Nella sezione Grandi ritorni del Festival delle colline, La Gioia di Pippo Delbono, un viaggio dalla depressione alla gioia s’intreccia al memorie della compagnia, che in questo viaggio sembra specchiarsi.
Piuttosto difficile, per un neofita come me, scrivere di un viaggio cui non ho saputo partecipare. Lo scrivo con grande dispiacere, scegliendo le parole con cura, perché l’invito di Pippo Delbono e della sua compagnia era autentico e sincero.
Andiamo con ordine.
La Gioia nasce nel 2018: Bobò era il fulcro dello spettacolo.
Chi era Bobò?
Il suo nome era Vincenzo Cannavacciuolo, detto Bobò. Nato sordomuto e microcefalo, metà della sua vita l’aveva passata in manicomio, ad Anversa. Nel ’95 Pippo Delbono, da sempre vicino a un teatro sociale, – il suo lavoro fa parte di quella linea di teatro sperimentale, fiorita in Italia durante gli anni ’80 (penso al Teatro della Valdoca o Dario Manfredini), che sintetizza le pratiche del Living Theatre con poetica di Eugenio Barba – lo incontra e lo porta con sé. Da allora, Bobò è stato il protagonista di tutti i suoi spettacoli.
A Febbraio, a 82 anni, Bobò muore. È questa assenza forte, presente, a dare nuovo senso e nuova forma allo spettacolo. È lo stesso Delbono, a dire all’inizio:
“Dopo Bobò rinasce lo spettacolo che è come prima e che è tutto diverso.”
Si comincia. Un clown giardiniere innaffia dei fiori finti che sono sempre di più. Il linguaggio dunque è quello dei clown, circense, l’atmosfera è onirica e come nei sogni è sconnessa: a contrappuntarla è lo stesso Delbono, ora in scena, ora dalla platea, leggendo. Un ulteriore contrappunto è dato dal fatto che, oltre ai pezzi dal vivo alcuni di Delbono pezzi sono registrati. A far andare avanti lo spettacolo sono i ricordi.
La prima storia è quella di Nelson, il barbone che innaffia i fiori. Quando l’ho conosciuto, Nelson, dice Delbono, prendeva un sacco di medicine e io non ne prendevo nessuna, ora Nelson è guarito e io prendo un sacco di medicine.
Sembra questa la chiave di lettura dello spettacolo: l’assenza di Bobò, coincide con la perdita della felicità e, pare d’intuire, anche creativa.
I binari in cui si muove questa infelicità e pazzia sono molteplici: si avverte la presenza di Lamorte di Ivan Il’ič di Tolstoj, poi le citazioni esplicite: Pirandello, Shakespeare Beckett, Totò ed Erri de Luca.
Lo spettacolo va avanti per flash: momenti narrativi intervallati a momenti onirici e deliranti di grande impatto scenico: una donna si toglie delle rose dal petto e li lancia, il tutto in un’atmosfera disco, con luce stroboscopica e musica classica. Un ragazzo disabile canta in playback Maledetta Primavera vestito da donna; un boscaiolo folle in cura dallo sciamano che diventa sciamano; un momento in cui si evocano i morti in mare, con una scena che omaggia la Venere degli stracci.
In tutto lo spettacolo si avverte la forte presenza di Bobò: prima attraverso la rievocazione di Pippo Delbono che ne rifà i gesti, poi attraverso la sua stessa voce registrata.
Il finale, di grande impatto visivo, con la scena piena di fiori, a cura del fiorista normanno Thierry Boutemy. I performer circensi, che hanno costellato lo spettacolo, girano in circolo, in un finale che sembra guardare a Fellini.
Si tratta di un lavoro sincero, che parte da un dolore autentico, che però arriva a una gioia soltanto detta e non sperimentata.
Nonostante il vuoto la tristezza sia autentica, non ne sono stato toccato non sono rimasto coinvolto e non sono riuscito a superare il cinismo che contraddistingue la nostra epoca. Credo che lo spettacolo non sia supportato da una drammaturgia sufficientemente adeguata a permettere al dolore e alla depressione di risuonare. Mi viene in mente un vecchio romanzo di Tobias Wolff, in cui, a un certo punto, Robert Frost parla dell’importanza della forma, facendo riferimento al dolore di Achille per la morte di Patroclo: il lamento di Achille attraversa i secoli e mantiene la sua intensità perché è espresso in esametri dattilici. Senza la forma sarebbe stato un, pur sincero, grido mozzo. Penso sia questo uno dei limiti di La gioia.
