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La trilogia Mozart-Da Ponte chiude la stagione del Teatro Regio

La stagione del Regio si chiude con tre titoli fondamentali della storia dell’opera, proposti a Torino per la prima volta in un unico corpus: Le Nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte. I tre capolavori di Mozart, composti tra il 1786 e il 1790, su libretti di Da Ponte, sono una meravigliosa realizzazione di drammaturgia musicale: parole e note si fondono in modo perfetto e trasformano l’opera buffa, un genere fino a quel momento frivolo e superficiale, in una forma d’arte capace di toccare le corde più profonde dei sentimenti umani. Tra unioni coniugali, tradimenti, rimpianti e libertinaggi è rappresentata una sfaccettata fenomenologia dell’amore nei suoi inestricabili legami col potere: il Settecento come momento topico di questo intreccio ad ogni strato sociale. Le tre regie sono firmate da nomi di rilievo, Elena Barbalich per Le Nozze di Figaro, Michele Placido per Don Giovanni, Ettore Scola per Così fan tutte (le ultime due riprese da Vittorio Borrelli), al fine di richiamare un vasto pubblico, il quale ha effettivamente risposto numeroso all’evento confezionato dal Regio.

Nelle Nozze di Figaro si respira l’atmosfera del secolo, con alcune incursioni nel futuro prossimo: Cherubino è iconograficamente connotato come il Napoleone a cavallo del quadro di David ed è seguito da una folla di rivoluzionari. Le scene di Tommaso Lagattolla (che ha curato anche i costumi) in accordo con la regia intendono rappresentare il tortuoso percorso iniziatico dei personaggi, connotato da una “componente massonica” attraverso i simboli della squadra, della scala, dell’alternanza luce e buio ecc. Purtroppo però la resa è quella di una scenografia che comunica oppressione e i personaggi appaiono come incastrati tra i pannelli: il messaggio non arriva. La resa canora e interpretativa è invece comprensibile e nell’insieme godibile, grazie soprattutto alla direzione di Speranza Scappucci, misurata e puntuale.

Nel Don Giovanni la direzione di Daniele Rustioni coglie equilibratamente gli aspetti musicali barocchi che in quest’opera colorano lo stile classico mozartiano. La medesima ambizione sembra animare la regia la quale tuttavia degrada in una forma scenica che sfiora il cattivo gusto. I colori cupi degli arredi e dei costumi (firmati da Maurizio Balò) rabbuiano la scena senza, per altro, comunicare la conturbante oscurità dell’opera. Le coreografie trascurate, da orgia campestre, animano la scena del ballo attraverso dei fermo-immagine catturati da flash anacronistici di una macchina fotografica presente sul palco. È ricorrente nell’opera lirica, spesso senza giustificazione drammaturgica, esporre corpi esausti e seminudi in pose plastiche, che mirano a compiacere un immaginario nutrito di stereotipi televisivi. Se effettivamente funzionali a riempire un vuoto dello sguardo, tali danze sminuiscono il valore dello studio coreutico dei corpi in scena. Nonostante (o forse grazie a) questo l’allestimento, a distanza di tredici anni dal suo debutto, è ancora apprezzato dal pubblico, formato da molti turisti, che ha applaudito calorosamente.

Così fan tutte incanta con il suo fascino misterioso e la struggente bellezza delle melodie. L’allestimento è il più riuscito dei tre, fedele al clima settecentesco, delicato nei colori ed elegante negli arredi, trasmette le medesime suggestioni sensuali delle tele di Fragonard. Altrettanto coerenti i giochi di nascondimenti e rivelazioni realizzati, nella pienezza della profondità scenica, da Luciano Ricceri. L’opera presenta arie tra le più impegnative di tutta la produzione mozartiana, in particolare per i ruoli femminili. Pure un soprano di prim’ordine come Federica Lombardi non si rivela una Fiordiligi abbastanza agile nelle acrobatiche arie Come scoglio immota resta e Per pietà ben mio perdona. Da segnalare anche Francesco Marsiglia nel ruolo di Ferrando non perfetto nell’intonazione della cavatina Tradito, schernito!. L’interpretazione orchestrale è più convincente: il maestro svizzero Diego Fasolis, al suo debutto sul podio del Teatro Regio, ha impresso il suo tocco personale alla direzione, derivato anche dalla sua profonda esperienza nel repertorio antico.

