Teatro Stabile di Torino stagione teatrale 2017-18, conferenza stampa

Giovedì 11 maggio presso il Teatro Carignano si è tenuta la conferenza stampa del Teatro Stabile di Torino riguardante il programma della stagione teatrale 2017-18 .  Sono intervenuti il presidente Lamberto Vallarino Gancia, il direttore Filippo Fonsatti, il direttore artistico Mario Martone, il nuovo direttore artistico che entrerà in carica dall’inizio del 2018, Valerio Binasco, le assessore alla cultura Francesca Paola Leon e Antonella ParigiBarbara Graffino, membro del consiglio generale della Compagnia di San Paolo.

Il presidente  Lamberto Vallarino Gancia  ha espresso, a nome suo e del Consiglio di Amministrazione, i più sinceri auguri al nuovo direttore artistico Valerio Binasco, ai collaboratori dello Stabile e a Mario Martone, per l’ottimo lavoro che ha svolto negli ultimi dieci anni. Ha introdotto poi il direttore Filippo Fonsatti, ricordando quanto sforzo comporti creare un cartellone teatrale come quello dello Stabile e ha mostrato gli indicatori chiave della stagione scorsa. Lo Stabile di Torino si conferma al secondo posto tra i Teatri Nazionali nella classifica ministeriale grazie ad un’alta qualità dei progetti artistici, al contributo economico garantito dai Soci Aderenti e soprattutto grazie al lavoro svolto dallo staff.

La cultura è fondamentale per la crescita di un territorio. La nuova stagione comprenderà 16 produzioni, di cui 5 nuove produzioni esecutive, 6 nuove coproduzioni e 5 riprese, tra cui 29 spettacoli ospiti e 24 spettacoli programmati per la rassegna Torinodanza. Sono 69 gli spettacoli con grandi titoli di registi e attori che si sono affermati sulla scena scena nazionale e internazionale. Tra le produzioni troviamo molte rivisitazioni di testi classici: Don Giovanni di Molière con la regia di Valerio Binasco, Le baruffe chiazzotte di Carlo Goldoni con la regia di Jurij Ferrini, L’illusion Comique di Pierre Corneile con la regia di Fabrizio Falco e Le Baccanti di Euripide con la regia di Andrea De Rosa. Ma troviamo anche una vasta gamma di produzioni contemporanee come Il sindaco del rione Sanità di Eduardo De Filippo con la regia di Mario Martone, Il nome della rosa di Umberto Eco con la regia di Leo Muscato, L’Arialda di Giovanni Testori con la regia di Valter Malosti, Galois di Paolo Giordano con la regia di Fabrizio Falco, Emone. La traggedia de Antigone seconno lo cunto de lo innamorato di Antonio Piccolo con la regia di Raffaele Di Florio e Da questa parte del mare di Gianmaria Testa con la regia di Giorgio Gallione. Prosegue la collaborazione con le compagnie teatrali della città di Torino: importante la coproduzione di Lear, schiavo d’amore dei Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa che debutterà in prima nazionale al Teatro Gobetti con la regia di Marco Isidori, inoltre anche Mistero Buffo di Dario Fo prodotto dal Teatro della Caduta con la regia di Eugenio Allegri, Alice nel paese delle meraviglie prodotto dal Mulino di Amleto con la regia di Marco Lorenzi e La bella addormentata con la regia di Elena Serra.
Il teatro pubblico non è la casa di un singolo artista, è un cantiere aperto dove i registi al lavoro devono essere numerosi e diversi tra loro, con un orizzonte comune ovvero la direzione artistica per evitare che gli spettacoli siano un assemblaggio di merci su uno scaffale. Per questo nella stagione prossima si punterà ad una riflessione su temi del nostro mondo complesso, dal micro al macro, della dimensione sociale mononucleare a quella di massa destinato a raggiungere la dimensione G-zero. Ad esempio con il pluripremiato Disgraced di Ayad Akhtar, in cui fuoriesce la tensione culturale all’interno del salotto borghese, con la regia di Martin Kušej.

Tra i dati riportati da Filippo Fonsatti è importante sottolineare che tra il 2015 e il 2016 c’è stato un aumento del 85% delle vendite dei biglietti e che purtroppo quest’anno ci sarà un aumento dei prezzi, eccetto che per gli studenti. Si è parlato molto anche di giovani, infatti Lo Stabile collabora con la Scuola di formazione per Attori e ben 128 artisti e tecnici sono under 40 e altri 45 sono under 30. Perché il teatro comprende tutti coloro che lavorano al suo interno, non solo gli attori ma anche i tecnici che lavorano dietro le quinte.
Inoltre c’è il desiderio di variegare le fasce di spettatori, comprendendo molti giovani e offrendo la possibilità a  un pubblico di  estrazione sociale e di grado di istruzione diversi fra loro di dialogare, perciò assieme alla Fondazione CRT, il Teatro Stabile offre gratuitamente 1.000 abbonamenti per cittadini a basso reddito.

A seguire è intervenuto Mario Martone, presentandosi per l’ultima volta pubblicamente come direttore artistico e lasciando in eredità il suo ruolo al successore Valerio Binasco, regista e attore tra i più apprezzati e premiati della scena italiana. Martone ha sostenuto che il teatro è una macchina che ha bisogno di una buona conduzione gestionale, dove è importante l’elemento razionale ma anche una certa imprevidibilità e follia degli artisti. La parola è poi passata a Valerio Binasco che si è presentato entusiasta di continuare a lavorare con solidità e coerenza sulle tracce del collega Martone, con attenzione ai temi della contemporaneità riletti in modo innovativo ed originale, prestando attenzione alla valorizzazione dei giovani talenti. Durante il suo intervento ha sottolineato quanto sia importante che il teatro rifletta e si interroghi sulla realtà che ci circonda.

“Il teatro non è un semplice luogo dove si svolgono le rappresentazioni teatrali ma è un luogo di vita quotidiana.” ha aggiunto Barbara Graffino,  che è intervenuta assieme agli assessori.

Resoconto scritto da Floriana Pace e Andreea Hutanu.

TEATRO STABILE DI TORINO – TEATRO NAZIONALE
@Presidente: Lamberto Vallerino Gancia
@Direttore: Filippo Fonsatti
@Direttore artistico: Mario Martone
@Consiglio d’Amministrazione: 
Lamberto Vallerino Gancia
Riccardo Ghidella (Vicepresidente)
Mario Fatibene
Cristina Giovando
Caterina Ginzburg
@Collegio dei Revisori dei Conti:
Luca Piovane (Presidente)
Flavio Servato
Stefania Branca
@Consiglio degli Aderenti:
Città di Torino
Regione Piemonte
Compagnia di San Paolo
Fondazione CRT
Città di Moncalieri (Sostenitore)

INFORMAZIONI. Biglietteria del Teatro Stabile di Torino: Teatro Gobetti, via Rossini 8 – Torino. Tel. 011 5169555 – Numero verde 800.235.333 – info@teatrostabiletorino.it

METAmORFOSI: LO SCARAFAGGIO SOCIALE A PANCIA IN SU

All’interno del variegato programma del Torino Fringe Festival 2017 troviamo con diverse repliche  lo spettacolo, vincitore di Maldipalco 2014, METAmORFOSI della compagnia Officina per la scena. La rappresentazione, di e con Luca Busnengo e con la supervisione artistica di Michele Guararldo, si tiene presso l’Unione Culturale Franco Antonicelli, un luogo intimo e raccolto, particolarmente adatto per un tipo di lavoro  quale quello proposto da Busnengo.