C’è un’altra ragione che ha ostacolato la mia calorosa partecipazione. Lo spettacolo era una festa commemorativa pensata per chi segue e ama la compagnia da tempo: per esempio, non sono riuscito ad apprezzare i suoni della voce di Bobò, non avendo avuto la fortuna di conoscerlo.
Dunque pur nei suoi limiti, mi sento di consigliarne la visione a chi ha amato Bobò e vuole partecipare a questa festa in suo onore. Ricordiamo: lo spettacolo andrà in scena al Piccolo Teatro di Milano, dal 4 al 9 Giugno.
Mercoledì 22 maggio è andata in scena al Teatro Regio la prima dell’Italiana in Algeri di Gioachino Rossini, ed è stato subito pienone, come ci si aspetta quando la serata offre un titolo così amato e popolare.
“Divenuto totalmente dipendente, conosco il tremito dell’essere, l’esitazione a sparire.”
(Michel Houellebecq)
“Vita mia, vita mia, mia antichissima vita,
mio primo voto mal richiuso,
mio primo amore infirmato,
sei dovuta ritornare.
Chi sono queste creature misteriose e imperturbabili che da una distanza di millenni contemplano la sparizione dell’antica umanità, il suicidio collettivo che ha spalancato all’uomo le porte dell’immortalità? Le gioie dell’essere umano restano loro inconoscibili, i suoi dolori e desideri quasi impercettibili, le loro notti non vibrano più di terrore né di estasi…
Il suo ultimo clone (nel nostro caso cyborg ndr) riscoprirà il fascino della sofferenza e della libertà, e il gusto della ribellione … In fondo all’abisso del nichilismo verrà così rivelata l’ultima verità e speranza: …
… in cui tutto è facile,
in cui tutto è dato nell’attimo;
esiste in mezzo al tempo
la possibilità di un’isola.”
Queste parole che potrebbero in maniera incredibilmente appropriate riferirsi allo spettacolo D.A.K.I.N.I. in realtà si riferiscono a un romanzo di Michel Houellebecq: “La possibilità di un’isola”.
Mi sono chiesta cosa esattamente mi avesse colpito di D.A.K.I.N.I. tanto da rievocare nella mia memoria le parole esatte di un romanzo che avevo letto oltre 10 anni prima e la risposta è proprio: la memoria, o meglio l’importanza che si dà alla memoria. Infatti, in entrambi i casi vengono descritti scenari apocalittici di un futuro lontano e fanta-scientifico nei quali l’unica cosa che può ancora renderci umani è la sopravvivenza di una memoria personale e collettiva non solo per la costruzione di un’identità ma per la sopravvivenza stessa dell’identità. La sopravvivenza di una memoria ancora prima che di un corpo, indica la necessità di un’umanità data da una coscienza ancora prima che da una genetica. Può una coscienza “re-(e)sistere” a prescindere da un corpo? In apparenza, lo spettacolo portando alle estreme conseguenze l’alienazione dal corpo, sembrerebbe rispondere di sì.
Questo dualismo soggetto-oggetto vede contrapposti i due aspetti di coscienza e corpo come entità separate a cui il pensiero filosofico spesso si vede costretto ad affermare il primato dell’uno sull’altro. Più spesso, come in questo caso, il primato della coscienza sul corpo.
Lo spettacolo D.A.K.I.N.I. racconta di una società ormai esclusivamente maschile che ha sostituito le donne con cyborg, Intelligenze Artificiali, a cui periodicamente viene cancellata la memoria per evitare che possa insorgere in loro, attraverso la rimembranza delle esperienze, la coscienza di un’identità.
Per raccontare il primato della coscienza sul corpo si fa ricorso alla danza, linguaggio che ha come statuto ontologico stesso il corpo dichiarando sin dall’inizio il desiderio di partire dal corpo per arrivare alla sua “smaterializzazione”. È nella qualità dei corpi che si manifesta il linguaggio della danza. Così un corpo per terra trascinato via come fosse un involucro vuoto, una bambola di lattice, ci introduce subito, proprio per quell’incredibile qualità che manifesta, nella dimensione della danza a prescindere dalla componente musicale o ritmica. Anche nell’immobilità le caratteristiche di quei corpi, attraverso per esempio la tensione dei muscoli che definiscono un fisico asciutto e scolpito, raccontano la permanenza della danza impressa nella carne.
