Archivi tag: in evidenza

FDCT23-VIENI SU MARTE/VICOQUARTOMAZZINI

 

VicoQuartoMazzini/ Vieni su Marte   

andato in scena il 6 Giugno alla Casa del Teatro

Uno spettacolo di VicoQuartoMazzi                  
regia Michele Altamura e Gabriele Paolocà

interpretato da Michele Altamura e Gabriele Paolocà
drammaturgia Gabriele Paolocà
scene Alessandro Ratti
costumi Lilian Indraccolo
produzione VicoQuartoMazzini, Gli Scarti

con il sostegno di Officina Teatro, Kilowatt Festival, Asini Bardasci, 20Chiavi Teatro

con il sostegno del MiBACT e di SIAE, nell’ambito dell’iniziativa “Sillumina – Copia privata per i giovani, per la cultura”

 

VicoQuartoMazzini è una compagnia di teatro indipendente formata da Michele Altamura e Gabriele Paolocà. Ultimamente ha portato avanti un personale progetto di rivisitazione dei classici e tra i lavori più recenti ricordiamo Karamazov (2017) e Little Europa(2016) dal Piccolo Eyolf di Ibsen. Questa volta la giovane compagnia porta al Festival delle Colline Torinesi, in una prima nazionale, la storia di una iperbolica e folle spedizione del genere umano su Marte. Il tutto liberamente ispirato a Cronache Marziane di Ray Bradbury.

Nel 2012  parte un progetto, dal nome Mars One, che intende installare una colonia permanete sul pianeta rosso; arriva un numero esorbitante di candidature: 202.560. Non basta più spostarsi in una città dall’altra parte del mondo ma l’uomo moderno sembra avere bisogno di un pianeta nuovo. Che cosa cerchiamo? Cosa stiamo inseguendo che non troviamo qui ma proiettiamo in un altro pianeta? Da cosa vogliamo scappare? Lo spettacolo, dalla durata di settanta minuti, cerca appunto di indagare quali siano i desideri e le motivazioni di queste persone pronte a lasciare tutto e ricominciare da zero. Questo viene reso alternando a scene teatrali proiezioni video, tra cui spezzoni delle candidature inviate per il progetto. I candidati spiegano le loro motivazioni a muoversi sul pianeta rosso e il piano che hanno in mente di sviluppare; emerge molto forte l’urgenza di avere uno spazio nuovo in cui potere trovare la propria identità da capo, uno spazio che li accolga, uno spazio dove non ci siano guerre, non ci sia corruzione e si possa, invece, essere felici. Vieni su Marte, infatti, parte proprio da questa riflessione, per poi aprire numerose finestre tematiche che riguardano l’umanità a tutto tondo, correndo il rischio, forse, di non riuscire ad approfondirle tutte nello stesso modo.

L’emigrazione viene trattata, innanzitutto, facendo rifermento al fenomeno dell’emigrazione italiana interna degli anni ’50 e ’60: gli attori parlano dialetti di varie località italiane durante tutta la durata dello spettacolo. C’è chi è costretto a spostarsi per motivi di lavoro oppure in cerca di fortuna perché non trova il proprio spazio nel mondo, come il clochard che vorrebbe fare l’attore. L’idea è molto interessante anche se non è così chiara la relazione dell’uso continuato del dialetto con tutte le tematiche trattate. L’emigrazione viene sviluppata, infatti, anche richiamando la colonizzazione europea degli indiani d’America; emigrazione come imposizione da parte degli occidentali dei propri usi e costumi che si presume siano più evoluti  e migliori rispetto agli usi “incivili” delle popolazioni indigene. Qui gli indigeni  sono i Marziani; non c’è neanche il tentativo di conoscerli ma da subito l’uomo si impone; vuole costruire un’altra “Terra” su Marte, il che collide con il desiderio di cambiamento e novità alla base dell’intera spedizione sul pianeta rosso. Sembra prevalere la paura. E’ inconcepibile la presenza di qualcuno che non sia come noi, Il Marziano va umanizzato ad ogni costo. Questo è reso possibile immaginando di sottoporre il marziano ad un percorso psicoanalitico in cui ovviamente l’analista è umano. La figura dell’analista, purtroppo poco credibile come tale perché troppo aggressivo e incalzante, si sforza di fare emergere i traumi inconsci, in realtà inesistenti, del paziente. Il povero marziano vive ignaro di ogni paura e inquietudine dipingendo stelle prima dello sbarco degli umani.