Sembra infatti quasi di scendere in un sotterraneo, i soffitti sono a volta e le sedie per accomodarsi poche, situate vicine al palco, che è molto basso. Ed è proprio per questo che quando l’attore fa il suo ingresso e inizia a parlare, non si può fare a meno di sentirsi parte della sua narrazione, di sentire il suo respiro; non c’è distanza tra il pubblico e chi gli si sta rivolgendo, siamo immersi insieme a lui nella storia. L’attore è talmente vicino a noi da farci sentire tutto il dolore del personaggio, e l’empatia cresce sempre di più, mano a mano che lo spettacolo prende vita. Dobbiamo accettare l’idea che assisteremo ad uno spettacolo che non ci vuole passivi, che proveremo emozioni intense,  e che ascolteremo argomenti che forse ci toccheranno nel profondo.
Tutti gli elementi per una forte immedesimazione sembrano quindi essere presenti, ma grazie all’uso della luce, talvolta colorata e psichedelica, e della musica, che vede l’utilizzo di brani di Caparezza o Giorgio Gaber, si crea un’atmosfera straniante che porta lo spettatore a distaccarsi quanto basta per poter ragionare razionalmente sui temi trattati.

Colpisce l’estrema attualità di quello che viene narrato: il disagio che le generazioni provano in questo tempo dove i cambiamenti e le regole della società sono talmente rapidi che per stare al passo non si può far altro che abbandonare la propria identità. Per parlare di questo vediamo sulla scena un personaggio anonimo che racconta cosa succede a coloro che invece non vogliono omologarsi, ma che finiscono con il sentirsi inadeguati alla vita poiché questa società non premia più la diversità come una ricchezza.
Storie comuni di disagi, di suicidi, storie individuali e collettive, di cambiamenti e di trasformazioni, prendono vita attraverso le parole di uno “scarafaggio” che rappresenta tutti e nessuno. Il richiamo a Kafka è chiaro e la capacità di Luca Busnengo di muoversi e modificare la voce per ricordare l’insetto è ammirevole. Lo scarafaggio non è altro che colui che decide di uscire allo scoperto e mostrarsi nella sua particolarità, sicuro di essere protetto dalla sua forte corazza. Ma, come viene detto  nella parte finale del monologo, se lo scarafaggio viene capovolto dalla società e non viene aiutato da nessuno, non può far altro che mostrarsi vulnerabile, soffrire per la sua condizione personale e annegare nelle proprie lacrime. Perché quando viene accesa la luce e non ci sono più le tenebre a nasconderti, non si può più scappare.

Oltre al richiamo letterario a La metamorfosi di Franz Kafka, è presente anche quello a Amleto di William Shakespeare, in particolare al  celebre monologo “Essere o non essere…”, usato nel momento in cui la soluzione di chi soffre sembra essere solo quella del suicidio, ovvero quella di abbandonarsi ad un sonno senza sofferenze che possa anche includere sogni.

La scenografia è composta da uno sgabello nero e anche i costumi usati dall’attore sono scuri, eccezion fatta per la camicia bianca, che viene però coperta per la maggior parte del tempo da un cappotto. Non siamo quindi di fronte ad un’ambientazione naturalistica e questo non può far altro che attivare l’immaginazione del pubblico, che cerca di dare un luogo e un tempo nella sua mente alle storie narrate. L’unico oggetto colorato che viene usato come un simbolo è una mela verde, bellissima e perfetta, in grado proprio per questo di adattarsi ad ogni situazione, esattamente come le regole sociali vorrebbero che fosse ogni individuo.

di Alice Del Mutolo

di e con Luca Busnengo
supervisione artistica Michele Guaraldo
spettacolo vincitore MALDIPALCO 2014
Tangram Teatro

 

 

QUESTI FANTASMI! Guardare ma non vedere, o vedere ma fingere di non vedere?

 

“Pasquà ma dove hai preso tutti ‘sti soldi? E‘sto diamante?” chiede, in preda alla rabbia e al nervosismo, Maria (Carolina Rosi) a suo marito Pasquale Lojacono (Gianfelice Imparato).

Così si apre il terzo e ultimo atto di Questi Fantasmi, commedia scritta da Eduardo De Filippo nel 1945, che ben si presta però anche ai giorni nostri.

Quanti di noi, almeno una volta nella vita, non hanno non pensato al fatto che, seppur il denaro non fosse tutto, qualche spicciolo in più non avrebbe guastato per essere felici? Questo, il protagonista- interpretato da un composto Gianfelice Imparato-  lo sa bene: egli, difatti, rinunciando ai suoi valori di uomo e ai suoi doveri coniugali,  e accogliendo con estrema passività le vicende della vita, si dimostra un uomo debole, ma soprattutto, un inetto disposto a tutto pur di possedere del denaro. È un personaggio per cui è impossibile non provare un po’ di tenerezza; un uomo apparentemente normale, che anzitutto pensa a se stesso e che non intende rinunciare ai piccoli piaceri della vita: un pollo caldo e del buon cibo; le sigarette e il caffè che si prepara in assoluta autonomia, dal momento che la moglie -essendo, a detta sua, di un’altra generazione- non è in grado di prepararlo come si deve. Pur di non abbandonare tutto questo, Lojacono, spogliatosi oramai di qualsiasi “virtus” in senso lato, accetta qualsiasi cosa: cosa sono, infatti, un tradimento e la perdita dell’onore in confronto alla perdita dell’agiatezza economica? Per Lojacono sicuramente alcunché di tollerabile: tant’è vero che, alla domanda che gli rivolge la moglie, quest’ultimo non è in grado di rispondere, né è interessato a farlo: entrambi, infatti, sanno che tutto il denaro e i gioielli ricevuti in dono, sono una gentile “offerta” da parte di Alfredo Marigliano, amante della moglie, che ripaga Lojacono per l’accordo che, tacitamente tra i due, è venuto a stabilirsi.

È questo il vero dramma: entrambi sanno di sapere eppure fingono di non vedere, un po’ per vergogna di loro stessi, un po’ per comodità; ecco perché, fino alla fine della commedia, indosseranno, senza mai togliere, la loro maschera, qui rappresentata da uno dei temi più cari al pubblico napoletano, quello del “munaciello”, ossia del fantasma. In una società dove è più importante l’apparenza rispetto alla sostanza, dove è meglio sembrare anziché essere; dove è necessario possedere per sopravvivere, anche al prezzo di svendere la propria identità, indossare un velo bianco da fantasma sembra quasi inevitabile. Lojacono stesso arriverà ad affermare che “I fantasmi non esistono… li creiamo noi, siamo noi i fantasmi!”.