La musica in questo spettacolo è spesso sostituita da suoni ed elementi che evocano scenari cibernetici, o da voci alterate, dal timbro grave, ricavato come conseguenza di un lavoro sul corpo più che da modificatori sintetici come ci aspetteremo in un contesto del genere. La musica viene spesso utilizzata per rievocare un passato che non sembra esistere più ma che, con la riacquisizione della memoria, riemerge per definire atmosfere e stati d’animo.
Lo spazio è completamente vuoto, un grande schermo bianco riempie tutta la parete di fondo, anche questo metafora di una memoria vuota sul quale sarà necessario far scorrere i filmati del passato per ricostruire la coscienza di cui abbiamo parlato. Solo in proscenio in prossimità degli spettatori vediamo un isolotto tecnologico delimitato da led all’interno del quale due figure androgine, attraverso l’utilizzo di computer, mixer, videoproiettori e microfoni, orchestrano l’intero spettacolo. Luogo della regia di questa umanità maschile, posto sotto gli occhi degli spettatori, che dirige simulacri con fattezze femminili per e a suo piacimento. Eppure il vero luogo dove accadono le cose è e rimane per tutto lo spettacolo il corpo. Il corpo che frapponendosi tra i proiettore e il telo bianco del fondo, diventa schermo su cui proiettare le immagini, su cui innestare luci e parti cibernetiche, il corpo che privato di una sua coscienza diventa oggetto per riacquisire con la memoria, attraverso un percorso di coraggio e ribellione, la propria soggettività.
In questo senso e con questo senso danzatrici donne danzano e narrano i soprusi di un maschile che incombe come ombra minacciosa e silenziosa, presente solo nelle cicatrici che lascia sui corpi, deturpati e annienti, involucri apparentemente vuoti privati della propria identità/memoria. Il nome D.A.I.K.I.N.I. è fortemente e volutamente evocativo. Dakini sono nella tradizione indiana figure femminili, ancelle di Kali, che si nutrono di carne umana, spiriti matrigni carnefici dei propri figli e dei propri uomini. Ma sono anche secondo la traduzione buddista tibetana “le Danzatrici del Cielo” traducendo in maniera più poetica la parola “khandro“, che letteralmente significa “colei che va in cielo”, o “colei che si muove nel cielo”. Colei che danza nel cielo, quindi, che è libera, libera grazie all’aver superato gli ostacoli e i limiti della mente comune. La parola Dakini che nello spettacolo si riferisce a un cyborg specifico in realtà è plurale, una pluralità di Dee, una pluralità di forme della Dakini che sono diverse fra loro come possono esserlo le singole fiamme dell’unico fuoco.
D.A.K.I.N.I. è dunque metafora posta ad indicare tutte le donne o se vogliamo il femminile in generale. Questo però è uno spettacolo di genere che vuole andare oltre il genere dimostrando come labili siano oggi i confini delle categorie che siamo abituati a conoscere. Il cyborg infatti è una creatura che vive in un mondo post-genere in cui natura e cultura sono rimodellate, le distinzioni tra naturale e artificiale, corpo e mente, maschile e femminile, autosviluppo e creazione e altre ancora che permettevano di distinguere gli organismi dalle macchine, sono divenute molto vaghe.
Secondo la studiosa statunitense Donna Haraway, capo-scuola della Teoria cyborg come branca del pensiero femminista che studia il rapporto tra scienza e identità di genere, la cultura occidentale è sempre stata caratterizzata da una struttura binaria che non è simmetrica, ma che è basata sul predominio di un elemento sull’altro. Come già anticipato in precedenza parlando della dualità tra soggetto-oggetto, nella tradizione occidentale sono esistiti persistenti dualismi che, come sostiene Haraway:
sono stati tutti funzionali alle logiche e alle pratiche del dominio sulle donne, sulla gente di colore, sulla natura, sui lavoratori, sugli animali: dal dominio cioè di chiunque fosse costruito come altro col compito di rispecchiare il sé.
Haraway introduce quindi la figura del cyborg, che da invenzione fantascientifica diventa anche questa metafora della condizione umana. Di fronte a questa nuova realtà utopica, che potrà essere resa possibile dai crescenti progressi della tecnologia informatica, i concetti tradizionali di classe, razza, sesso, genere, corpo, identità, sono destinati a sparire.
Eppure già nel 1942 lo stesso Merleau-Ponty intravedeva una tesi anti-dualistica, cominciando a proporre il superamento dei dualismi almeno nella relazione soggetto-oggetto, individuando il corpo umano come luogo della relazione unitaria tra corpo e mente. Aprirsi al mondo partendo da un corpo significa guardarlo da una prospettiva situata in uno spazio e in un tempo.