La scena finale, molto d’effetto, rappresenta il Marziano finalmente UMANIZZATO dopo un lungo tempo di lavaggio del cervello; piange sconsolato sulle ginocchia dell’analista che è fiero del proprio paziente. Vieni su Marte ha sicuramente il merito di portare in scena l’umano con le sue paure e contraddizioni grazie e una drammaturgia molto varia.

Carola Fasana

FDCT23 – PLATONOV

Il 7 e l’8 giugno, alle Fonderie Limone di Moncalieri per la settima e ottava giornata del Festival delle Colline Torinesi si è tenuta, in prima assoluta, la reinterpretazione del regista Marco Lorenzi (al quale siamo riusciti a strappare una piccola intervista), affiancato dalla compagnia “Il Mulino Di Amleto“, del Platonov di Anton Cechov, uno dei primi drammi da lui scritti (1880-81).

Nel pre-spettacolo avremo una veloce e gaia presentazione del regista, gioiosa infatti sarà anche la prima parte del primo atto, dove vedremo i nostri attori imbandire un grande tavolo con bottiglie e contenitori di vetro contenenti vodka, importante simbolo della Russia e dello spettacolo in sè, e nel contempo, accompagnati dalla musica, gestita da uno dei personaggi seduto alla console. Dopo qualche minuto dall’arrivo di Platonov entreranno in scena pure la rabbia, il risentimento e la frustrazione fra i personaggi, sia per sciocchezze che per fatti di una certa importanza, ma l’allegria non lascerà mai il palco, creando una vera e propria altalena di sentimenti, la “Russità“.

Ma cos’è la “Russità“? Come ci spiega il regista, la russità è un neologismo utilizzato dai personaggi stessi, appunto per descrivere questa complessità emotiva altalenante continuamente presente durante il dramma e a volte anche durante la vita di tutti i giorni.

Cechov mandò il suo testo a diverse personalità di rilievo, fra cui una grande attrice del Maly Theatre di San PietroburgoMarija Ermolova, che, ahimè, gli consigliò di cambiare mestiere, al che lui si sbarazzò del dramma. In seguito, nel 1920, venne scoperta la prima stesura dell’opera e finalmente fu resa pubblica.

Il Platonov di Cechov è un opera divisa in 4 atti, ma in questa reinterpretazione godremo dei primi 3 e il quarto ci verrà narrato. Cechov, dopo quest’opera, abbandonò per lungo tempo il teatro dedicandosi ai racconti, ma nei suoi futuri testi teatrali prevarrà comunque la costante ricerca dell’uomo della felicità, sempre convinto che essa non si trovi lì con lui ma da un altra parte, tema che troviamo nel Platonov e spesso anche nella nostra esistenza. Altro tema di massima importanza è l’amore, amore al cui centro troveremo appunto Platonov, sposato, con amante e spasimante, ma tutto quest’amore è falso, l’amore non è un dono che bisogna ricevere per sentirsi completi, ma qualcosa di spontaneo e puro. Marco Lorenzi ci racconta come Oskaras Koršunovas (importante regista lituano) gli  abbia spiegato la sua intenzione di mettere in scena il Platonov dandogli di un ottimo consiglio:

Devi pensare che racconta della crudeltà dell’amore.

A mio parere, per questo dramma, Cechov fu influenzato da Arthur Schopenhauer per sua stesura. Qui citerei una delle frasi più famose del filosofo per far capire in che modo:

La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra noia e dolore, con intervalli fugaci, e per di più illusori, di piacere e gioia.

Quest’opera, a sua volta, ha influenzato il famoso regista, sceneggiatore e scrittore francese, Jean Renoir nella stesura della sceneggiatura de La regola del gioco, dove possiamo trovare situazioni e significati simili a quelli del Platonov.

