Archivi categoria: Festival delle Colline

RADICI/UNA COSA CHE SO DI CERTO – ALBA MARIA PORTO

Femminismo, diritti e continua lotta alla ricerca di sé stessi. Un viaggio d’amore e speranza, ma anche di realtà e ingiustizia. Tutto questo è Radici/Una cosa che so di certo, l’opera originale di Alba Maria Porto che ha debuttato al ventisettesimo Festival delle Colline Torinesi mercoledì 19 ottobre alle Lavanderie a Vapore.

Lo spettacolo procede in parallelo alternando presente e passato, passando dalla storia di due ragazzi d’oggi a quella di tre donne negli anni ’70 conducendoci in un viaggio nello spazio e nel tempo. Veniamo coinvolti dai cambi di luce, dai suoni e dai costumi, ma soprattutto dai temi che portano a interrogarci su argomenti quali l’appartenenza, l’identità, la famiglia.

Un tema sul quale si insiste particolarmente è legato al rapporto tra genitori e figli. Viene rappresentato attraverso gli occhi di un uomo (Mauro Bernardi) che vede crollarsi il mondo addosso quando scopre di essere stato adottato. Il suo è un rapporto conflittuale, non si è mai sentito veramente parte di quella famiglia, riesce solo a provare odio, soprattutto nei confronti della madre. Tutta la rabbia si manifesta in un dialogo col padre, che in realtà è un monologo perché sulla scena è solo e le sue crudeli parole vengono urlate direttamente agli spettatori, come se tra i padri che compongono il pubblico ci fosse anche il suo. Il rapporto però assume sfumature diverse quando a presentarcelo è la ragazza (Lydia Giordano). Il legame con sua madre è di amore puro, tanto forte che nel momento della sua morte lei si sente persa, bloccata nella casa d’infanzia, circondata da un cimitero di vecchi oggetti dai quali non riesce a staccarsi, ma più in generale si sente intrappolata in una vita che non è certa di volere. Non sa a chi rivolgersi; il padre è una figura assente, la cui presenza arrecherebbe solo maggiore confusione.

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DANZA CIECA – VIRGILIO SIENI

Un incontro tra corpi complici

Tante sedioline, una accanto all’altra, delimitano uno spazio nel quale il pubblico viene subito inghiottito. Prendiamo posto. A disegnare l’ultimo segmento di questo cerchio sono Virgilio Sieni e il danzatore non vedente Giuseppe Comuniello: seduti con la schiena appoggiata al muro, ci osservano. Al centro scorgiamo un tappeto bianco fatto di cartone e, su di esso, due blocchi di argilla. I due danzatori si avvicinano e iniziano ad occupare lo spazio: attraverso i loro corpi modellano l’area circostante disegnando linee curve, segmenti spezzati e forme circolari. Si sfiorano, si sostengono, si guidano, si completano, insieme danzano.

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FUNERALE ALL’ITALIANA

Funerale all’italiana mette in scena il rituale per eccellenza, uno dei pochi ad essere sopravvissuto e poi tramandato nei millenni: la cerimonia funebre. Da pagano, diviene nel corso dei secoli un rito il più delle volte religioso, assumendo differenti connotazioni culturali e territoriali.

Lo spettacolo nasce da un’idea autobiografica dell’attrice protagonista, Benedetta Parisi, che cura la drammaturgia con l’aiuto di Alice Senigallia: il lavoro prende vita nell’arco di quasi tre anni, evolvendosi a partire dagli appunti sul funerale della nonna dell’attrice. La Parisi racconta quanto sia stato fondamentale anche il lavoro svolto sull’ improvvisazione a partire dal testo, che porta ad un inevitabile suo ampliamento.

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L’ANGELO DELLA STORIA – INTERVISTA A DANIELE VILLA

Venerdì 14 ottobre, per il Festival delle Colline Torinesi, al Teatro Astra è andato in scena L’angelo della storia, l’ultima creazione del collettivo Sotterraneo. Abbiamo recensito lo spettacolo qui, e colto l’occasione per intervistare Daniele Villa, che ne firma la drammaturgia.