 

Lo spettacolo si apre nell’ingresso di una casa che- come leggenda vuole-  sarebbe infestata da diversi e stravaganti fantasmi, e per questo sino a ora disabitata. Nonostante ciò, e al corrente di tale fatto, accompagnato dallo sgrammaticato portiere, interpretato da un esilarante Nicola Di Pinto, Lojacono decide di trasferirsi nell’abitazione- a titolo gratuito- insieme alla moglie, ignara del fatto. Non è, però, il solo ad aver mentito, o meglio, ad avere omesso dettagli apparentemente insignificanti ma che in realtà racchiudono il succo della vicenda: Maria, infatti tradisce il marito con Alfredo Marigliano (Massimo De Matteo).

Lojacono non paga alcunché di affitto, deve però, rispettare alcuni “rituali” stabiliti, in precedenza, con i vecchi proprietari: sbattere un tappetto sui sessantotto balconi della casa, cantare e apparire sempre felice e spensierato per sfatare la leggenda agli occhi dei vicini. Ecco che anche qui, ci imbattiamo nuovamente, nel tema della maschera, tanto caro alle opere pirandelliane, e cardine di tutto lo spettacolo.

Egli poi, vorrebbe affittare le restanti stanze della casa e adibirle a pensione. Purtroppo però, i piani non vanno come aveva sperato: nessuno si presenta per l’affitto; inoltre, Lojacono non gode nemmeno più dei benefici economici del “fantasma buono”, il quale ha smesso, di punto in bianco, di far trovare danari nella tasca della giacca appesa all’appendiabito nell’ingresso. A Pasquale non resta che sperare in un suo ritorno e per farlo, tenderà una trappola al fantasma, al fine di poterlo sorprendere e chiedergli quanto ha bisogno. Fingerà quindi, di partire, ma invece si nasconderà sul balcone.

Finalmente sorprenderà Alfredo, il fantasma venuto per fuggire con la sua amante, il quale commosso dalla disperazione di Pasquale, decide di concedergli un ultimo aiuto economico, a patto che quest’ultimo acconsenta alla sua fuga con Maria; gli lascerà sul tavolo un ultimo fascio di banconote, prima di scomparire per sempre.

Nel frattempo la donna- interpretata da una fredda e decisa Carolina Rosi-  stufa del comportamento vile del marito, sceglierà la libertà, slegandosi da ogni tipo di dovere coniugale: ma non per fuggire con il suo amante, bensì per “fuggire” con se stessa, dimostrando di avere molto più carattere del marito Pasquale.

In questa regia, affidata a Marco Tullio Giordana, -vincitore di quattro David di Donatello, e due Nastri d’oro per I cento passi e La meglio gioventù– che ormai da tempo affianca la regia cinematografica a quella teatrale, il personaggio di Maria diventa padrone del proprio destino.

Nel frattempo, Pasquale conta le banconote sul balcone di fronte al professor Santanna – l’anima utile, che non si vede-,  lo ringrazia per lo stratagemma da lui suggerito, con quelle che sono le ultime parole dell’intera commedia: “Mi ha lasciato una somma di denaro… però dice che ha sciolto la sua condanna… che non comparirà mai più… Come?… Sotto altre sembianze? È probabile. E speriamo…”!

C’è chi va dall’oculista per vedere meglio; altri, per lo stesso motivo, utilizzano una lente di ingrandimento mentre leggono o sono alla disperata ricerca di minuziosi dettagli; chi invece, come Pasquale Lojacono, seppur dotati di un’ottima vista, si ostinano a non voler vedere. Costruirsi un alibi, una scusa quando qualcosa non ci piace è un tipico atteggiamento che riguarda ognuno di noi; è una sorta di medicina che ci auto prescriviamo, un’automedicazione essenziale e inevitabile per delle creature fragili e spaventate quali siamo, ma come tutte le medicine, bisogna, però, esser capaci di saper dosare, altrimenti è un attimo cadere nel baratro e perdere tutto, ma soprattutto perdere noi stessi.

In questa commedia, che valse a De Filippo un successo europeo, egli, con strema franchezza, ci mette di fronte al fatto compiuto: siamo tutti alla ricerca del quieto vivere e della fantomatica e agognata felicità. Si sa, il lavoro modesto non paga molto e chi vive una vita dignitosa, sogna di diventare milionario; chi è milionario, invece, sogna di poter tornare a star bene e in buona salute; ogni persona e ogni famiglia ha il suo cruccio; ogni persona vive come un’anima in pena e trovare la serenità di questi tempi, sembra, sempre di più, diventare una ricerca utopica.

 

Martina Di Nolfo

 

QUESTI FANTASMI!

Di Eduardo De Filippo

Regia Marco Tullio Giordana

Con Gianfelice Imparato, Carolina Rosi, Massimo De Matteo,

Paola Fulciniti, Federica Altamura, Andrea Cioffi, Nicola Di Pinto,

Viola Forestiero, Giovanni Allocca, Gianni Cannavacciuolo, Carmen Annibale

Scene e luci Gianni Carluccio

Costumi Francesca Livia Sartori

Musiche Andrea Farri.

ELLEDIEFFE- LA COMPAGNIA DI TEATRO DI LUCA DE FILIPPO

 

 

XXII Festival delle Colline Torinesi , Conferenza Stampa

Mercoledì 19 aprile presso il Goethe-Institut ha avuto luogo la conferenza stampa di presentazione della XXII edizione del Festival delle Colline Torinesi, un appuntamento da non perdere dedicato alla creazione teatrale contemporanea. Dialogano sull’argomento: Jessica Kraatz Magri, direttrice dell’Istituto Culturale della Repubblica Federale di Germania, Sergio Ariotti, direttore del Festival, Antonella Parigi, assessore della regione e Barbara Graffino (Compagnia di San Paolo).