L’istituzione torinese, forte dei suoi recenti cambiamenti (ricordiamo William Graziosi alla sovrintendenza e Alessandro Galoppini alla direzione artistica), si avvia verso una nuova stagione molto attesa. Alla sua presentazione infatti, oltre alla sindaca Chiara Appendino, si è registrata la presenza di un gran numero di torinesi. Nuovi melomani o cittadini preoccupati dalla “tempesta” che ha recentemente scosso il prestigioso ente lirico? In attesa di nuovi sviluppi, la trilogia mozartiana rimarrà in scena fino all’8 luglio. Il Teatro riaprirà la stagione 2018/19 con Il Trovatore di Verdi a partire dal 10 ottobre.

Recensione di Marida Bruson e Tobia Rossetti

FDCT23 – AIACE

In conclusione al Festival delle Colline Torinesi è andato in scena il 22 giugno alle Lavanderie a Vapore di Collegno Aiace, testo classico di Sofocle rivisitato da Linda Dalisi e interpretato dall’attore ivoriano Abraham Kouadio Narcisse (Aiace), da Michelangelo Dalisi (Odisseo) e dall’attrice francese Estelle Franco (Dea Atena e Tecmessa).

Dopo la morte di Achille, al nono anno della guerra di Troia, le sue armi vengono ereditate da Odisseo. Aiace, il guerriero più forte tra gli Achei, secondo, un tempo, solo al Pelìde, in seguito a questa decisione, perde il senno. Preso dall’ira e ispirato da Atena, la protettrice di Odisseo, uccide tutto il bestiame greco, convinto che siano i suoi compagni, ma l’indomani, resosi conto dell’errore e della follia decide di salvare il proprio onore, davanti agli dei e ai Greci, suicidandosi. 

Prima del compiersi del gesto estremo si susseguono una serie di riflessioni sulla condizione umana: dalla follia alla soggiogazione dagli dei; dall’onore al rispetto delle tradizioni; dal ricordo dell’infanzia al rispetto dei padri. 

Il supporto visivo tramite tre proiettori che, letteralmente, proiettano su teli illusioni, sogni, speranze, paure, sangue nel mare ecc…, è particolarmente efficace poiché dà spazio all’interiorità e ai sentimenti dei protagonisti e trova il culmine nel finale, con l’ultima proiezione: Aiace, suicida, si trasforma in centauro.

Aiace prima di tutto, racconta una storia di estraneità, che è culturale, ideologica, temporale, personale. Questo elemento esiste su due differenti piani. Uno è radicato nel testo sofocleo stesso e viene arricchito in seconda istanza dalla presenza in scena di tre attori, provenienti da Costa d’Avorio, Francia e Italia, che parlano lingue diverse. Quello che potrebbe essere un punto di contatto, la lingua, sembra essere, invece, una barriera insormontabile: Aiace, ormai impazzito, non riesce nemmeno più a spiegarsi. Non riesce a esprimere i motivi per cui dovrebbe meritare le armi e Odisseo, dall’alto della sua condizione di forza e della sua arroganza, si rivolge direttamente al pubblico per sottolineare questa mancanza linguistica (Aiace/Abraham sta parlando nella sua lingua madre). Un’estraneità che si risolve in incomunicabilità, ma anche in estraneità da se stessi. La dea Atena infatti annebbia la mente di Aiace che non si riconosce più e tutte le certezze che aveva acquisito in vita scompaiono all’improvviso, lasciando spazio solo al dubbio, al rimorso, al disonore e alla consapevolezza di non poter cambiare in alcun modo il proprio triste destino.

Odisseo sembra solamente uno scaltro arrivista, ma quando entra in contatto con la sua dea protettrice compatisce la sorte del povero Aiace: «Nonostante mi sia nemico, ho pietà per quell’infelice, per la tremenda sciagura cui si trova aggiogato: nella sorte di lui trovo riflessa anche la mia». Ritiene infatti che la debolezza e l’errore siano condizioni che possono diventare di chiunque.