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ECLOGA XI – ANAGOOR

Domenica 16 ottobre 2022 la compagnia Anagoor ha portato in scena, al Teatro Astra di Torino, all’interno della programmazione del ventisettesimo Festival delle Colline Torinesi, Ecloga XI

Il lavoro è un’ omaggio alla parola, alla poesia. Un’allusione diretta, senza mezzi termini, ad Andrea Zanzotto  e alla sua opera IX Ecloghe pubblicata nel 1962, presso Arnoldo Mondadori Editore all’interno della Collana “Il Tornasole”.  Non a caso, il titolo principale è seguito dal sottotitolo “un omaggio presuntuoso alla grande ombra di Andrea Zanzotto”, richiamo alla definizione che il poeta diede delle sue composizioni “un omaggio presuntuoso alla grande ombra di Virgilio” 

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L’ANGELO DELLA STORIA – SOTTERRANEO

A spasso nel tempo, un viaggio nel paradosso

Il Festival delle Colline Torinesi, alla sua ventisettesima edizione, prova a fare i conti con la Storia, con lo spettacolo dell’affiatata compagnia fiorentina Sotterraneo, che consegna al pubblico una creazione originale a partire da una suggestione di Walter Benjamin: un angelo che vola con lo sguardo rivolto al passato, dando le spalle verso il futuro. Un angelo che vorrebbe fermarsi per riparare i disastri provocati dall’uomo, che invece è costretto a continuare la sua corsa spinto da una tempesta chiamata progresso.

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QUEER PICTURE SHOW – IRENE DIONISIO

O Il moderno Orlando

La sala dell’Off Topic, piccola ma accogliente, ha al suo interno un’atmosfera fumosa. Sulle poltrone sono poggiate delle palette verdi e il pubblico si chiede a cosa mai potranno servire durante lo spettacolo. Si parla tra sconosciuti, ci si confronta.

Si spengono le luci in sala e al centro della scena appare un unico attore (il premio Ubu Giovanni Anzaldo) che ci viene presentato come Orlando da una semplice scritta alle sue spalle. E come l’Orlando di Virginia Woolf attraverserà le epoche, i costrutti sociali, la morale e la “decenza”, accompagnando con il suo monologo anche lo spettatore.

Nella sua prima apparizione il protagonista indossa una gorgiera, ad indicare che il suo personale racconto ha inizio nell’epoca elisabettiana. La sua riflessione su quel periodo è molto interessante: durante l’epoca elisabettiana, infatti, alle donne era proibito calcare le scene. Quindi i ruoli femminili venivano sempre interpretati da uomini, spesso fanciulli molto giovani, che dovevano sembrare più femminili possibili. Come trucco di scena si utilizzava una polvere a base di piombo per rendere il viso pallido e attraente per i canoni estetici dell’epoca. Un artificio tossico che veniva utilizzato dalla stessa Elisabetta I. Se anche lei lo utilizzava per apparire più attraente e femminile c’era davvero differenza tra la regina e gli attori?

Qui nasce la prima provocazione dello spettacolo: cosa è femminile e cosa no? Come cambiano i canoni di bellezza con il passare delle epoche? E soprattutto, che cosa è socialmente accettabile e cosa no? Del resto, come dice una famosa Drag Queen “Siamo nati nudi. Il resto è Drag.”

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UNA IMAGEN INTERIOR – EL CONDE DE TORREFIEL

Ipnosi tra arte, luci e parole

La sinergia “Teatro & Arte” apre la 27° edizione del Festival delle Colline Torinesi l’11 ottobre al Teatro Astra di Torino. L’immensa tela che appare distesa sul palcoscenico, a un primo sguardo di carattere avanguardistico, sarà infatti la vera protagonista dello spettacolo spagnolo, insieme all’azione ipnotica e dominante dello schermo dei sottotitoli. È grazie a quest’ultimo elemento in particolare che lo spettatore rifletterà su una quantità smisurata di temi, tra cui i binomi sogno/realtà, finto/autentico, artificio/natura, presente/passato, vita/morte.

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CONFINI/SCONFINAMENTI – PRESENTAZIONE DELLA 27ESIMA EDIZIONE DEL FESTIVAL DELLE COLLINE

Giovedì 30 giugno, nel suggestivo contesto della Fondazione Mertz, tra grandi spazi vuoti ed opere d’arte, il Festival delle colline torinesi ha presentato il programma della sua 27esima edizione, che si svolgerà dall’11 ottobre al 6 novembre 2022. Dalla scorsa edizione infatti, il festival è diventato un vero e proprio festival d’autunno, come ha rimarcato anche il direttore artistico Sergio Ariotti, durante la conferenza di presentazione

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IL FILO DI MEZZOGIORNO – Uno spettacolo da dipanare

“- Ho quasi avuto la tentazione di dirglielo, ma non mi avrebbero creduto. – No, non si può comunicare a nessuno questa gioia piena dell’eccitazione vitale di sfidare il tempo in due, d’essere compagni nel dilatarlo, vivendolo il più intensamente possibile prima che scatti l’ora dell’ultima avventura”

(L’arte della gioia – Goliarda Sapienza)

Goliarda Sapienza: attrice, scrittrice, combattente antifascista, femminista.

Nata a Catania nel 1924 da una famiglia particolare, il padre era un famoso avvocato socialista siciliano, Peppino Sapienza, vedovo con 3 figli e la madre lombarda, Maria Giudice, anch’essa vedova con 7 figli, fu sindacalista e prima donna a dirigere la Camera del lavoro di Torino, dirigendo anche Il grido del popolo.

