L’attrice Silvia Lorenzo è stata in grado di tenere alta l’attenzione degli spettatori  per un’ora di monologo. Alla drammaticità dei racconti si sovrappongono momenti comici in cui l’attrice ripete a memoria definizioni tecniche della lingua italiana o astronomiche come se fosse una voce automatica, esterna al personaggio.

Un colpo di pistola sottolinea il termine dello spettacolo, facendo domandare a tutti gli spettatori se Topazio si sia uccisa, se abbia ucciso qualcuno, o se sia mai esistita.

Alice Del Mutolo

di Andrea Gattinoni
regia 
Andrea Gattinoni

con Silvia Lorenzo

produzione Teatro Filodrammatici, Festival delle Colline Torinesi

 

Il Cielo non è un fondale – FDCT

Soli come nei sogni, così si apre Il cielo non è un fondale, che inizia proprio da un sogno, a sua volta generato da una canzone dall’omonimo titolo. In questo modo spontaneo e naturale inizia il lavoro dell’attore: sognare ad occhi aperti e lasciarsi trasportare dagli eventi. Un sogno che piano piano diventa collettivo, collocato in una scenografia scarna, dove l’unico elemento è un termosifone bianco, posto a lato della scena. In questa situazione onirica Antonio ci racconta di aver sognato Daria nei panni di una barbona e, pur avendola riconosciuta, l’ha ignorata. Da questo sogno si instaurano a catena tanti racconti sconnessi  ma legati da qualche particolare che permette il passaggio da una storia all’altra. Gli attori si interrompono nei loro racconti e tra una pausa e l’altra riprendono parola, tutto apparentemente sconnesso ma con un senso come all’interno di un sogno. Continua la lettura di Il Cielo non è un fondale – FDCT

Zoo[m]out! Some other place, some other time

La sera del 6 giugno presso la Casa Teatro Ragazzi la compagnia Th[on]gu, un duo di espressione scenica fondato nel 2013 da Guendalina Tondo e Riccardo Giovinetto, presente per la prima volta al Festival delle Colline torinesi, ha proposto una prima “versione per voce, musica e video” di Zoo[m]out, alla quale seguirà una versione integrale.

Quali sentimenti verrebbero risvegliati se si provasse a guardare il pianeta Terra come se lo si scoprisse per la prima volta? Sembra sia questo l’interrogativo attraverso il quale l’attrice invita a riflettere.  Su un palco minimale, Guendalina Tondo veste in total black, nero appunto, termine intermittente come un’insegna  Retro Wave che si accende e si spegne, nero come la metafora di qualcosa di prezioso che sfugge all’attenzione, piccoli pezzi di mondo che non vengono visti, “come fosse nero”. Ma se è una verità che dopo il nero sopraggiunge sempre la luce, tutto ciò che essa potrebbe illuminare sarebbe visibile in un baleno, anche quello che non si è mai visto. Zoo[m]out prende spunto dal romanzo di fantascienza L’uomo che cadde sulla Terra, scritto da Walter Tevis e che nel ’76 diventa un film interpretato da David Bowie. La fascinazione nei confronti dell’alieno Bowie la si può ricostruire attraverso l’elemento espressivo della luce, che diventa un presupposto necessario all’intento scenico, e a guardar bene, i lineamenti del volto dell’attrice stessa ricordano quelli delicati dell’uomo delle stelle degli anni ’70.

E se ci si trovasse catapultati  sul pianeta Terra, vestiti di silver e incapaci di comunicare in una lingua universale, e senza che nessuno se ne accorga? Su questo secondo punto di domanda sembra poggiare una critica esplicita verso la smodata e tutta moderna manìa di trasferire tutto su istantanea. Istantanea come una fotografia, istantanea come una dipartita, quella metaforica di chi fa tutto questo “senza mai guardare fuori”.

La sonorizzazione di Riccardo Giovinetto (Ozmotic), in palcoscenico insieme all’attrice, non è rimasta un elemento subordinato rispetto alla narrazione. Gesti, suoni e ambiente sono il risultato di un unico infuso.

Probabilmente Zoo[m]out vuole invitare a posare lo sguardo sul nostro pianeta (e anche sugli altri, chissà!), facendone esperienza  e percependolo non come è, ma per come si è. Per dirla con gli argentati Rockets, some other place, some other time, it’s a world deep inside of you!

Alessandra Pisconti

6 giugno 2017, Casa Teatro Ragazzi, Torino

di th[on]gu

musiche e visual Ozmotic

in scena Guendalina Tondo

con il sostegno di Campo Teatrale e Festival delle Colline Torinesi

e la collaborazione di Micron