Realizzare questo dramma si deve essere rivelata un’impresa ardua, considerata la profondità e l’intensità dell’opera, ma il regista insieme alla compagnia ha svolto, a mio avviso un ottimo lavoro donandoci una godibile revisione. Gli attori come il pendolo oscilleranno fra amore e odio, tristezza e felicità con una facilità incredibile e riuscendo a rimanere credibili per tutta la durata dello spettacolo.

Per quanto riguarda la scenografia, ci troveremo inizialmente un tavolo vuoto, gli attori seduti su delle sedie e un pannello vetrato mobile praticabile in fondo al Décor. In seguito gli attori imbandiranno il tavolo, sposteranno le sedie e ci sarà un continuo mutamento della scena. Il pannello verrà utilizzato per il cambio del’ambiente, e in una scena di grande confusione verrà pure fatto ruotare velocemente in un mix di euforia e caos che rappresenterà a pieno i contrastanti sentimenti dei personaggi ormai alla deriva.

Recensione a cura di Roberto Lentinello

Da Anton Cechov
Regia Marco Lorenzi

Uno spettacolo di Il Mulino di Amleto

Con Michele Sinisi
e con Stefano Braschi, Roberta Calia, Yuri D’agostino, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Rebecca Rossetti, Angelo Maria Tronca
Adattamento Lorenzo De Iacovo e Marco Lorenzi
Regista Assistente Anne Hirth
Style e visual concept Eleonora Diana
Disegno luci Giorgio Tedesco
Costumi Monica Di Pasqua

Co-produzione Elsinor Centro Di Produzione Teatrale, Festival delle Colline Torinesi, Tpe Teatro Piemonte Europa
Con il sostegno di La Corte Ospitale – Progetto Residenziale 2018
in collaborazione con Viartisti per La Residenza Al Parco Culturale Le Serre

FDCT23-LATE NIGHT_APPLAUSI SCROSCIANTI

Cosa si aspetta la società del XXI secolo dall’arte? Arduo compito dare una risposta a questo interrogativo e ai numerosi altri che il Bliz Theatre Group pone al pubblico con lo spettacolo Late Night. Novanta minuti di performance intensa, che racconta le macerie di un’Europa devastata dalla guerra attraverso gli occhi di tre donne e tre uomini che si trovano in una sala da ballo fatiscente. Qualcuno nemmeno si ricorda come ci sia finito. Padroni di questo luogo surreale sono il tempo e l’attesa. Ma cos’è che i sei stanno aspettando? Davvero siamo solo esseri umani in balia degli eventi e che altro non possono fare se non attendere che tutto quanto finisca? E, soprattutto, come trascorrere questo tempo? Danzando. Continua la lettura di FDCT23-LATE NIGHT_APPLAUSI SCROSCIANTI

FDCT23 – Intervista a Marco Lorenzi (Mulino di Amleto)

Il buongiorno dal Festival delle Colline Torinesi arriva oggi con un’intervista al regista Marco Lorenzi della compagnia Il Mulino di Amleto, in attesa del debutto in prima nazionale il 7 e l’8 giugno alle Fonderie Limone di Moncalieri di una personalissima e scatenatissima versione di Platonov, uno dei primi lavori, classe 1880, del maestro Anton Cechov.

Poche parole per descrivere il cuore di questo lavoro? Complessità, umanità, emotività, felicità, trasparenza, crudeltà dell’amore…  insomma:  russità!

E le Colline, cosa c’entrano con tutto questo?

“Il Festival delle Colline è un posto dove si può rischiare, si può sbagliare, si può cercare” Marco Lorenzi

Buona visione

A cura di

Andreea Hutanu, Eleonora Monticone, Roberto Lentinello

FDCT23 – RITRATTO DI DONNA ARABA CHE GUARDA IL MARE

Il 5 giugno alle Lavanderie a Vapore, quarta giornata della 23esima edizione del Festival delle Colline, è andato in scena  Ritratto di donna araba che guarda il mare. Il contrasto tra culture è essenzialmente al centro di questo spettacolo del regista Claudio Autelli e della compagnia milanese Lab121, che mettono  in scena il testo di Davide Carnevali, vincitore del 52° Premio Riccione per il Teatro nel 2013. 