Ma nello spettacolo che elimina la prospettiva spazio-temporale probabilmente l’unica via possibile che rimaneva al corpo era proprio quella del cyborg, corpo su cui sono stati impiantiti elementi artificiali che ne hanno potenziato il funzionamento facendolo diventare un super-corpo al quale non rimane che ricondurre un super-io, che secondo la teoria psicoanalitica rappresenta il censore che giudica gli atti e i desideri di ogni essere umano.
Il super-io, come è noto, porta alla frantumazione dell’Io ed alla sua successiva modificazione, in quanto vengono da esso assimilati modelli derivanti da imposizioni altrui. Il cyborg/donna/super-corpo dal super-io viene di fatto costruita a posta per ricevere imposizioni dall’unico embrione di umanità rimasta quella maschile. Inoltre la danza, e più in generale lo spettacolo dal vivo, sono stati oggetto di una retorica dell’effimero portata a formulare un’ontologia dell’impermanenza e della sparizione che è come vedremo il punto di arrivo dello stesso spettacolo.
D.A.K.I.N.I. e le sue sodali creano un nuovo modo di muoversi e interconnettersi con il Tutto, la smaterializzazione dei corpi, un movimento di particelle libero nello spazio e nel tempo.
Così si conclude la nota allo spettacolo che viene distribuita prima dell’ingresso in sala.
Rifacendosi nuovamente al significato della parola dakini intesa come il nome delle divinità buddiste tibetane, in termini più generali dakini viene indicato quale principio femminile come sottile flusso di energia che attraversa tutto il mondo fenomenico e quindi in primo luogo la natura. Ecco la smaterializzazione dei corpi per interconnettersi al Tutto.
Questa solidarietà tra cyborg/donne risvegliate da una coscienza ritrovata che decidono di rinunciare ai loro corpi, sembra richiamare nuovamente Haraway quando dichiara che chiamarsi femminista e voler affermare il proprio femminismo è divenuto difficile, perché nominarsi significa anche escludere e le identità sembrano essere contraddittorie e parziali. Di fronte alla crisi dell’identità politica della sinistra e del movimento femminista, un passo in avanti può essere costituito dalla rinuncia a ricercare una unione basata sull’identità in favore di una coalizione basata sull’affinità.
Questa affinità, sun pathos, di cui parla Haraway vede la sua realizzazione nella smaterializzazione di quel corpo che avevamo riabilitato, attraverso il superamento dualistico soggetto-oggetto, a rappresentare l’identità a favore di un interconnessione con il Tutto.
Proprio perché è stato il mio primo spettacolo di danza contemporanea di cui vado a restituire un’orma come testimone di tale esperienza, la mia concentrazione massima è stata rivolta proprio allo statuto ontologico di ogni discorso sulla danza: il corpo. Così l’idea che questo spettacolo si concludesse con un anti-danza smaterializzando il corpo mi intrigava.
Durante tutto lo spettacolo ho aspettato quella “smaterializzazione dei corpi” e mi sono chiesta curiosa come intendessero rappresentarla.
Arrivati alla conclusione un drappo rosso come fosse un’amaca viene calato dall’alto fino a toccare terra e riempie da parte a parte lo schermo bianco della parete di fondo. Le due donne cyborg e le due figure androgine della regia si spogliano completamente e si sdraiano tutte e quattro dentro quel drappo rosso, si spengono le luci dei riflettori poi quelle dei led dell’isola della regia, le intelligenze artificiali tacciono, i suoni metallici e digitali scompaiono…Buio. Fine.
Mi sono chiesta: la scelta della nudità come “smaterializzazione dei corpi” (???!!!???)
Si riaccendono le luci, il pubblico applaude e applaude e applaude, qualcuno urla “brave” poi voci sommesse, applausi sempre più forti e voci tra il pubblico che si fanno sempre più nitide: “ma non escono?” “non vengono a prendere gli applausi?” E capisco… la scena vuota, il pubblico che invoca le danzatrici, l’applauso che scema, il pubblico che si alza, esce, lo spazio si svuota, rimangono i mixer, luci a led spente, drappi abbandonati, teli vuoti, faretti inermi, computer con schermi neri in standby. Mentre esco mi volto ancora una volta a guardare la sala che adesso è completamente vuota e capisco… ora è finito: “la smaterializzazione dei corpi.”
Esiste in mezzo al tempo la possibilità di un’isola? Per D.A.K.I.N.I. e le sue sodali probabilmente no ma per noi spettatori si nell’eterotopia, per citare Foucault, dell’esperienza dello spettacolo dal vivo.