Queste figure così ingombranti determinarono moltissimo la vita di Goliarda, soprattutto quella della madre. Scrive Angelo Pellegrino, attore, scrittore e marito di Goliarda:

“La nobile figura di rivoluzionaria della madre la caricò però di doveri morali e ideali che aggravarono buona parte della sua vita, anche per l’amore e l’ammirazione incondizionati che Goliarda le portò sempre, nonostante il poco affetto ricevuto, che mai Goliarda le rimproverò. La sapeva donna dedita a una causa ideale che non consentiva un amore borghese verso i propri figli. […] Tutto ciò le causò una sorta di buco nero affettivo che si portò dietro per buona parte della sua vita e contro il quale cerco di combattere con tutte le sue forze fino a quando non pervenne al più grande tentativo di suicidio, quello del 1964, perchè il primo fu puramente dimostrativo, come fa dire all’analista de Il filo di mezzogiorno”.

Fu quel tentativo di suicidio che la portò ad essere ricoverata in una clinica psichiatra, destino che anni prima era toccato anche alla madre; durante quel soggiorno in clinica fu sottoposta a numerosi elettroshock. Sarà il suo compagno Citto Maselli che la porterà via a forza dalla clinica. Ma rientrata a casa Goliarda non è più la stessa, non riconosce più nulla, non ricorda più nulla di sé né di ciò che la circonda, così Citto decide di farla seguire da uno psicoterapeuta. Il filo di mezzogiorno è un romanzo autobiografico che narra la relazione che Goliarda intrecciò con il suo analista in quelle 40 sedute che tutti i giorni venivano effettuate nel salotto della sua casa di Roma a mezzogiorno.

E veniamo allo spettacolo teatrale. Come dice la stessa Ippolita di Majo che trae dal romanzo l’adattamento per lo spettacolo e affianca come assistente alla regia Mario Martone:

“Nel filo di mezzogiorno quasi tutto accade nel presente continuo del mondo interno di Goliarda, secondo un modo di raccontare e un uso della dimensione temporale che assomiglia a quella del cinema. Il luogo dell’azione è il tempo dell’analisi, un tempo fatto di mondo interno, di vivi e di morti, di fantasmi, di desideri, di emozioni segrete e alle volte indicibili. […] Sul piano della scrittura questo si traduce nella compresenza di diversi registri temporali: c’è la presente dell’analisi e quello della regressione, ma c’è anche il tempo del racconto dell’analisi al lettore, il presente della scrittura del romanzo. Nell’adattare il testo alla scena, ho immaginato che l’azione si potesse svolgere in due zone del palcoscenico che sono due ‘zone’ del mondo interno di Goliarda.”

Una è lo spazio inconscio e onirico e l’altra è il mondo esterno. Così Martone raccoglie questo input e ci restituisce sul palcoscenico due “zone” che non sono altro che il raddoppiamento speculare dello stesso luogo in rappresentanza di quel presente continuo di cui parla Ippolita di Majo. Se in quegli anni la psicanalista Luciana Niassim Momigliano definì l’analisi come “due persone che parlano in una stanza”, Martone raddoppia il concetto restituendoci 2 persone che parlano in 2 stanze. Il risultato in un primo momento è spiazzante, poi disturbante e in fine molto cerebrale e farraginoso, a tratti persino fin troppo didascalico con il suono della “rottura” del vetro/specchio che separa l’asse su cui ruota l’immagine speculare e permette ai personaggi di sconfinare liberamente in quei due mondi interiori che professionalmente e terapeuticamente avrebbero dovuto restare separati. Così anche l’analisi di sdoppia e i ruoli di paziente e medico si invertono, a tratti confondono, fino al compimento di un vero e proprio transfert e contro transfer che anziché portare a una liberazione del paziente dall’analista porta a un’insana dipendenza dell’analista verso il suo paziente.

La messa in scena perciò ha due grandi centralità. Da una parte un testo che cerca di rimanere fedele al racconto di Goliarda, ma che risulta molto lungo e faticoso, difficile da seguire nonostante l’intensa e credibile interpretazione di una splendida Donatella Finocchiaro e un altrettanto bravo Roberto De Francesco. Dall’altra parte queste due stanze gemelle, che come godessero di vita propria si muovono, avanzano, indietreggiano, si innalzano e si abbassano. Cambi di luce repentini con altrettanti rapidi cambi di abiti per sottolineare un tempo che cambia.