La compagnia ha scelto di non apportare tagli al testo, ma di usarlo integralmente, accludendo sia didascalie che titoli dei capitoli. Per trasformare le parole di Carnevali in suono e immagini, hanno utilizzato una handycam, che durante la narrazione riprende piccoli luoghi creati del modellino attorno a cui gli attori recitano. La scenografa Maria Paola Di Francesco si è occupata anche della realizzazione del modellino: molto bello e preciso nei dettagli, mette lo  spettatore  davanti a luoghi creati con la carta. Grazie alle riprese della macchina si entra a far parte di posti misteriosi dei quali non conosciamo i nomi. Si intuisce solo di essere in una città del Nordafrica. È in queste riprese, utilizzate come fondale scenografico con l’aiuto di un videoproiettore, che ci viene raccontata la storia dei due personaggi principali. Un turista europeo che incontra una donna araba al tramontar del sole, di fronte al mare. Da qui nasce la curiosità da parte di entrambi di rincorrersi e conoscersi. Una storia che parla di amore, della condizione della donna e del potere dell’uomo. Le inquadrature che si creano davanti ai nostri occhi sembrano rappresentare dei quadri che ci ricordano per certi versi quelli di Hopper.

L’obiettivo dello spettacolo consiste nel tentativo di creare qualcosa che si componga pezzo per pezzo, come fosse un puzzle, mettendo insieme piccole parti che solo alla fine, unendosi, mostrino un disegno più grande. Il testo di per sé è, purtroppo, fin troppo statico e alcune delle scene potrebbero godere di un ritmo più incalzante, al fine di favorire la fluidità dell’azione. Quello su cui sembra giusto focalizzarsi, quando si va a vedere questo spettacolo, è la grande componente narrativa che ne costituisce l’ossatura: è il rapido articolarsi di un turbinio di battute, una “guerra verbale”, come l’ha definito il regista Claudio Autelli. Un testo che mostra quanto a volte la differenza di linguaggio, l’impossibilità comunicativa e le divergenze culturali non siano solo frutto di origini geografiche eterogenee ma anche di tradizioni sociali e radici etniche diverse. Una diatriba verbale che genera lontananza e fomenta malintesi, fino a degenerare nel disastro.

Quando la donna araba parla di “fratelli” non parla solo di parenti di sangue ma si porta dietro l’idea di “famiglia”, di onore, di protezione verso le “proprie” donne, di senso di possesso, di controllo. Da spettatrice italiana vedo queste dinamiche non totalmente estranee ad alcune delle nostre tradizioni. Poco cambia dalle situazioni che si verificano soprattutto al Sud Italia, come ha voluto aggiungere Giacomo Ferraù dopo lo spettacolo durante la “Mezz’ora con…”, essendo lui siciliano.

I personaggi sono quattro, tutti contornati da un’aura di mistero. Vengono usati soprattutto come simboli per manifestare dinamiche relative a differenti costumi e di abitudini sociali.

L’uomo europeo, interpretato da Michele Di Giacomo, è un personaggio molto schivo che vuole ammaliare la donna senza però riuscire a prendere coscienza di non essere in Europa ma di avere a che fare con una quotidianità totalmente diversa dalla sua. Uomo di grande presunzione, dai comportamenti egoistici, crede di poter ottenere tutto ciò che vuole.

Alice Conti veste i panni della donna araba, donna che non accetta il rigido stereotipo femminile inseguendo un desiderio di libertà non raggiunto appieno, nonostante le vedute decisamente aperte della sua famiglia. Si sente più indipendente rispetto alle amiche che è costretta ad accompagnare una ad una fino all’uscio di casa, anche a tarda notte. Però, nonostante la sua apparente forza interiore, chiama i suoi fratelli perché rivendichino il suo onore ne confronti dell’uomo che l’ha ferita.