Immaginate la potenza di una creazione capace di influenzare le rappresentazioni a distanza di cinque secoli. La commedia dell’arte riesce in questa impresa sconfinando nel mondo della danza con “Harleking” del duo italo-tedesco Gineva Enrico.
Ad aprire la stagione del festival “Interplay” sono due giovani artisti che portano in scena un contemporaneo passo a due.La frivolezza della più celebre maschera della commedia dell’improvviso segue un canovaccio che prima lascia spazio all’improvvisazione per diventare sempre più vincolante. I riflettori si scaldano sui movimenti spontanei causati dalle contrazioni muscolari dovute al riso. Il mescolarsi del sogghigno con spasmi dovuti a conati non permette allo spettatore di rallegrarsi, e ricorda la fame senza freni della maschera originale. La forte gestualità passa attraverso la valorizzazione del corpo e delle pose attribuite all’Arlecchino del passato, in questo caso senza maschera, ma facilmente riconoscibile. La partitura diventa sempre più serrata fino ad entrare in un loop magnetico. La staticità delle gambe si contrappone al continuo moto delle braccia trasformate in arti meccanici e costrette ad eseguire una sequenza infinita sempre simile ma mai identica. Sorprende come il movimento dei due performer, nonostante si faccia minuto fino a ridursi al moto delle sole falangi, riesca ad ipnotizzare il pubblico.
“Brother” è una panoramica sul mondo del movimento. Marco Da Silva Ferreira, coreografo portoghese nominato Aerowaves Twenty18, utilizza i corpi dei sette performer come malleabile argilla prima della cottura. Presentando uno ad uno ogni danzatore, l’autore dona a ciascuno un momento solistico atto a mostrare le doti personali. Il movimento viscerale che caratterizza ognuno si distingue da quello degli altri compagni di scena per intensità, stile e utilizzo del corpo, dando così allo spettatore una varietà visiva fuori dal comune. Questa diversificazione la troviamo anche durante i momenti di insieme che, pur avendo una partitura ben definita, lasciano la possibilità ad ogni interprete di dare un’impronta personale al gesto. Ritroviamo sul palco movimenti che percorrono la storia della danza fino ai tempi più recenti, nobilitando linguaggi come il voguing che difficilmente vengono illuminati dai riflettori di un palcoscenico di questo genere. Il sapiente utilizzo della musica dilata oltre al visivo la creazione di Marco Da Silva Ferreira creando echi dei versi primordiali prodotti dai ballerini durante lo sforzo fisico.
HARLEKING di e conGinevra Panzetti, Enrico Ticconi sound designDemetrio Castellucci light designAnnegret Schalke costumiGinevra Panzetti, Enrico Ticconi illustrazioni e graficaGinevra Panzetti diffusione Marco Villari
BROTHER direzione artistica e coreografiaMarco Da Silva Ferreira performers(fase creativa) Anaísa Lopes, Cristina Planas Leitão, Duarte Valadares, Filipe Caldeira, Marco da Silva Ferreira, Max Makowski, Vitor Fontes assistente direzione artisticaMara Andrade direzione tecnica e design luciWilma Moutinho musiche dal vivoRui Lima and Sérgio Martins
UN’ORA!! SOLO IN UN’ORA! …Incredibile. Niente da dire. E come si potrebbe dire qualcosa? Come si potrebbe dire tutto quell’universo di verità riassumendolo in queste poche e fugaci righe?! Eppure in una recensione, sarà pur questo che bisognerà fare.
Ora ci penso. Raramente si vede qualcosa di simile. Uno spettacolo così non si può Assurdamente sintetizzare, non si può incastonare in un riquadro, non lo si può svestire di quell’equilibrio aureo che ne è parte così essenziale.
Odore di oriente che ti prende alle spalle. Una figura bianca materna, carnale, ma al tempo stesso leggera, come una vaporosa nuvola, compare sulla scena. La dimensione aerea e quella terrena si fondono, la voce calda di Valentina Volpatto attraversa la scena che brilla ancora della polvere del deserto, e poco alla volta il corpo di Samya Josuf Omar.
Olimpiadi di Pechino 2008 – Sulla linea di partenza dei 200 metri tutte le atlete, con i loro abiti attillati e colorati fatti di materiali tecnici per meglio fendere l’aria durante la corsa, si preparano alla partenza. Samya è una di loro, ma contrariamente alle altre indossa un paio di fuseaux neri e una maglia di cotone bianca con su la scritta Somalia, sulla fronte una fascia di spugna della Nike che le aveva regalato il padre prima di essere ucciso. Durante quella gara farà il suo miglior tempo ma arriverà ultima. Nessuno poteva immaginare che una giovane donna somala, mentre il suo paese era martoriato e afflitto dalla guerra civile, potesse avere il coraggio di andare contro tutto e tutti presentandosi alle olimpiadi.