Qui si racconta e si anticipa un’edizione tutta dedicata alla donna, che porta alla ribalta moltissime autrici (come Sasha Marianna Salzmann, Mirjana Bobic Mojsilovic, Milena Costanzo..), registe (tra le quali Paola Rota, Daniela Nicolò, Fiona Sansone, Chiara Guidi..) nonché interpreti e performer di altissima qualità. E, come se non bastasse, di una donna è anche il segno d’artista del Festival 2017: parliamo di Marisa Mertz, artista italiana di altissimo talento, per di più unica rappresentante femminile della corrente dell’Arte Povera. Ventisette sono le compagnie che presentano i loro lavori, alcuni dei quali sono in prima assoluta (altri in prima nazionale o quantomeno regionale), con nomi di spicco della creazione contemporanea. Diciannove i giorni a disposizione (4/22 giugno).
Italia, Germania, Grecia, Serbia, Somalia e Libano sono invece i Paesi ospiti da cui provengono gli spettacoli internazionali.
Segio Ariotti ha guidato i presenti nella lettura del programma, attraverso un breve ma efficace focus sugli spettacoli, raggruppabili per famiglie tematiche. Delle ventisette rappresentazioni complessive, sei presentano al centro dell’attenzione poetesse e letterate. Tra queste vanno ricordate: Lettere della notte, che vede l’incontro tra Chiara Guidi e Nelly Sachs, scrittrice e poetessa tedesca di origine ebraica, Premio Nobel 1966; L’amica geniale, che prende spunto dal notissimo ciclo di romanzi dell’autrice senza volto Elena Ferrante; Il cielo non è un fondale, un atto drammatico apparentemente “senza trama e senza finale” che prova a restituirci i continui spostamenti di senso tra quello che noi siamo e quello che ci succede intorno; Emily di e con Milena Costanzo, seconda parte del progetto su Sexton, Dickinson e Weil; Amelia la strega che ammalia and friends (dove Amelia è Amelia Rosselli) di Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa e Corale numero uno, di e con Elena Bucci, che racconta di una singolare e sventurata eroina zingara, Bronislawa Wajs (nome d’arte Papusza), poetessa anch’essa, liberamente tratto dal testo Sputa tre volte di Davide Reviati, uno dei più interessanti autori di graphic novel internazionale.
Hanno invece a che fare con l’identità di genere, tema principe dell’edizione passata, dal quale il festival non sembra essersi ancora liberato del tutto –continua a spiegare il direttore- , lo spettacolo dei Motus, che ritornano a furor di popolo con Raffiche, reinvenzione di una pièce minore di Jean Genet, in una versione provocatoriamente al femminile; Pedigree, messa in scena di un testo inedito, firmato da Valeria Raimondi e Enrico Castellani, dedicato alle famiglie arcobaleno; 50 Grades of Shame, lo spettacolo del collettivo femminile tedesco She She Pop, appuntamento clou del cartellone 2017; Masculu e Fiammina di e con Saverio La Ruina, che interpreta un uomo che racconta se stesso e la propria identità sessuale davanti alla tomba della madre, e infine un performer greco, Euripides Laskaridis, il quale con Titans, nome dello spettacolo, propone le sue trasformazioni, cercando di comprendere perché facciamo ciò che facciamo e di cosa abbiamo realmente bisogno.
Un altro gruppo di titoli combina teatro e musica. Allora nominiamo: Abebech-Fiore che sboccia fiore che sboccia, spettacolo di Saba Anglana, cantante italo-somala, dedicato al sacro nella cultura d’Etiopia, con un personaggio meraviglioso di nonna sullo sfondo; Personale Politico Pentothal che vede in scena Marta Dalla Via, accompagnata dal vivo da cinque rapper; The black’s tales tour di Licia Lanera, al dancing neo-liberty Le Roi Music Hall, la cui architettura, particolare e suggestiva venne progettata nel ’59 dal famosissimo architetto Carlo Mollino.
Infine l’ultima famiglia tematica, che raccoglie tra gli spettacoli del cartellone quelli che presentano interessanti legami con il cinema. Tra questi: Roberta va sulla luna, Ifigenia in Cardiff, con le regia di Valter Malosti, Pixelated Revolution, So little time, Elephant woman, Zoo(m)out, ed infine il lavoro dei fratelli De Serio, Stanze/Qolalka, pronto ad anticipare il nuovo triennio dedicato alle diaspore. Un altro percorso che si completa al Festival è quello di Elvira Frosini e Daniele Timpano. I due presentano Acqua di colonia che affronta il tema del colonialismo italiano. Da non dimenticare, ovviamente, i molti giovani artisti, in relazione ai quali menzioniamo: Diario di una casalinga serba, tratto dal romanzo omonimo di Mirjana Bobic Mojsilovic, L’inquilino, Human animal, Educazione sentimentale. Un cenno finale naturalmente va alla drammaturga prescelta: Sasha Marianna Salzmann, la quale porta in scena Lingua Madre Mameloschn, il cui spettacolo fa parte del progetto Fabulamundi.Playwriting Europe della Pav di Roma ed è coprodotto dallo Stabile di Genova.

Ma il festival non si riduce al cartellone. Al contrario, porta con sé interessanti appuntamenti, approfondimenti ed esposizioni, che arricchiscono e coronano l’appuntamento torinese. Prosegue il progetto “Mezz’ora con..” a cura di Laura Bevione, che consiste in incontri con gli artisti del Festival (e non solo), al quale si aggiungono “Un teatro pieno di interrogativi”, tre incontri per ricordare il Convegno di Ivrea, che nel giugno 1967 radunò alcuni protagonisti del cambiamento teatrale allora in atto e “Cinema in scena” in collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema, che prevede, come ogni anno, proiezioni abbinate agli spettacoli in cartellone. Non solo. Ritorna l’appuntamento con gli allievi del corso di laurea in Dams che raccontano attraverso il loro blog (teatrodamstorino.it) la realtà del festival tramite interviste agli artisti, presentazioni, approfondimenti e recensioni degli spettacoli, e Tipstheater, una piattaforma web ideata da Valentina Passalacqua, Giulia Menegatti e Chiara Lombardo dedicata a spettatori, compagnie teatrali, organizzatori.

Per concludere, e a voler sottolineare la forte transculturalità che permea il Festival e che quest’ultimo a sua volta effonde e restituisce, uso l’espressione inglese “last but not least”, per parlare della complicità necessaria e vitale dello spettatore, al quale si richiede, come ogni anno, curiosità e partecipazione. Per i più affamati e impazienti segnaliamo allora le due settimane speciali (20/4-3/5) durante le quali i biglietti possono essere comprati online a prezzi scontatissimi. In alternativa i punti vendita dal 20 aprile sono il Teatro Astra, Rivendite vivaticket, infopiemonte-Torinocultura, vendita serale (online: www.vivaticket.it).
Vi aspettiamo!

@Contatti (per info e abbonamenti):+3901119740291; +393462195112; +info@festivaldellecolline.it
@Luoghi: Le Roi Music Hall (Via Stradella 8), Scuola Holden (Piazza Borgo Dora 49), Polo del ‘900 (Corso Valdocco ang. Via del Carmine), Pratici e Vaporosi (Via Donizetti 13), Ristorante Marechiaro (Via San Francesco d’Assisi 21), Teatro Astra, Teatro Gobetti, Teatro Marcidofilm!, Serming- Arsenale della Pace (piazza Borgo Dora 61), Casa Teatro Ragazzi e Giovani (Coso Galileo Ferraris 266), Cinema Massimo, Le Petit Hotel.
@Sponsor e collaboratori: Regione Piemonte, Città Di Torino, Compagnia Di San Paolo, Teatro Stabile Torino-Teatro Nazionale, Fondazione Piemonte dal Vivo, Fondazione Crt..
@Media partner: La Repubblica, RaiRadio3, Torinosette, TrovaFestival, klpteatro.it, Radioenergy.

“MINETTI: LA FOLLIA NELL’ARTE”

Lo scorso martedì 4 Aprile ha debuttato al Teatro Carignano “Minetti”, un testo di Thomas Bernhard, con Roberto Herlitzka, in scena per la stagione teatrale 2016/2017 del Teatro Stabile di Torino.