Il ruolo dei proiettori diventa particolarmente rilevante in unione alla musica e alla danza, poiché serve a sottolineare come le paure e i sogni delle persone, pur lontane per cultura o stato sociale, possano essere gli stessi. Aiace si sente inadeguato, deriso e disorientato in un mondo che non riconosce più, privo di tradizione ed onore, e sogna solo di poter tornare bambino e di potersi tuffare nel mare a gareggiare ancora con Achille. L’energia/L’empatia che viene trasmessa dall’esibizione deve far scattare l’allarme, accendere una lampadina: tutti possiamo essere Tecmessa, Atena, Odisseo e Aiace; tutti si possono trovare nelle stesse loro situazioni, ed è bene ricordarsi di non giudicare troppo in fretta, di andare oltre ai pregiudizi e a puntare subito il dito, che sia un amico, il tuo vicino di casa, uno straniero.

Il Festival delle Colline Torinesi arriva qui, con Aiace, alla conclusione della 23esima edizione riaffermando l’importanza delle arti e del teatro. Parafrasando una frase attribuita a Francis Scott Fitzgerald: «Questa è la parte più bella di tutto il teatro [orig. di tutta la letteratura]: scoprire che i tuoi desideri sono desideri universali, che non sei solo o isolato da nessuno. Tu appartieni».

di Linda Dalisi e Matteo Luoni

regia Linda Dalisi

con Abraham Kouadio Narcisse, Michelangelo Dalisi, Estelle Franco

scene Giuseppe Stellato

costumi Graziella Pepe

suono e musiche Marco Messina

luci Simone De Angelis

movimenti Francesco Manetti

assistente alle scene Domenico Riso 

aiuto regia Francesca Giolivo

production Brunella Giolivo

management Michele Mele

produzione stabilemobile

in collaborazione con l’Asilo – exasilofilangieri.it

FDCT-23 DIALOGHI CON LEUCÒ

Torino, 20 giugno

Il Festival delle Colline si sta concludendo e uno degli ultimi spettacoli in programma è Dialoghi con Leucò, una lettura scenica diretta da Silvia Costa di alcuni racconti tratti dall’omonimo libro di Cesare Pavese.
Un’ ora piacevolmente trascorsa alla riscoperta del Mito raccontato con una delicatezza tutta femminile dalle due attrici Silvia Costa e Laura Dondoli.
La scena è aperta e in primo piano ci accoglie un grande cartiglio: “non fate troppi pettegolezzi” (sono le ultime parole scritte da Pavese prima del suicidio) che , quasi facendosi beffe della natura pettegola che la società ha attribuito nei secoli alle donne, anticipa la fedeltà ai racconti che le due attrici s’ apprestano a narrare, tenendo fede a quest’ultimo monito che l’autore ha lasciato al mondo.
I dialoghi vengono generati da movimenti sincronizzati che lentamente si dissociano non acquistando però una vera e propria autonomia, quasi come se i due personaggi narranti non fossero entità fisiche distaccate, ma  due forze di pensiero partorite da un solo soggetto impegnato in un dialogo interiore.
Una dimensione surreale accompagna tutto lo spettacolo, assecondando quella che è la natura nebulosa dei racconti, che lascia libero lo spettatore di percepire ciò che vuole cogliere e di immaginare la propria trama immerso in quella che è pura dimensione onirica.

FDCT23 – MACBETTU La zona d’ombra – Dove gli uomini si fanno lupi

Per la ventitreesima edizione del Festival delle Colline Torinesi è andato in scena il 17 e 18 giugno, alle Fonderie Limone di Moncalieri, Macbettu, versione in limba sarda con sovratitoli in italiano del capolavoro di Shakespeare, diretto da Alessandro Serra e interpretato dalla compagnia Teatropersona.

Lo spettacolo è stato il vincitore del prestigiosissimo premio UBU 2017 e del Premio ANCT 2017 (Associazione Nazionale dei Critici di Teatro).