Lo spettacolo ha debuttato il 9 maggio al Museo Egizio, è la prima volta che Valentina Volpatto si cimenta in un monologo di cui è anche autrice. E’ grande l’emozione, Valentina accetta la sfida perché si innamora della storia di Samya, sente l’urgenza di raccontarla per non dimenticarla, perché diventi un simbolo di coraggio, e dopo aver visto lo spettacolo come biasimarla, è difficile non innamorarsi di Samya. Lo spettacolo è emozionante e commovente, sedie e drappi che compongono la scenografia risultano a tratti persino superflui, quando hai un personaggio e una storia così ricca come quella di Samya e un’attrice che sa, con la sua passione, connettersi e connetterci al cuore di questa giovane atleta.
Samya intraprende il “viaggio”che dalla Somalia la porterà in Libia attraverso stenti e sopprusi, per salpare su quei barconi che non trasportano più corpi ma sogni, l’unica cosa che sembra restare ancora vivo su quei visi emaciati, spettri di esseri umani. Samya vuole andare in Europa per cercare un allenatore che possa prepararla per le Olimpiadi del 2012 di Londra. Samya vuole meritarseli quegli applausi del pubblico non solo come incoraggiamento ma perché ha tagliato per prima il traguardo.
Samya corre veloce con i piedi ben piantati al terreno per meglio poter prendere la rincorsa per spiccare il suo volo. E vola in alto verso il cielo, lontana da quel mare e lontana da quella terra a cui quel barcone, il suo barcone non approderà mai. Vola in alto nel cielo Samya e scompare, diventa pulviscolo, odore d’oriente che ti prende alle spalle e ti rimane dentro.
Autore: Adattamento teatrale del romanzo “Non dirmi che hai paura” di Giuseppe Catozzella a cura di Valentina Volpatto.
Mercoledì 15 aprile 2019 ha avuto luogo la conferenza stampa di Piemonte dal Vivo in Piazza della Repubblica a Torino. Non poteva tenersi in una cornice migliore, quella del nuovo Mercato Centrale, dal quale è possibile ammirare l’intera città pur rimanendo all’interno del suo cuore pulsante. Sicuramente un’analogia con quella che è l’attività della Fondazione, di smuovere, valorizzare e vivificare culturalmente l’intera regione piemontese, con le radici ben piantate nel suo territorio.
Sono tante le cose che si
potrebbero raccontare del grande genio che fu Vincent Van Gogh, tanti
i misteri che si potrebbero voler svelare e tante le fantasie che si
potrebbe voler sognare pensando a questo affascinante artista. Eppure
non sono queste le domande a cui la compagnia Anomalia Teatro ha
deciso di rispondere, ma piuttosto: “Chi era l’ombra di questa
enigmatica figura? Chi era la sua spalla? Chi tace dietro ai suoi
schizzi di colore?” Perchè si sa, alle spalle di ogni colosso
della Storia, si nasconde sempre qualcuno! Ed è esattamente questo
di cui lo spettacolo “Theo – storia del cane che guardava le
stelle” ci vuole narrare.
Travolgente,
inatteso, ardente di passione come gli amori extraconiugali (il mio matrimonio,
celebrato e consumato, era con il cinema), l’amore per il teatro.
Ed ecco quindi che, dopo una serie di serate memorabili della stagione del Teatro Stabile di Torino non ancora conclusasi (Arlecchino! Novecento…! La scorticata…! Così è (se vi pare), ma anche L’Abisso, Pueblo, i recenti Amleto e Petronia!), il 7 maggio, a mezzogiorno sono al Carignano per la conferenza stampa in cui si annuncia la stagione 2019-2020, goloso come una golosa di Gozzano, che pur mentre inghiotte, / già pensa al dopo, al poi; / e domina i vassoi / con le pupille ghiotte. Ad aprire la stagione, Valerio Binasco come regista e attore (evviva!), al Carignano con Rumori fuori scena, spettacolo ormai cult del teatro contemporaneo in cui una scalcagnata compagnia tenta di mettere in piedi uno spettacolo (passare non può senza menzione nel cast il nome di Margherita Palli, scenografa che vanta collaborazioni con Luca Ronconi; quest’anno ci ha lasciati senza fiato con le sue architetture sceniche di Se questo è uomo, con la regia di Valter Malosti che apprezzeremo anche nella stagione ventura: è infatti una delle tre riprese in cartellone). Sempre Binasco firma la regia di Uno sguardo dal ponte, altro classico contemporaneo che chiuderà le danze della stagione.