Il testo è quasi un lungo monologo, inframmezzato solo da qualche battuta di alcuni personaggi che compaiono all’interno dell’albergo dove è ambientata la storia.
Siamo ad Ostenda, città sulla costa del Belgio, durante la notte di San Silvestro. Giunge in albergo un anziano signore con una pesante valigia da cui non si separa mai, Minetti, che annuncia di avere appuntamento con il direttore del teatro per portare in scena, dopo trent’anni di inattività, il Re Lear di Shakespeare.
Durante l’attesa, così prolungata da infondere il dubbio che in realtà l’incontro sia frutto dell’immaginazione dell’attore, Minetti racconta della sua vita e riflette sul teatro e sul mestiere di attore. Un personaggio che porta con sé la tristezza per essere stato esiliato dalla città dove era direttore del teatro, per essersi negato alla letteratura classica e che per trent’anni, nella soffitta della sorella, non ha fatto altro che ripetere il Re Lear di Shakespeare con la maschera che aveva creato per lui il celebre Ensor.

Per misurarsi con un personaggio così definito e per interpretare un testo tanto forte e complesso, ci vuole sicuramente una certa capacità e esperienza, attributi che chiaramente l’attore protagonista Roberto Herlitzka può vantare. Con grande intelligenza Herlitzka riesce a rendere il personaggio ironico nella sua follia, nonostante la drammaticità di una vita vissuta  esiliato dalla società. Molto dinamico in scena, non lascia mai l’occhio dello spettatore fisso in un punto e, comunicando con tutto il corpo, rende chiaro il messaggio e mantiene alta l’attenzione verso un testo che richiede per sua natura di essere seguito parola per parola.
Grazie ad un approccio intimo al personaggio, coinvolge lo spettatore a tal punto da indurlo a riflettere sulle questioni da lui affrontate. Questo aspetto viene sottolineato anche da alcune battute registrate con voce soffiata, che sembrano quasi svelare al pubblico le riflessioni personali di Minetti sull’arte.

Il protagonista si confronta principalmente con due personaggi, la cui presenza è per lui il pretesto per esporre le proprie idee: il primo è una signora, ospite ogni anno dell’albergo per passare il Capodanno sola con una maschera da scimmia e qualche bottiglia di champagne. Può essere vista come l’alter ego di Minetti, poiché entrambi vivono in una triste solitudine e sentono il bisogno di “recitare”  una parte nascosti dietro una maschera.
Il secondo personaggio è quello di una ragazza giovanissima che aspetta il fidanzato per andare a una festa mentre ascolta musica da una radiolina. Un po’ timida, scambia qualche parola con Minetti provando forse nei suoi confronti una certa tenerezza. Essa è chiaramente un contrasto con la sua situazione, è una giovane donna che ha ancora tutta la vita davanti e alla quale l’attore augura di non commettere errori.

La vicenda è interrotta qua e là da figure mascherate che entrano ed escono dall’albergo: si muovono lentamente, hanno maschere inquietanti e la loro presenza determina una situazione surreale che contrasta con il tono ironico e grottesco del racconto di Minetti. Si tratta di figure allusive che sembrano quasi uscire dalla mente del protagonista, come fantasmi del suo passato, delle sue paure e dei tormenti che alimentano la sua follia.

La scenografia ha un tratto naturalistico ed è ben curata in ogni dettaglio, come anche la musica e i vari suoni, ad esempio quello esterno del mare o quello dell’ascensore all’interno dell’albergo.
Le luci cambiano repentinamente a seconda dei momenti dello spettacolo per sottolineare ora l’introspezione del racconto, ora l’atmosfera quasi onirica dovuta alla presenza dei personaggi mascherati.

Importante è il ruolo delle maschere: quella della signora, quella di Re Lear di Ensor dalla quale Minetti non si separa mai e quelle indossate da chi festeggia San Silvestro. Maschera come rifugio dalla realtà e come unica possibilità per essere liberi.

Proprio perché la scenografia è così naturalistica, risulta forse un po’ stridente il finale, che secondo il testo dovrebbe essere ambientato all’esterno su una panchina mentre la neve cade su Minetti. In questo caso, il fondo della scenografia cambia, ma il contesto dell’albergo, così visivamente ben curato, rimane.
Inoltre, gli attori erano muniti di microfono, aspetto che può lasciare perplessi, perché una delle caratteristiche del teatro è per esempio poter notare negli attori un cambio di tonalità vocale a seconda della posizione del corpo nello spazio.
In ogni caso la recitazione del protagonista è riuscita a catturare con molto efficacia l’attenzione del pubblico, sia per la sua dinamicità, sia per l’ironia con cui si è approcciato al personaggio.

Un testo che parla della vita, della società, dell’arte e che vede nell’attore colui che è in grado di vivere fino in fondo tutte le emozioni e perciò anche la frustrazione che porta inevitabilmente alla follia. Come afferma lo stesso Minetti, l’arte è “orrenda” e l’attore è “mostruoso” poiché è l’unico in grado di portare di fronte al pubblico la dura realtà. Ma proprio perché non viene compreso dalla società, l’attore è destinato a fallire sia nell’arte che nell’esistenza.

di Alice Del Mutolo

di Thomas Bernhard
traduzione Umberto Gandini
con Roberto Herlitzka
e con Pierluigi Corallo, Verdiana Costanzo, Matteo Francomano, Roberta Sferzi, Vincenzo Pasquariello
regia Roberto Andò
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Gianni Carluccio, Daniela Cernigliaro
suono Hubert Westkemper
Teatro Biondo Palermo

CASA DI BAMBOLA: UNA NORA HELMER LIBERA E VOLONTARIA

il 21 marzo ha debuttato al Teatro Carignano di Torino  Casa di Bambola, celeberrimo testo teatrale di Henrik Ibsen, del 1879. A calcare il palcoscenico Filippo Timi e Marina Rocco, che hanno simbolicamente ritratto in scena l’ipocrisia borghese, la critica ibseniana verso quella società ma anche i ruoli diversi dell’uomo e della donna nell’ambito del matrimonio in epoca vittoriana.

Per comprendere Casa di Bambola forse è utile conoscere la psicologia dei suoi personaggi, la morale del testo ibseniano,  il ricorso di Ibsen ai simboli, che esprimono una visione del mondo, dell’uomo e della vita. Nora è la giovane moglie dell’avvocato Torvald Helmer. I loro tre figli vengono allevati dalla bambinaia, come di consueto negli ambienti borghesi dell’epoca. Le sue giornate trascorrono tra frivolezze di ogni genere. Suo marito la ama, la coccola, le proibisce di mangiare dolci come si farebbe con una bambina, ma non le fa mancare abiti e feste da ballo. In passato, per curare il marito malato, ha contratto un debito con un tal Krogstad, falsificando la firma del padre per ottenere soldi in prestito. Nora tenta di ricoprire il ruolo della donna accanto a quello maschile del “rendimento dei conti”.

Torvald Helmer ha ottenuto il ruolo di direttore nella banca in cui lavora, ha maggiore potere sugli altri, e a Nora questo piace, ma è tormentato dall’idea di perdere la propria reputazione e per questo non ammette che la moglie ficchi il naso nelle faccende che
non le competono: la sua piccola allodola, come lui la chiama continuamente – nel testo più che in questa rappresentazione – non dovrebbe avere influenza sulle sue decisioni, anche se di fatto Nora lo supplica di non licenziare Krogstad, che lavora nella sua stessa banca.
Insidiato dal licenziamento, Krogstad minaccia Nora di rivelare tutto a Torvald. Venuto a conoscenza del fatto, Torvald non riconosce nel gesto di Nora un atto d’amore per lui ed è deciso ad allontanare dalla cura dei figli quella che egli considera una moglie bugiarda e madre indegna, salvo poi perdonarla quando il ricatto che minaccia la famiglia viene annullato e il timore dello scandalo svanisce.
Il comportamento vigliacco di Torvald delude profondamente Nora
che spinta da pulsioni vitali inarrestabili non sarà disposta ad essere ancora, come da bambina, una bambola nelle mani
degli uomini intorno a lei.