Ma proprio in questo cambio ci saremmo aspettati un osare maggiore, un rompere maggiormente quella linearità temporale che in realtà rimane. Perché se è vero che durante l’analisi i ricordi di Goliarda riaffiorano in maniera disordinata rispetto alla cronologia della sua vita, le sedute con il suo psicoterapeuta rimangono su un asse temporale lineare in cui vediamo chiaramente nel personaggio dello psicoterapeuta il suo arco di trasformazione cronologico che si risolve in un crescendo prima di interesse professionale e poi sempre più privato e personale verso Goliarda. La linea temporale lineare la vediamo anche in Goliarda se non in quello che racconta nei suoi dress-code. Dapprima in camicia da notte rannicchiata su di sé come un debole animaletto ferito e man mano sempre con maggiore cura e attenzione ai suoi abiti che di volta in volta, andando avanti nel processo di guarigione, verranno impreziositi da accessori a sottolineare un ritrovato tentativo di prendersi cura di sé.

Ma se la matassa da dipanare è Goliarda e le due stanze sono due zone della sua psiche, una in relazione con se stessa e l’altra in relazione con l’esterno, ci si sarebbe aspettato un maggiore spiazzamento, forse si sarebbe potuto sfruttare meglio questo “doppio” in maniera maggiormente onirica.

Sono andata a vedere lo spettacolo perché amo Goliarda Sapienza. Perché se decidi di fare uno spettacolo su di lei è perché hai avuto nella vita la fortuna di “incrociare” la sua esistenza anche solo con una frase e ne sei rimasto folgorato. Perché è questo l’effetto che fa Goliarda, lei è perturbante, sconvolgente, ti scuote dentro fin nelle viscere e ti tocca così nel profondo che la tua vita non può più essere la stessa dopo. Ma il suo capolavoro più grande resta la sua vita, fatta di grandi contraddizioni, grandi vette e terribili cadute, grandi ricchezze e feroci povertà, libertà e prigionia, misticismo e scetticismo, vitalità e oblio, ma sempre, sempre, mossa dalla passione, una passione carnale, incapace com’era di abbandonarsi totalmente all’amore a cui non era stata abituata.  

Quello che mi aspettavo di trovare quindi era uno spettacolo d’amore, uno spettacolo nato dall’amore per Goliarda che potesse suscitare nello spettatore un altrettanto reverenziale sentimento. Ma qualcosa è andato storto.

Ce lo dimostra un programma di sala che troviamo all’ingresso del teatro, 16 pagine che spiegano il progetto dello spettacolo, come se lo spettacolo da solo non fosse “sufficiente”, come se ci fosse un’inconscia consapevolezza che il “processo” che ha portato a quel risultato possa essere più interessante del prodotto finito. La promessa d’amore per Goliarda, che sicuramente traspare dalle parole di Ippolita di Majo, viene però tradita in scena.

Perché in definitiva questo è uno spettacolo sull’amore, ma è come se quelle due stanze apparentemente identiche ci raccontassero di due “amori” distinti e separati che rimangono tali anche quando sentiamo l’infrangersi di quel vetro immaginario che le separava. Da una parte abbiamo l’amore di Ippolita di Majo per Goliarda e dall’altra quella di Martone per la psicoanalisi, o meglio per la relazione psicoanalitica. Lui stesso racconta nelle note di regia un episodio personale riguardante una seduta dal suo analista e scrive che è stato forse quel ricordo che gli ha fatto scaturire l’idea di sdoppiare la stanza di Goliarda: “…non lo so, se sia stato questo episodio. Quello che so e che ho amato molto il mio analista [..] e che alla sua memoria dedico oggi questo spettacolo”.

Quindi due “amori” che vorrebbero incontrarsi e che coesistono ne Il filo di mezzogiorno forse in questo sdoppiamento restano separati, laddove il romanzo invece li amalgama in maniera struggente e poetica.

“E poi c’è una cosa che mi rassicura, una cosa che ho sperimentato molte volte nella vita: so che quelli di voi che si sono annoiati di seguire questo mio sproloquio avranno già distolto lo sguardo. Si resta sempre in pochi.”

(Lettera Aperta – Goliarda Sapienza)

Nina Margeri

di Goliarda Sapienza

adattamento Ippolita di Majo

regia Mario Martone

con Donatella Finocchiaro, Roberto De Francesco

scene Carmine Guarino

costumi Ortensia De Francesco

luci Cesare Accetta

aiuto regia Ippolita di Majo

assistente alla regia Sharon Amato

assistente scene Mauro Rea

assistente costumi e sarta Federica Del Gaudio

direttore di scena Teresa Cibelli

capo macchinista Enzo Palmieri

macchinista e attrezzista Domenico Riso

datore luci Francesco Adinolfi

fonico Paolo Vitale

elettricista Angelo Grieco

amministratrice di compagnia Chiara Cucca

foto di scena Mario Spada

Il filo di mezzogiorno è pubblicato da La nave di Teseo

Teatro di Napoli – Teatro Nazionale

Teatro Stabile di Catania

Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Teatro di Roma – Teatro Nazionale