 

Macbettu non si discosta per trama e contenuti dal testo originale, bensì lo amplia con i carnevali sardi: le maschere che rappresentano la foresta che avanza, nel finale, sono simili alle maschere dei Mamuthones e degli Issohadores del Carnevale di Mamoiada. La Sardegna è un luogo sacro e arcaico, dove gli antichi culti pagani sopravvivono ancora oggi in una maniera più vera e sentita rispetto ad altre località ed è lo scenario ideale per rappresentare una tragedia che fa della solennità e della ritualità dei movimenti e di una lingua dal sapore antico e impenetrabile il proprio codice di lettura.

 

La mancanza quasi totale di scenografia e l’assenza di attrici è un omaggio al teatro elisabettiano di Shakespeare. Ciò però non rende meno efficaci le ottime prove degli attori, sia a livello dei singoli – come per quanto riguarda Lady Macbettu, interpretata da un dionisiaco e barbuto Fulvio Accogli – sia a livello corale.

Non è la prima volta che il Macbeth viene rivisitato e ambientato in un’altra cultura. Ne è un esempio il film del 1957 di Akira Kurosawa Il trono di sangue che compie un adattamento in territorio nipponico.

Sono state molteplici negli anni le versioni cinematografiche del capolavoro shakespeariano, ma la versione di Roman Polanski – proiettata al cinema Massimo in preparazione allo spettacolo sardo – è di particolare rilievo perché approfondisce il lato dionisiaco (e demoniaco) delle streghe e di Lady Macbeth. In questo senso compie un’operazione simile anche Alessandro Serra, che caratterizza le Sorelle e soprattutto Lady Macbettu, tutte interpretate da uomini, facendo loro perdere  sembianze umane e femminee in favore di un’aura diabolica. Fulvio Accogli è ottimo nel rappresentare la sensualità del personaggio, specie nella scena del suicidio durante la quale è completamente nudo (o nuda) sul palco, esprimendo una inquietante e peculiare femminilità.

In questo senso Macbettu incontra il Festival delle Colline Torinesi: il viaggio dell’identità tramite la rievocazione elisabettiana e l’annullamento di genere, e la Sardegna come luogo lontano, nel tempo e nello spazio, e straniero dove inscenare temi universali che accomunano tutti gli esseri umani, in una ricerca radicale dell’uomo, sino alla zona d’ombra, la più oscura e bestiale.

 

La zona d’ombra, ovvero il luogo in cui si svolge la vicenda. Un’ombra visibile – lo spettacolo si apre e si chiude entro lunghi momenti di oscurità lacerata dalle streghe, all’inizio, e da suoni metallici che rappresentano il cuore morente di Macbettu, al termine – ma soprattutto un’ombra dell’anima.

Quella che le Sorelle Fatali pronunciano a Macbettu e Banquo potrebbe anche non essere una vera e propria profezia, quanto un dubbio, un’insinuazione proposta e in seguito raccolta dal Conte di Cawdor, che poi si avvererà. Un’ombra che si impossessa anche della consorte che sostiene e inneggia a ogni assassinio (accumulato simbolicamente pietra su pietra come un piccolo nuraghe)  utile per la scalata verso il potere. La zona d’ombra che è il regno del soprannaturale, della vita dopo la morte che si interseca con quella dei vivi con l’apparizione del fantasma di Banquo; ma anche la bestialità dell’essere umano che trova il proprio culmine nella scena, che richiama la maga Circe e i film Porcile (1969) e Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pasolini, in cui i due coniugi danno da mangiare alle guardie del corpo di Re Duncan che lottano tra di loro come maiali e cinghiali, mettendo a dura prova gli spettatori.

Una bestialità che si incarna nell’essere umano e lo porta, giù nella zona d’ombra, a compiere le nefandezze più gravi, che possono essere ben spiegate dalle parole di Cesare Pavese: «Non conosci la strada del sangue. Gli dèi non ti aggiungono né tolgono nulla. Solamente, d’un tocco leggero, t’inchiodano dove sei giunto. Quel che prima era voglia, era scelta, ti si scopre destino. Questo vuol dire farsi lupo […]».