Per un testo che è stato considerato un forte esempio di femminismo, Filippo Timi ha deciso di “farsi in tre”, interpretando i tre personaggi maschili principali, probabilmente, come ha affermato la regista Andrée Ruth Shammah

“Per riequilibrare una storia che se la leggi senza pregiudizi non parla di una moglie che sfugge alle grinfie del marito, ma della relazione uomo- donna arrivando al cuore più profondo, là dove
tutto è meno innocuo e veniale, le donne più ambigue, violente, gli uomini meno semplici, forse più femminili”.

La scenografia vuole riprodurre il modello di spazio borghese ibseniano, un ambiente artificialmente sereno che piegherà sul noir.
Le tinte del rosa – delle pareti e del vestito di Nora – e del verde – della tovaglia di velluto e delle sedie – sottolineano il gusto di Nora nel curare i particolari della casa e del suo aspetto. Lo spazio scenico risulta accogliente anche grazie alle luci calde che,  progressivamente, si snodano in una freddezza glaciale.

L’inattesa rottura delle normali convenzioni della finzione teatrale sorprende il pubblico e produce un diffuso umorismo. La rottura della quarta parete crea un effetto brillante che al pubblico piace, come la scena dove il terzo escluso Dottor Rank ringrazia dopo aver cantato con romantica malinconia My Funny Valentine.

Alessandra Pisconti

21 marzo 2017, Teatro Carignano Continua la lettura di CASA DI BAMBOLA: UNA NORA HELMER LIBERA E VOLONTARIA

Tra ozio e noia c’è spazio per l’amore

Leonce und Lena Anplagghed

Sala buia illuminata da poche luci, pareti totalmente nere, una sedia e una porta al centro del palco. Questa è la scenografia di Leonce und Lena Anplagghed , spettacolo che racconta la vicenda di due giovani che decidono di fuggire dal proprio regno per scappare al matrimonio impostogli dalla famiglia.

Leonce, il principe del regno di Popo, è un ragazzo estremamente annoiato dalla vita e per questo non sa come gestire le proprie azioni. La sua unica occupazione è quella di oziare tutto il giorno. Per caso, un giorno incontra un ragazzo di nome Valerio; una persona semplice che vorrebbe poter dedicarsi a tutto quello che lo aggrada. Valerio è l’esatto opposto di Leonce, ma nonostante questo diventano amici e introducono il discorso della morte, che sarà poi il tema principale dello spettacolo. Nonostante l’opera sia ottocentesca (l’autore è Buchner) i protagonisti riescono a coinciliare alla perfezione il passato e il presente inserendo nello spettacolo alcuni elementi dei nostri giorni spezzando momentaneamente il filo logico della vicenda. Elementi come il telefonino utilizzato dalla consigliera del Re di Popo, le canzoni cantate che risalgono a qualche anno fa e ai discorsi di Valerio su Raffaella Carrà, i pokemon e sulla filastrocca molto famosa che recita “C’era una volta un re seduto su un sofà che disse alla sua serva raccontami una storia. La serva incominciò” e che si ripete all’infinito. E’ proprio durante uno di questi discorsi che viene annunciato a Leonce l’imminente matrimonio, che riporterà la scena da chiave ironica a nuovamente seria. Il principe non è intenzionato a sposare la giovane e misteriosa principessa Lena che ricorda nella peggiore delle sue forme con gli occhi enormi ad occupare quasi tutto il viso e dei solchi al posto delle fossette intorno alla bocca. Valerio decide che l’unica possibilità per impedire il matrimonio è che Leonce scappi lontano e così i due decidono di intraprendere un viaggio verso l’Italia.

La seconda scena si svolge nel regno di Pipi dove anche la principessa Lena è consapevole che da lì a qualche ora sarebbe diventata la sposa di uno sconosciuto e anch’essa si rifiuta categoricamente di assecondare il matrimonio e di soffocare così la propria libertà e decide di scappare con la propria governante in un posto lontano.

La terza scena ha luogo all’interno di una locanda dove entrambi i principi decidono di passare la notte. Leonce, a detta sua troppo impegnato a non fare nulla per dedicarsi all’amore, viene colpito da Lena dopo che quest’ultima ha continuato con una vena malinconica e con allusioni alla morte il discorso del principe sul destino dell’umanità. Nasce così da parte sua un interesse per questa donna così affine a lui e il sentimento è palesemente ricambiato. Leonce si confida con l’amico Valerio che decide di presentare i due innamorati al regno di Popo sotto forma di due automi, rappresentati dai due attori grazie a delle maschere di cartapesta, per essere sposati dal Re.

Il Re, apparso un paio di volte all’interno dello spettacolo ha fatto sorridere il pubblico con la sua ironia, riuscendo a distogliere lo sguardo dalla vena malinconica di alcune situazioni. Nonostante il sovrano sia un po’ sbadato, appare molto serio nel proprio lavoro e intende mantenere la promessa che aveva fatto ai suoi sudditi di celebrare il matrimonio tra il principe Leonce e la principessa Lena. Grazie alla richiesta di Valerio si presenta la possibilità per il Re di mantenere la parola data e quindi decide di sposare i due giovani automi come se fossero realmente Leonce e Lena. Una volta celebrato il matrimonio gli sposi si levano cautamente la maschera e il Re riconosce prima il principe e poi meravigliato anche la principessa Lena e così anche i due ragazzi a loro volta si riconoscono e non si vedono più con disprezzo, ma come due persone che hanno imparato a conoscersi ed amarsi. Insieme decidono di vivere a Capri e di allontanarsi dalla vecchia vita,di distruggere tutti gli orologi e contare il tempo che passa attraverso le stagioni e la natura,di circondarsi di specchi ustori per far in modo che non ci sia mai il freddo,di costruire un teatro per divertirsi e di avere una comoda religione. Valerio inoltre dichiara che chi vuole darsi da fare nella società verrà dichiarato pazzo e il lavoro illegale. Esisterà solo l’ozio.