Dai primi titoli
è già lampante che si tratta una stagione con i piedi ben piantati per terra e
uno sguardo – velato di malinconia – sul mondo: a confermarcelo, la bambina
pugile sul manifesto all’ingresso che ha sostituito quella della scorsa
stagione che aveva occhi sgranati di meraviglia. Pugilato e teatro. Un’arte e
uno sport che hanno a che fare col corpo e non hanno paura della sporcizia
umana. L’attore e il pugile devono affrontare un avversario. La differenza:
l’attore è solo contro una moltitudine. Sono pugni malinconici quelli che ci prenderemo
dalla stagione prossima, assestati con dolcezza. Non a caso l’immagine richiama,
come ben ricorda Binasco, una raccolta poetica molto amata: La bambina
pugile di Livia Candiani. Ha proprio ragione: la bambina pugile è la nostra
anima, l’anima del teatro, «quella di tutti gli artisti e di chi ama l’arte». Il titolo completo
della raccolta è La bambina pugile ovvero
la precisione dell’amore, e a me sembra che tutto torni perché la stagione
si chiama Fair Play. Ora, se oltrepassiamo la comune traduzione di “buone
maniere” come ci chiede di fare Binasco, scopriamo che significa anche “gioco
leale, corretto” e tutto questo ha a che fare
con la precisione, con la precisione dell’amore.
Dunque, sul ring,
tra i 74 titoli in programma – 17 produzioni
TST (9 nuove produzioni esecutive, 5
nuove coproduzioni e 3 riprese), a combattere lealmente saranno tante
donne. Per Elena Serra addirittura il ring non
sarà a fine gennaio tra le mura teatrali, ma all’interno di una delle più note
gallerie torinesi, la Franco Noero, accanto al Carignano: a lei dobbiamo Scene
di violenza coniugale / Atto finale co-prodotto con il Teatro Nazionale di
Dioniso. Una doppietta di Serena Sinigaglia: a novembre
dirigerà una riscrittura goldoniana operata da Trevisan, La Bancarotta,alle fonderie
Limone, a marzo Macbeth, al
Carignano, entrambi prodotti dal dallo Stabile di Bolzano. Da non
perdere il ritorno, con un produzione del Teatro Stabile di Torino, di Kriszta
Szèkely dal teatro Katona di Budapest. Sua sarà la regia di Zio Vanja con la partecipazione di
Pierobon e Marescotti. Laura Curino (che tra pochi giorni salirà sul
palco del Gobetti) tornerà anche durante Fair
Play in compagnia di Lucia Vasini con L’anello forte, spettacolo tratto dall’omonimo testo di Nuto
Revelli, «una gigantesca Spoon
River contadina»,come scrisse Stajano di questi racconti di donne povere.
Ma il mondo umano è un continuo scambio tra
maschile e femminile, in questa lotta meravigliosa quotidiana e infinita di
equilibri mai raggiunti. Il teatro è il luogo per eccezione dove questo accade:
non è un caso che un fiore all’occhiello della stagione sarà Macbettu. (E badate, chi come il
sottoscritto ha avuto la fortuna di vederlo alla scorsa edizione del Festival delle Colline Torinesi non può
essere imparziale: è il cuore che parla!). Tre uomini nei panni delle streghe,
pietre terra sangue e maschere, questi gli ingredienti con cui Alessandro Serra
ci racconta in sardo la tragedia inglese; mai potrei mancare dal 19 al 24
novembre alle Fonderie Limone. Il talentuoso regista sardo, che affonda le
radici del suo percorso artistico nel teatro di ricerca, ci regalerà anche la
regia del primo dei due titoli di
Ibsen nel cartellone della bambina pugile: Il costruttore Solness, capolavoro della maturità nel quale
colui che ha messo a nudo l’anima borghese di fine Ottocento racconta della
lotta a perdere di uomo contro il tempo che passa. Lo spettacolo vedrà in scena
Umberto Orsini, che peraltro – eh, tante volte mi fa l’occhiolino questa Fair Play – sarà impegnato nel titolo Il nipote di Wittgenstein, tratto da
un testo di Bernhard, autore da me molto ammirato. L’altro titolo del norvegese
messo in scena è Nemico del popolo,
Popolizio alla regia. Tra gli altri must
della storia del teatro: ritornano Arlecchino
servitore di due padroni, diretto da Binasco, e la regia buñueliana del Così è (se vi pare), a oggi il successo della stagione in corso,
portato a casa da Filippo Dini (al lavoro anche
per la regia di un’altra produzione dello Stabile:
il kinghiano Misery), poi Mistero
Buffo, produzione TST e regia di Eugenio Allegri
(il suo posto in Novecentolo
prenderà Alessandro Baricco con un reading
del suo testo al Carignano). Chicca: Allegri, con il placet di Dario Fo,
aggiunge misteri inediti ai tanti irriverenti del premio Nobel scomparso nel
2016. Ancora: I Giganti della montagnacon Gabriele Lavia regista e attore; e infine in questa rassegna di
classici, Tartufo, regia del
maestro del teatro internazionale Koršunovas.