Dialogo tra due cacciatori tratto dal racconto L’uomo lupo da Dialoghi con Leucò, Cesare Pavese

Riccardo Ezzu

Macbettu 

regia Alessandro Serra

tratto da Macbeth di William Shakespeare

con Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino

traduzione in sardo e consulenza linguistica Giovanni Carroni

collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini

musiche, pietre sonore Pinuccio Sciola

composizioni pietre sonore Marcellino Garau

scene, luci, costumi Alessandro Serra

produzione Sardegna Teatro e compagnia Teatropersona

con il sostegno di Fondazione Pinuccio Sciola, Cedac Circuito Regionale Sardegna

Premio Miglior Spettacolo UBU 2017,  Premio ANCT 2017 (Associazione Nazionale dei Critici di Teatro)

FDTC-23 DICKINSON’S WALK

“Muovo passi meccanici su una strada senza fili” questo è il leitmotiv che accompagna la passeggiata di chi assiste a The Dickinson’ s walk. Un leitmotiv scelto sia per dare un po’ di respiro alla poesia ma anche perché è la perfetta descrizione della performance. Sulla carta lo spettacolo appare semplice, non serve altro che un’ attrice, un paio di auricolari e una leggera propensione alla passeggiata. Ma queste cose per fortuna non restano su carta e la semplice promenade alla quale lo spettatore attivo si presta perde subito la sua fisicità per diventare una passeggiata interiore. Sono certa che a qualcuno sia capitato di perdersi per le strade della sua città e dei suoi pensieri lasciandosi guidare dalla musica nelle orecchie, ma in questo caso non è la musica a muovere i nostri passi bensì la poesia. L’ accesso al nostro io interiore viene aperto dalla voce di Roberta Bosetti che ti entra letteralmente in testa con il semplice escamotage di un paio di cuffiette. La seguiamo sulle strade di una città che pensavamo di conoscere ma che forse, per fretta, disattenzione o solo per abitudine, non abbiamo mai visto davvero. Rassicurante come la voce della mamma, ci guida nel paradosso del fuori attraverso le poesie di Emily Dickinson che descrivono un mondo intero al quale lei, rinchiusa nella sua stanza, ha avuto accesso solo con l’immaginazione.
È una solitudine condivisa che parte dal soggettivo per arrivare all’universale, ogni spettatore vive la scenografia della città cucendoĺa sulle proprie misure, cogliendo sulla propria pelle gli appuntamenti musicali accidentali, il suono di un clacson o la risata in un bar, condividendo la sua singola esperienza con altre venti persone che, stimolate dalle poesie, creano il loro spettacolo generandone un altro per chi lo incontra inconsapevolmente anche solo passando per strada. Continuando a camminare attraverso un paesaggio che ha perso il nome proprio per assumere a pieno titolo il nome comune e condiviso di Città, la compagnia Cuocolo/Bosetti apre le porte di casa e ci permette di entrare in una stanza che potrebbe essere di ognuno di noi, anche della Dickinson, perché è l’esplicitazione fisica di quel salottino privato che risiede in ognuno, che ha la sicurezza e l’accoglienza di una casa che però non ha pareti, ha solo una finestra dalla quale immaginare il mondo.

Empire

Empire di Milo Rau, l’ultimo capitolo della trilogia sull’Europa dopo The Civil Wars e The Dark Ages, è uno dei titoli di maggior rilievo della 23° edizione del Festival delle Colline Torinesi. Il regista svizzero, fondatore dell’International Institute of Political Murder, ha dichiarato in un’intervista a Le Temps, nel 2016, di considerarsi un reporter engagé. Forse anche in virtù della nozione di “campo” appresa da Pierre Bourdieu e della necessità di immergersi in una realtà per comprenderla.