Giulia Viana interpreta invece il bambino, fratello minore della donna, che si porta dietro un sentimento di inquietudine. È soprattutto sul finire della vicenda che si fa avanti il dubbio sulla sua reale natura: buona oppure no? Il suo compito è quello di aiutare veramente l’uomo europeo o, come per gli altri fratelli, ha gli occhi offuscati dalla vendetta? È una domanda a cui Davide Carnevali non vuole dar risposta, ma alla quale preferisce sia lo spettatore, a modo suo, a dare una soluzione interpretativa.

L’ultimo dei quattro, impersonato da Giacomo Ferraù, è il fratello maggiore della donna. Ci è dipinto come uomo compassionevole, nonostante si abbia l’impressione che non sia l’unica sfumatura della sua vera essenza. Si può essere caritatevoli e buoni anche quando un uomo ha fatto del male e ha approfittato della propria sorella? La sua rabbia è dovuta solo al senso di protezione verso la famiglia di appartenenza, o è invece la rivelazione di qualcosa di più oscuro?

L’autore, oltre a proporre una riflessione su migrazioni di popoli e scontri tra culture, se di speranza vuole parlare, non può che lasciar il messaggio finale al bambino. Si può, in questo caso, intravvedere uno spiraglio di ottimismo, vista l’ultima scena dello spettacolo? Possiamo credere inoltre che il confronto tra i due uomini (tra le due culture, aggiungerei) non si sia rivelato fatale? Anche questo non è esplicitato da Carnevali, stimolando così lo spettatore a concludere la storia in base al proprio pensiero e alla personale visione del mondo in cui vive.

Alessandra Botta

di Davide Carnevali
regia Claudio Autelli

con Alice Conti, Michele Di Giacomo , Giacomo Ferraù e Giulia Viana
scene e costumi Maria Paola Di Francesco
suono Gianluca Agostini
luci Marco D’Andrea
responsabile tecnico Stefano Capra
organizzazione Camilla Galloni e Carolina Pedrizzetti
distribuzione Monica Giacchetto
ufficio stampa e comunicazione Cristina Pileggi
assistente alla regia Marco Fragnelli

produzione LAB121
in coproduzione con Riccione Teatro
con il sostegno di Next/laboratorio delle idee per la produzione e la distribuzione dello spettacolo dal vivo in collaborazione con Teatro San Teodoro Cantù

FDCT23 – I LIBRI DI OZ

Ambiente scuro, un grande proiettore bianco che risalta sul fondo della scena. Un tavolino nero al centro con sopra un grande libro, una lente tonda, delle scarpette rosse. Ecco la scena semplice, essenziale e per questo estremamente esplicativa de I libri di Oz, spettacolo che è andato in scena domenica 3 Giugno presso Caffè Muller per il Festival delle Colline Torinesi.

Chiara Lagani, fondatrice della compagnia teatrale Fanny & Alexander, ha tradotto e antologizzato per i Millenni di Einaudi i quattordici romanzi di Baum ambientati nel magico mondo di Oz. Con lei ha collaborato l’illustratrice Mara Cerri, realizzando una serie di disegni a colori e in bianco e nero per accompagnare le storie, ma soprattutto per aprire nuove chiavi di lettura e per dare nuova vita a racconti che da più di un secolo accompagnano l’infanzia dei bambini.

È proprio con l’ausilio di queste interessanti illustrazioni, proiettate alle spalle dell’attrice, e di alcuni suoni abilmente scelti, che Chiara Lagani inizia a raccontare lo spirito del ciclo dei libri di Oz: inizia leggendo dal libro, ma subito quello che sembra essere un reading si trasforma in un vero e proprio recital grazie al carisma dell’attrice, che pur essendo sola sulla scena, dà l’impressione di essere circondata da tutti i personaggi nominati.
Con l’ausilio di un microfono crea effetti sonori e voci per ogni protagonista della storia che prende la parola.