La scenografia è spoglia ma essenziale. La porta che si trova al centro del palco è appoggiata su una tavola di legno con le rotelle così da potersi muovere con semplicità, caratteristica molto utile per gli attori. Inizialmente infatti viene affisso un cartello per far capire che la scena si svolge nel regno di Popo. Successivamente ne vengono appesi altri sopra quello per trasportare il pubblico ,in ordine, nel regno di Pipi, nel vasto mondo, in una locanda e in fine di nuovo nel regno di Popo. Tutta la storia è accompagnata dalla musica suonata dal vivo poichè in un angolino, a lato del palco , seduta su una sedia quasi a sembrare anche lei una spettatrice, una ragazza tiene in mano una chitarra e all’occasione suona qualche melodia o canzone che viene poi interpretata dagli attori. Un’altra caratteristica , che il pubblico ha apprezzato particolarmente, è lo scambio di battute con gli spettatori. Il teatro è piccolo ed è forse grazie a questo che gli attori sono riusciti a creare un rapporto molto intimo con le persone presenti. Con maestria e anche un tocco di furbizia gli attori riescono a creare un bellissimo rapporto con il pubblico ed ad affrontare la grande importanza del testo di Georg Buchner con simpatia e leggerezza facendo riflettere e allo stesso tempo strappando un sorriso a tutti i presenti.

Ilaria Lavia

 

10 marzo 2017, Teatro bellARTE

commedia rivisitata di Georg Buchner, Leonce und Lena – Ein Lustspiel (1836)

Regia Angelo Maria Tronca

Aiuto Regia Salvatore Agli | Dramaturg Marco Lorenzi

con Cecilia Bozzolini, Valeria Camici, Angelo Tronca, Nicola Marchitiello e Marcello Spinetta

La sacralità della vita nel teatro civile. Pasolini e la morte: un rito culturale

“È teatro sociale”, esclama Mauro Avogadro, uno degli attori dello spettacolo Pasolini e la morte: un rito culturale, dopo il debutto al Teatro Baretti di Torino, mercoledì 15 Marzo scorso.

Con una sigaretta in bocca, il sorriso di chi è stanco ma soddisfatto, scambia qualche parola con me e altri curiosi che vogliono sentire qualcosa in più su uno spettacolo che ha lasciato a tutti qualcosa su cui riflettere. “Non esiste più” continua Avogadro, “ma io credo che sia essenziale. I greci hanno iniziato a fare teatro per questo. Io in questo spettacolo inizio a parlare con calma, perché gli argomenti sono importanti e non voglio spaventare lo spettatore. Poi cerco di evocare qualcosa su cui riflettere tutti insieme”. Ed è questo che lui e i suoi due colleghi hanno fatto, con l’aiuto di una troupe fantastica. Ma facciamo adesso un passo indietro.

Mauro Avogadro

Il Teatro Baretti è intimo, raccolto, un luogo dove la magia del teatro non fa fatica a materializzarsi. Questa volta però, gli spettatori entrando non si trovano di fronte a un sipario chiuso, curiosi di sapere cosa nasconda. Il sipario è aperto, gli attori sono già sulla scena e camminano immersi nei loro pensieri, mentre il resto dei collaboratori sistema le ultime cose. La quarta parete viene quindi abbattuta, noi sappiamo che quelli sono gli attori che, attraverso le loro parole, ci faranno intraprendere un viaggio in cui lo spettatore non potrà essere passivo e coccolato, e sedendoci non possiamo far altro che accettare la sfida.

Quando le luci si abbassano, gli attori attirano la nostra attenzione con le loro bellissime voci e subito comprendiamo che la storia è semplice: un regista (Mauro Avogadro) vuole girare un documentario su Pasolini. Egli stesso interpreterà lo scrittore che risponde alle domande di un giornalista (Gianluca Gambino), che sembra incarnare un po’ l’idea dell’”uomo medio” tanto odiato da Pasolini e bersaglio di Orson Welles ne La ricotta, mentre Lorenzo Fontana interpreta Pasolini durante alcuni momenti di stasi della narrazione.

Lo svolgimento e i temi dello spettacolo però sono tutto tranne che scontati: partendo dall’ipotesi che Pasolini sia stato coscientemente regista del film della sua vita, viene ripercorso sinteticamente il montaggio di esso, attraverso stralci di un intervista lasciata a Duflot e alcune sue poesie. Del resto, come mi suggerirà più tardi Avogadro “si parla solo della morte di Pasolini e del mistero attorno ad essa. Ma è importante parlare dell’uomo che è stato, perché quello che ha scritto è incredibilmente attuale”.

Ma andiamo con ordine: gli argomenti toccati dall’intervista sono molti ed eterogenei. Il giornalista e Pasolini sono seduti su due sedie bianche, che contrastano con il nero dello sfondo e dell’impalcatura. Su quest’ultima si muove l’alter-ego di Pasolini, al quale è affidata la declamazione delle poesie, accompagnate da proiezioni di immagini o di fotogrammi dei suoi film. In particolare questi momenti creano un’atmosfera sospesa, grazie anche all’uso della musica e, mentre la voce profonda e ferma di Avogadro sembra dare vita ai pensieri più profondi di Pasolini, la voce sottile e drammatica di Fontana recita le poesie con un dolore, una sofferenza e una consapevolezza che presagiscono già il terribile epilogo da tutti conosciuto.

Pasolini

Uno dei primi temi trattati è quello della sacralità della vita, molto caro a Pasolini: egli affermava infatti che tutto è santo, ma la santità è al tempo stesso una maledizione. Diceva di avere nostalgia del sacro perché rimaneva legato agli antichi valori, tanto che sperava che venisse costruita una democrazia senza cancellare il sentimento del sacro.

Successivamente viene trattato un argomento attuale più che mai, l’immigrazione, parlando di un’integrazione necessaria alla convivenza nelle città, perché se si accetta il “colore” di quelli che vogliono entrare con “innocente ferocia” nella nostra società, potremo arricchirci grazie alla loro “sacra tribalità” e così raggiungere un effettivo progresso.

Purtroppo però Pasolini si era già reso conto che non solo essi spesso vogliono occidentalizzarsi e non mantenere la loro cultura, ma anche che la maggioranza degli italiani è diventata di una “intolleranza violenta”, persone che non vogliono ricordare la povertà che li aveva caratterizzati.

Memorabile e commovente è stato sicuramente il momento in cui è stata proietta una parte de La ricotta, ovvero quella della citazione figurativa della Deposizione di Pontormo (1526-28).

In questa occasione l’intervistatore chiede a Pasolini della sua misoginia ed egli risponde di non essere affatto misogino, ma di “raffaellizzare le donne, di voler donare loro una forte aura di sacralità”.

Questo in particolare è stato un momento in cui il pubblico ha tenuto il fiato sospeso e si è ritrovato a riflettere su tutte le tematiche che lo spettacolo ha tirato fuori e che sono in realtà insite in ognuno di noi, solo che a volte serve un po’ d’aiuto per ragionare sulla realtà.

ricotta_deposizione

 

A spettacolo quasi finito, in un momento di buio dominato dalla musica, Fontana-Pasolini si spoglia, rimanendo nudo in scena: questo gesto vuole forse alludere alla morte dello scrittore, interpretando la vita in maniera circolare e quindi la fine di essa come un ritorno al ventre materno. Dopo questo gesto, infatti, l’attore si rannicchia su una poltrona, coperta da un telo bianco, in posizione fetale e recita un’ultima poesia, con una certa quiete e serenità. Questa tranquillità è sottolineata dall’uso della luce calda che crea quasi un’immagine caravaggesca di un uomo che nella morte ritrova una condizione di umanità.