Dalle numerose sere di Wonderland posso confermare le parole del presidente Lamberto
Vallarino Gancia, quando alla conferenza sottolinea
che il rischio culturale è il comun denominatore di molti spettacoli dello Stabile,
continuo è infatti lo sguardo al nuovo e alla
contaminazione di linguaggi: nella stagione sono presenti spettacoli come L’arte di morire ridendoo Lodkache guardano al mondo dei
clown. Come dimenticare, inoltre, la presenza del maestro del teatro di ricerca
Peter Brook con il suo Why?in
scena alle Fonderie Limone a maggio? Nemmeno i
frequentatori degli spettacoli di danza resteranno a bocca asciutta: sempre
viva è infatti la collaborazione con il FestivalTorinodanza.
Nell’attesa che si spengano le luci delle
sale del Teatro Stabile di Torino, che si riconferma un’eccellenza nazionale
riconosciuta anche a livello europeo.
Concludiamo
con le parole del direttore Filippo Fonsatti: «La bambina che indossa i guantoni da pugilato, pronta a difendere
lealmente una nobile causa, ci ricorda Greta Thunberg e Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa
Morante: un inno all’adolescenza, alla sua energia e alla sua bellezza come
visione politica per cambiare il mondo. Oggi più che mai, per gestire questo
cambiamento senza scontri astiosi abbiamo bisogno di fair play nelle dinamiche socio-economiche e nella convivenza
civile, nelle relazioni umane e nelle scelte politiche, recuperando il valore
assoluto dell’etica comportamentale, della lealtà, del rispetto per chi la
pensa diversamente».
“Sono fuori di me e sono in pena perché non mi vedo tornare” (Luigi Tenco)
Tre interpreti, sei personaggi, un tema: storie di ordinaria follia. Ha qualcosa di delicato e poetico, ironico e malinconico, lo spettacolo dei Nouvelle Plague. Storie vere tratte dal saggio di una sociologa napoletana: Stefania Ferraro, che vengono riscritte per la scena. Sulle note di violi e sinfonie classiche personaggi dai toni bianchi e neri disvelano un arcobaleno di emozioni. Nella scena che si presenta sin da subito scarna, sono i gesti precisi e puntuali, di corpi che hanno la qualità della danza, a disegnare nell’aria scenari immaginari e immaginati. Luoghi che i personaggi disegnano abitandoli. Un po’ quello che succede nella mente di un “semimbecille” che abita un mondo disegnato nell’aria che noi “imbecilli” non riusciamo a vedere.
Il disagio mentale, raccontato nello spettacolo, che sfocia in atti di violenza, causato quasi sempre dalla “mancanza” d’amore, di condivisione, dalla mancanza dell’altro, sottolinea come l’uscire fuori di sé sia la condizione necessaria all’atto d’amore. Ma questo uscir da sé se trova nell’altro un approdo sicuro e accogliente riesce a tornare in sè in una navigazione che da sé porta all’altro e viceversa e che ogni volta è uno scambio e un arricchimento che si chiama crescita. Se quindi nell’atto d’amore è auspicabile sapere e potere uscire da sé per emanciparsi da un egoismo apocalittico, in una condizione di assenza dell’altro, l’uscire da se non ha rotte tracciate e vagando alla cieca c’è il rischio di perdere per sempre la via del ritorno:
Sono fuori di me e sono in pena perché non mi vedo tornare
Con Cesare Lombroso a scrutare e indagare i volti degli spettatori che cominciano ad accomodarsi su sedie molto a ridosso della scena che essendo allo stesso livello degli attori accorcia di molto la distanza. Forse proprio in un tentativo inconscio di restituire se non proprio alle vite originarie almeno alle memorie di esse un altro in cui tornare in sé.