Quasi come una maestra che vuole insegnare ai suoi alunni la creatività da dietro la cattedra, anche Chiara Lagani rimane quasi sempre in piedi dietro al tavolino e per questo può sembrare un po’ statica, ma grazie al movimento della parte superiore del corpo e al controllo e l’uso della voce, riesce a trasportare tutti gli spettatori nella storia che sta abilmente raccontando, catturando l’attenzione per tutto il tempo.

Tramite l’evocazione di queste storie e dei personaggi sono tanti i temi affrontati dall’antologia, che chiaramente si rivolge anche agli adulti, pur essendo pensata per i bambini: dall’immaginazione al mito, dall’amore alla morte, le tematiche sono molteplici e tutte possono dare spunti di riflessione.

Sebbene questi libri siano stati oggetto delle più svariate interpretazioni, da quelle politiche a quelle economiche, da quelle religiose a quelle psicanalitiche, lo spettacolo non vuole imporre al pubblico una chiave di lettura, ma mostrare semplicemente la varietà di questo mondo e la sua perfetta e logica costruzione: tutto, per quanto fantastico, ha un senso, anche geograficamente parlando; infatti anche l’attrice, circa a metà dello spettacolo, sente l’esigenza di spiegare agli spettatori la composizione geografica del Mondo di Oz, mostrandone la complessa articolazione, che appare infatti totalmente coerente. L’autore Baum non ha di certo lasciato niente al caso.

Vengono quindi dati allo spettatore tutti gli strumenti per comprendere queste storie, per amarle o per non aprezzarle, e per trovarvi significati nascosti.

 

a cura di Alice Del Mutolo

 

di Chiara Lagani
regia Luigi De Angelis

con Chiara Lagani
testi di Frank Baum tradotti da Chiara Lagani per I Millenni di Einaudi
illustrazioni Mara Cerri
paesaggio sonoro Mirto Baliani
animazioni video Luigi De Angelis

produzione Elastica, E/Fanny & Alexande

presentato in collaborazione con Giulio Einaudi Editore

FDCT23 – Copioni di commento. Giulio Cesare, Pezzi staccati

Seconda giornata del Festival delle Colline Torinesi, ormai arrivato alla sua 23esima edizione e alla nostra terza collaborazione con loro.

Io ed Emily ci siamo spostate dal nostro palchetto per andare a sederci sui cuscini alla Fondazione Merz per assistere alla performance di “Giulio Cesare, pezzi staccati”.

Cosa abbiamo visto? Questa è la domanda che ci siamo fatte appena siamo uscite dalla fondazione Merz.

SIPARIO

Sulla terrazza di casa, al calar della sera, mentre il glicine all’angolo segue le trame di una brezza leggermente fastidiosa, Emily ed Elisa discutono a proposito dello spettacolo visto poc’anzi.

Emily è seduta al grande tavolo bianco che cerca di bere da un bicchiere senza usare le mani.

Elisa entra reggendo tra le mani una grossa pentola (si capisce che scotta perchè usa le presine da forno) ma appena si accorge di quello che sta facendo Emily arresta la sua entrata per guardarla con un leggero disgusto dipinto in volto.

 

Emily (accorgendosi dell’ingresso di Elisa) :  Ma perché quando vengo a teatro con te non capisco mai cosa ho visto e ci ritroviamo a scriverci sempre su…?

Elisa (appoggia la pentola sul tavolo schiaffeggiando la mano dell’altra che è subito scattata verso il cibo) : Perchè scegliamo gli spettacoli in base al titolo e forse dovremmo smetterla. Secondo me dovremmo cambiare la metodologia  di scelta degli spettacoli.

Emily : Mi trovi d’accordo. Ora, siccome non so da dove partire, inizierò con la domanda più semplice: ti è piaciuto?

Elisa : Non è semplice dare un parere quando non hai capito bene cosa hai visto… Oddio, molto bello e interessante il modo di lavorare sulla ferita alla gola di Giulio Cesare creando nuovi metodi di comunicazione alternativi alla voce.