L’ultima battuta è affidata ad Avogadro che nel frattempo è salito sull’impalcatura per annunciare agli spettatori di sapere che “siamo tutti in pericolo”, una delle frasi dell’ultima intervista che Pasolini ha rilasciato proprio il giorno prima di morire. Sicuramente un finale che ha fatto correre a tutti un brivido lungo la schiena, anche a coloro che non conoscevano bene le vicende e i pensieri dell’intellettuale, ma hanno seguito con attenzione lo spettacolo.

Gli attori hanno mostrato in scena di aver profondamente interiorizzato la lezione di Pasolini e incontrando successivamente Avogadro dietro le quinte ne ho avuto la conferma, poiché ha rivelato di averlo da sempre amato e studiato e che sentiva fortemente l’esigenza di realizzare uno spettacolo non di Pasolini, ma su Pasolini.

Da segnalare la scenografia, essenziale ma ben costruita, che in realtà è parte integrante dello spettacolo proprio perché su alcune sezioni specifiche vengono proiettate non solo scene da film pasoliniani ma anche riprese dal vivo della performance da angolazioni invisibili allo spettatore, ricordando proprio i documentari pasoliniani; scenografie che sottolineano anche la poliedricità degli argomenti trattati. Inoltre, tramite le riprese proiettate in real-time, si è potuto sottolineare ancora di più la forte contemporaneità degli argomenti, ma anche della figura stessa di Pasolini in quanto uomo.

Le luci sono state usate in modo da sottolineare la drammaticità degli argomenti e dei momenti rappresentati.

Tutti questi elementi hanno richiamato l’attenzione di un pubblico che di certo ha avuto molto da metabolizzare ed è stato così invitato a riflettere anche sulla nostra attualità attraverso le parole di un uomo davvero contemporaneo e che rimarrà per sempre nella Storia.

di Alice Del Mutolo

 

“Pasolini e la morte: un rito culturale”

Drammaturgia di Ola Cavagna

Con Mauro Avogadro, Lorenzo Fontana, Gianluca Gambino

Regia e allestimento Ola Cavagna, Ginevra Napoleoni, Massimiliano Siccardi

Regia video live Umberto Sareaceni

Musiche a cura di Tommaso Ziliani

Luci Alberto Giolitti

Associazione Baretti

 

L’innocenza degli anziani – Schegge In

Il 18 e 19 febbraio, presso il CuboTeatro e all’interno della stagione treatrale Schegge In 2016/17, la compagnia Teatro Presente ha portato in scena Il vecchio principe, candidato al “Premio Teatro del Mundo 2013” di Buenos Aires come Miglior Spettacolo Straniero.

_1390991In un spazio scenico vuoto e circondato da pareti nere, dopo che il pubblico si è seduto, i tre attori attendono il massimi silenzio per poi presentarsi come Antoine, il Principe e il Vecchio. Questi tre attori ci racconteranno la storia de Il vecchio Principe attraverso dialoghi, un grande uso del linguaggio corporeo e pochi oggetti scenici, inseriti di volta in volta durante lo spettacolo.

Il testo si rifà al racconto Il piccolo principe ma con protagonista un anziano altrettanto bizzarro e innocente quanto il bambino che conosciamo dalla storia originale . Questo anziano ci viene presentato solo come il Vecchio ed  è ricoverato in un ospedale geriatrico. Di lui si occupa un giovane infermiere che lentamente viene addomesticato e che piano piano si lascerà trasportare dalla vivacità del Vecchio.

Antoine desiderava fare il pittore ma la sua fantasia è smisurata, al posto di cappelli vedeva serpenti che inghiottono elefanti e per questo abbandona l’idea di fare l’artista per un lavoro più concreto, ovvero l’infermiere. Sapendo della passione per l’arte e la grandissima immaginazione di Antoine, il Vecchio gli chiede di disegnargli una pecora tutta per sé. Possibilmente una pecora giovane e  felice. Antoine gli disegna una pecora che è talmente piccola da non vedersi sul foglio e il Vecchio ne è entusiasta: è proprio ciò che voleva lui.

_1390637Il Vecchio racconta di essere venuto da un pianeta tutto suo, dove poteva guardare tutti i tramonti che voleva spostando poco più in là la sedia, in cui doveva pulire i crateri dei vulcani ed estirpare le radici dei terribili baobab. Proprio mentre si dedicava al giardinaggio aveva notato la crescita di una nuova pianta, molto diversa dai baobab. Davanti agli occhi increduli del  Vecchio stava sbocciando una rosa vanitosa e bisognosa di attenzioni.  Ne rimane subito affascinato e le dedica tutto il suo tempo, attribuendole un grande valore e facendola diventare la sua rosa.
Ma questa rosa è troppo capricciosa, vuole stare al riparo sotto una teca per non prendere freddo, si lamenta di qualsiasi cosa e il Vecchio, stufo di non vederla mai contenta, decide di abbandonarla e andarsene dal suo pianeta.

Mentre il Vecchio ci racconta tutto ciò, sul palco si crea come una seconda dimensione, quella del ricordo e del suo pianeta, dove vediamo la rosa effettivamente parlargli. Intanto Antoine nella stanza dell’ospedale cerca di farlo ritornare alla ragione dicendogli che sono stati i suoi parenti a farlo ricoverare, che non arriva da nessun pianeta e di prepararsi alle visite.
A fare visita al Vecchio sono la direttrice dell’ospedale, una donna vanitosa che vuole farsi applaudire e che dà ordini a tutti – persino alle sue stesse gambe -, una parente che parla solo di affari e non ha un minuto per il Vecchio, un ubriacone che beve per dimenticare la vergogna di bere e un  lampionaio che deve accendere e spegnere il lampione di continuo.

Il Vecchio non riceve attenzioni né dai parenti né dai dottori. In realtà l’unica persona che gli è realmente vicina è Antoine. Tra loro si è creato un rapporto di abitudine e quotidianità ma anche di affetto, al Vecchio rincuora sapere che ad una certa ora Antoine verrà a dargli le medicine, che gli rifarà il letto e gli dedicherà qualche minuto del suo tempo per chiacchierare. Pur avendo questo amico, il Vecchio non smette di pensare alla sua rosa e una sera, malato e con la febbre, saluta Antoine dicendo che sta per tornare al suo pianeta.

_1390981La compagnia Teatro Presente ha portato in scena uno spettacolo che ci ricorda quanto sia importante dare attenzione alle persone care, soprattutto agli anziani che tendiamo ad allontanare quando raggiungono una certa età e tornano a comportarsi come bimbi. Il piccolo principe con leggerezza riesce a trasmettere insegnamenti importanti e questi si rispecchiano anche nel testo scritto da César Bie, che è riuscito a mantenere lo stile dell’opera originale rendendo alcuni passaggi in scena particolarmente gioiosi, anche grazie alla musica di Chango Spasiuk, ma sempre offrendoci uno spettacolo capace di far riflettere.

Andreea Hutanu
Foto di Bruno Garetto

Il vecchio principe
Testo e regia di César Brie
Con Manuela De Meo, Daniele Cavone Felicioni, Pietro Traldi
Musiche Chango Spasiuk
Costumi Anna Cavaliere
Produzione Teatro Presente / ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione
Uno spettacolo di Teatro Presente