Non ci viene consegnata la “scoperta” di nessuna verità. I poli magnetici attraverso cui si avvolge lo spettacolo sono la parola Empire e la parola Tragoedia: l’Europa è il continente in cui sempre nuove e sottili forme di imperialismo si intrecciano ad un passato antichissimo radicato in miti feroci. Solo pochi giorni fa la vicenda della nave Aquarius ci ha posto, per l’ennesima volta, di fronte a questi temi. Con Milo Rau lo spettatore è lasciato a trarre i propri giudizi, a prendere posizioni proprie nelle riflessioni riguardanti una situazione geopolitica estremamente complessa. In scena i quattro attori sono anche quattro esseri umani che hanno vissuto in prima persona l’esperienza dell’esilio, della migrazione, della fuga e della ricerca di un “rifugio”.

Ramo Ali, Rami Khalaf, Akillas Karazissis e Maia Morgenstern sono i testimoni dei racconti evocati in una cucina-casa, rivelata all’inizio dello spettacolo dietro la facciata di un edificio diroccato. La scenografia di Anton Lukas concretizza e addensa i significati delle parole dei personaggi, parole dette in curdo, arabo, romeno e greco, le lingue originali, le lingue madri di questi racconti che necessitano non solo dei significati ma anche dei significanti che passano attraverso i suoni. Come quando Maia Morgestern-Medea e Akillas Karazissis-Giasone dialogano, rispettivamente in romeno e greco. Questo dialogo può avvenire, come avviene, perché qui è permesso, che Ramo Ali parli curdo sul palcoscenico. Il discreto tema musicale di Eleni Karaindrou accompagna le narrazioni composte e asciutte degli attori: non si tratta di un teatro che cerca l’immedesimazione del pubblico nei personaggi. L’immedesimazione è impossibile e se non lo fosse impedirebbe, per dirla con Brecht, di sviluppare una riflessione a riguardo.

La presenza viva degli attori in scena e i volti in primo piano sullo schermo in bianco e nero che li sovrasta abitano lo spazio scenico armonizzandosi tra loro. Gli indispensabili sovratitoli si trovano a metà del nostro campo visivo. Sul lato destro del palco il tecnico Aymrik Pech cura dal vivo il dialogo tra i diversi media. Lo schermo trasmette le foto di alcuni dei dodicimila uomini assassinati dal regime di Bashar El Assad e le immagini di un attentato a Qāmishlī, ma lo sguardo non rimane incatenato all’orrore, come con i telegiornali, nelle cene in famiglia, quando non si riesce a pensare. Lo sguardo rimane mobile e attento e può innescare movimenti interiori. In questo, forse, risiede la funzione trasformativa dell’arte, in cui il regista bernese crede e che evoca anche nell’intreccio di ricordi familiari e professionali, come la collaborazione della Morgestern con Theo Angelopoulos e Mel Gibson.

La drammaturgia, allora, è una tessitura di realtà e finzione capace di restituirci una qualche verità. E poi? E poi inizia la tragedia.

FDCT-23 ROBERTO ZUCCO

Un saggio? Questa è la domanda che sorge dopo aver visto il 17 giugno Roberto Zucco, testo di Bernard-Marie Koltès, con la regia di Licia Lanera che dirige i ragazzi appena diplomati alla Scuola del Teatro Stabile di Torino. Ma andiamo con ordine. Lo spettacolo segue le vicissitudini di Roberto Zucco, patricida, matricida, più in generale assassino, e rubacuori. Un omicida alla fine venerato come una star, che riceve il saluto dagli agenti di polizia. Uno spettacolo, a parere di chi vi scrive, senz’altro piacevole e divertente. La recitazione dai movimenti spesso esageratamente evidenziati dei giovani attori lo rende comico e paradossale. Esagerato al punto da sfiorare (o addirittura cadere) perfino nello splatter di stampo tarantiniano. Eppure, mi duole dirlo, uno spettacolo largamente migliorabile. Da non fan della dizione perfetta a cui gli attori sono troppo spesso costretti, a discapito delle più naturali inflessioni regionali, ho apprezzato lo sforzo di inserire accenti provenienti da varie parti d’Italia. Eppure si è trattato di un obiettivo, purtroppo, mancato: gli accenti suonavano tristemente quanto palesemente finti. E poi, parole mangiate e battute mal tradotte, mal adattate e forse anche mal esposte, che poco seguivano  la lingua parlata di tutti i giorni – alla quale evidentemente si voleva mirare – e che le rendevano talvolta difficili da ascoltare.
Pur apprezzabile in sé, lo spettacolo non mi è parso davvero efficace nel presentare dei nuovi attori al pubblico.  Dei diciotto interpreti presenti in scena, meno della metà sono stati effettivamente valorizzati, mentre gli altri sono stati relegati in parti minori e con poche battute. Soprattutto le attrici, che hanno dato  prova di professionalità e di dedizione alla causa nel mostrarsi nude sul palco, ma era un nudo davvero necessario o era un espediente?
In conclusione, per questi giovani nuovi attori mi sembra un inizio un po’ incerto, ma rivolgo loro il mio più sentito in bocca al lupo per una carriera lunga e piena di successi.
Maddalena Ghirardi