Emily (approfittando di un momento di distrazione ruba qualcosa dalla pentola cercando di mangiarlo di nascosto) : In effetti è una performance basata sull’origine  della comunicazione a partire proprio da dove il suono nasce all’interno della nostra gola. È stato abbastanza impressionante vedere la ripresa laringoscopica che il primo attore ha operato su se stesso. Non so tu ma io non avevo mai visto l’interno di una gola. (fa sparire il boccone in un morso)

Elisa le molla una sonora pacca tra le scapole accorgendosi che la meschina sta soffocando a causa del boccone rubato.

Elisa : Beh sono cose che non si vedono spesso a teatro. Sono impressionata dalla resistenza dell’attore perché mi ricordo del mio esame laringoscopico! è fastidioso avere la lucina nel naso e in gola  figuriamoci recitando Shakespeare! Complimenti!

finalmente iniziano a cenare e Emily non è un bello spettacolo. Elisa quasi non tocca cibo  disgustata dall’allegria famelica dell’altra.

Emily: Comunque con gli attori vestiti con quelle tuniche bianche sembrava di essere un po’ in un ospedale. Erano un mix tra medici,monaci e chierichetti. Anche la location contribuiva all’illusione ambulatoriale: bianco al limite dell’ossessione e scenografia scarna, essenziale e glaciale.

Elisa (ispirata, è ossessionata da cavalli e unicorni) : Vogliamo parlare del cavallo?

Emily( ribadendo l’ovvio): Era un vero cavallo!

Elisa : Era un bellissimo cavallo! Mi chiedo il significato delle parole bianche che gli hanno scritto addosso in contrasto con il cavallo che era l’unica cosa nera all’interno della performance: Mene Tekel Peres…

Emily (con la bocca piena) : Beata te che sei a questo punto, io sono rimasta a cercare di capire il significato del cavallo stesso. Forse per capire alcuni significati dovremmo ,come ci ha gentilmente suggerito la professoressa Mazzocchi (salve professoressa), evitare di intellettualizzare ciò che abbiamo visto attribuendo agli elementi scenografici il loro significato di base.

Elisa (aggrotta le sopracciglia) : Quindi per te il significato del cavallo è.. che è un cavallo? complimenti, molto profondo…

Elisa si alza e inizia a sparecchiare un po’ seccata perchè tocca sempre a lei fare tutto. Per manifestare la sua irritazione raccoglie le stoviglie con troppa veemenza, punteggiando la sua breve filippica di allegri tintinnii

Elisa (digrignando un po’ i denti) : Però hai ragione sul pensare basic,mi viene in mente il colore rosso che rievocava il sangue, il pulpito da cui era incomprensibile il discorso del laringectomizzato Marco Antonio o per concludere le lampadine accese tutte insieme e fatte scoppiare una ad una come se fossero le fasi di passaggio della vita che mano a mano si spengono e non torneranno più indietro.

Si alza anche Emily che, dopo aver schivato una lama sfuggita dalle mani nervosette di Elisa, decide di dare una mano all’amica.

Emily : Probabilmente assistendo a questo tipo di teatro concettuale non ci si dovrebbe interrogare troppo su ciò che si vede ma semplicemente, andando a casa, conservare la sensazione che ti resta.

Elisa : Ci sono degli spettacoli che vanno visti e basta, interiorizzandoli nell’intimo della propria camera da letto. Senza farci troppe parole sopra..e questo è uno di quelli.

Emily (sbadigliando) : Quindi camera da letto?

Elisa : Si, buonanotte!

Emily : Sicuramente sognerò il cavallo, buonanotte.

BUIO

SIPARIO.

A cura di Elisa Mina ed Emily Tartamelli

di Romeo Castellucci
regia Romeo Castellucci

ideazione Romeo Castellucci
con Giulio Cesare: Gianni Plazzi, Marcantonio: Maurizio Cerasoli, …vskji: Sergio Scaraltella
assistenza alla messa in scena Silvano Voltolina
tecnica Nicola Ratti
responsabile di produzione Benedetta Briglia
promozione e comunicazione Gilda Biasini, Giulia Colla
amministrazione Michela Medri, Elisa Bruno, Simona Barducci

produzione Societas

Nel quadro de “e la volpe disse al corvo. Corso di linguistica generale”
Progetto speciale della città di Bologna 2014

FDCT23 – LIV FERRACCHIATI / THE BABY WALK TRILOGIA SULL’IDENTITA’

Ieri sera, 1 giugno 2018, alla serata di apertura del Festival delle colline torinesi è andato in scena al Teatro Astra di Torino la trilogia sull’identità di Liv Ferracchiati/ The Baby Walk in collaborazione con Lovers Film Festival.