FDCT23 – Intervista a Milena Costanzo

L’attrice Milena Costanzo ci racconta un po’ di quello che c’è dietro la creazione del suo spettacolo Oh No, Simone Weil! e in generale ci parla della sua Trilogia della Ragione (Anne Sexton,  Emily Dickinson, Simone Weil), in un intervista che rivela la sua grande sensibilità e poeticità da vera artista, sempre alla ricerca e decisa a mettersi in gioco; caratteristiche che ha portato con sé al Festival Delle Colline Torinesi!

 

A cura di
Andreea Hutanu ed Eleonora Monticone

 

 

FDCT23 – NIKOLA TESLA/A PORTRAIT

Nella sala dedicata agli spettacoli all’interno del Caffè Müller si trova un palchetto rialzato,  con sopra un lungo tavolo assieme a sei sedie. Accanto sono disposte altre sei sedie dove gli attori della compagnia NeedTeatro si posizionano con in mano il loro copione rivolgendo lo sguardo al pubblico. Si respira un’aria di forte intimità.

Inizia lo spettacolo e salgono sul palco l’aiutante di laboratorio e Nikola Tesla. Si siedono, aprono il copione con un testo in endecasillabi e iniziano a delineare il ritratto dello scienziato che ha messo le basi per alcune delle grandi innovazioni del XX e del XXI secolo.
Il testo teatrale si snoda attorno alla delicata vicenda di Nikola Tesla che si prepara a doversi confrontare con John Pierpont Morgan, a cui ha venduto parte dei suoi brevetti e da cui spera di ricevere fondi per le sue ricerche sulle particelle radioattive, sulla radioattività e sulla comunicazione senza fili (radio). Tesla si intrattiene a dialogare con le persone che lo sostenevano e con cui si è scontrato nell’arco della sua vita.  Le figure in scena sono George Westinghouse, con cui aveva condotto la guerra delle correnti contro Thomas Alva Edison, presente anche lui sul palco e in contrasto con Tesla sulla questione della condivisione del Premio Nobel del 1915, il suo amico Robert Underwood Johnson assieme alla moglie Katharine MacMahon Johnson e due giornalisti-scrittori che precedentemente  avevano screditavano Tesla e ora lo acclamano.

Attorno al tavolo i sei attori mettono in scena i  complicati rapporti che legavano Nikola Tesla, di grande intelletto e curiosità scientifica fin da quando era un bambino, ai suoi amici e soci d’affari; fra difficoltà a rimanere fedele alla sua idea di un’energia gratuita accessibile a tutti, difficili scelte economiche che portano alla sua povertà e alla bancarotta di Westinghouse, il sentimento d’amore platonico verso Katharine MacMahon Johnson, l’impossibilità a potersi dedicare ad altro che non sia la ricerca scientifica.

Il trailer video dello spettacolo suggeriva una messa in scena piuttosto sperimentale, ma la compagnia NeedTeatro ha scelto di proporci qualcosa di totalmente inaspettato, uno spettacolo in cui la voce è la vera protagonista, in cui la bravura degli attori sta nel riuscire a trasmettere al pubblico le sensazioni e le emozioni che caratterizzano i personaggi senza permettere una grande mobilità spaziale, quasi ancorando gli attori alle proprie sedie e al proprio ruolo. C’era grande concentrazione e immersione nel restituire fisicamente la tensione, in un gioco di controllo sugli altri partecipanti a questa specie di banchetto in onore di Tesla, grande rigore e rispetto per l’endecasillabo e desiderio di restituirci una lettura interessante e complessa di Nikola Tesla in soli 70 minuti.

Andreea Hutanu

NIKOLA TESLA/A PORTRAIT
Di
 Jacopo Squizzato
Regia Jacopo Squizzato
Con Jacopo Squizzato, Pasquale Di Filippo, Roberta La Nave, Alessio Genchi,  Roberto Adriani, Mauro Bernardi, Lorenzo Bassotto, Francesco Sferrazza Papa
Produzione Festival delle Colline Torinesi – Fondazione TPE

CAUSA DI BEATIFICAZIONE: TRE DONNE, TRE ENIGMI.

Posti a sedere pieni alla scuola Holden. Lo spettacolo si apre con una giovane attrice (Matilde Vigna) seduta di spalle al pubblico in procinto di osservare un video. Nel primo Canto, la ragazza interpreta una prostituta kosovara provata dalla guerra dei Balcani, tanto che analizza il sangue e la carneficina delle vittime legandola alla parola “formaggino”. Questa parola risuona il tutto il primo Canto insieme alla presenza del colore arancione. Lo schermo si apre con l’immagine di Eros Ramazzotti che canta Terra Promessa. L’attrice è fortemente attratta dalle parole del cantante perché spera che in futuro ci sia realmente un luogo per poter scappare via da quell’orrore. Al lato del muro troviamo l’ attore (Giulio Cavallini) quasi sempre in ombra, che non parla per tutto lo spettacolo ma è sempre presente facendo percepire i fantasmi dei vari personaggi che interpreta. Ci penserà lo schermo dietro di loro a creare una voce Over che rispecchia i loro pensieri inconsci.

Nel secondo Canto, la narrazione è totalmente diversa. Siamo in Palestina, questa volta viene analizzata la storia di una donna kamikaze, vittima di non poter concepire. “Ho i ferri in pancia” questa è la frase che affiora più e più volte, è vittima di se stessa. Il video, in questo caso, prende maggior rilievo perché l’attrice sviluppa una doppia identità, quella riflessa nello schermo e quella presente sul palco. Entrambe si scambiano pensieri, canti, dialoghi da far venire i brividi.

Il terzo Canto si conclude con la storia di una suora nell’Italia del medioevo innamorata follemente di Gesù. Il racconto si basa su una notte di passioni mistiche tra lei e Gesù che la donna non rivelerà per non sembrare una pazza. In realtà il messaggio è fortemente allusivo e crudo allo stesso tempo. L’ odore dell’incenso, la presenza delle candele e l’esaltazione del crocifisso fa sembrare di essere realmente in chiesa lasciando un finale amaro.

In questo spettacolo la presenza del video è costante, l’audio e i suoni sono perfettamente connessi, trovando giochi di animazione, di sovrapposizione e di condivisione. L’attrice Matilde Vigna è riuscita ad impressionarmi per la sua completezza, il suo carisma e la sua potenza nell’interpretare tre identità totalmente diverse, mentre l’attore Giulio Cavallini è riuscito a far riemergere in tutto lo spettacolo la presenza dello sguardo maschile che incombe.
Direi che lo scrittore Massimo Sgorbani è riuscito a pieno nel suo intento. Spero di poter rivedere lo spettacolo in un palcoscenico più grande.

di Massimo Sgorbani
regia Michele Di Mauro
con Matilde Vigna
adattamento e progetto sonoro Michele Di Mauro
luci e scene Lucio Diana
video Giulio Maria Cavallini
suono Alessio Foglia
make up artist Katerina Di Mauro
studio di registrazione Arca Studios Torino
factotum Elvis Flanella
produzione Teatro Piemonte Europa/Festival Delle Colline Torinesi
Grazie a Gabriele Zecchiaroli e Carmela Santoro

Recensione a cura di Alessandra Nunziante