La trilogia è strutturata in tre capitoli, non legati da un filo narrativo ma uniti tra loro dal tema dell’identità di genere: “Peter Pan guarda sotto le gonne”, “Stabat Mater”, “Un eschimese in Amazzonia”.

The Baby Walk sono: Liv Ferracchiati (regista/autore, a volte, anche in scena), Greta Cappelletti (dramaturg/autrice, a volte, anche in scena), Laura Dondi (costumista/danzatrice), Linda Caridi (attrice), Chiara Leoncini (attrice), Alice Raffaelli (attrice/danzatrice), Lucia Menegazzo (scenografa), Giacomo Marettelli Priorelli (light designer/attore), Andrea Campanella (videomaker).

Capitolo 1 “Peter Pan guarda sotto le gonne” durata 70’

Sul palco c’è il nostro Peter Pan: una bambina bionda di 11 anni e mezzo (Alice Raffaeli) che si dimena con un vestito rosa che non vuole mettere, non se lo sente addosso ma la madre insiste. Pertanto Peter è costretto ad andare con il vestito al parco a giocare a pallone, la sua passione, e viene presa in giro da Wendy (Linda Caridi) una ragazzina mora di 13 anni di cui si innamora. Ed è grazie all’amicizia con Wendy e la chiacchierata con la fata Tinker Bell(Chiara Leoncini) la fata che esiste, che Peter piano piano acquisisce la consapevolezza della sua identità. E’ un bambino in un corpo di una bambina. Comincia a ribellarsi ,infatti,  e non indosserà mai più il vestito rosa.”Peter non è esattamente una femmina ma precisamente un maschio”. Peter comincia, come se si guardasse allo specchio, una danza con sua ombra (Luciano Ariel Lanza) la guarda, la tocca. E’così che dovrebbe essere il suo corpo da grande, un ventenne con le braccia muscolose, le spalle grandi e i capelli corti. Ma Peter sa che non andrà in questo modo, ed è per questo che non vuole crescere; vuole restare così come è, non vuole che il suo corpo si modifichi, non vuole che i suoi fianchi si allarghino, che le crescano delle protuberanze morbide sul petto. I genitori, che non agiscono mai direttamente ma sono presenti solo come voci, esultano all’arrivo delle mestruazioni alla loro bambina che è finalmente diventata un signorina, mentre per Peter questo è solo il segno indelebile di un corpo che è sempre meno sotto il suo controllo. La madre è molto apprensiva ,quasi soffocante, vorrebbe evitare ciò che ha intuito ma che non vuole accettare; il padre si esprime solo attraverso definizioni da vocabolario e sembra non capire cosa sta succedendo alla sua bambina. Sostanzialmente Peter è solo con tutte le sue paure. Peter, incarna tutti quegli adolescenti transgender che si trovano totalmente soli a gestire il disagio di avere un corpo che non rispecchia la percezione di sé, un corpo che avrebbe dovuto essere diverso.“Tu non sei un bambino vero Peter e io non sono la tua Wendy” riecheggia la voce interiore.

Capitolo 2 “Stabat Mater” durata 85’

Viene raccontata la vicenda di un ragazzo di 27 anni, scrittore; vive al maschile ma ha le sembianze di una ragazza. La sua storia viene analizzata in seduta con una psicoanalista (Chiara Leoncini) ripercorrendo in flashback la storia d’amore con la sua compagna(Linda Caridi) da cui attualmente si sente sempre più distante. Un elemento centrale considerato in terapia è la sua incapacità a buttarsi: ha paura e si sente sempre in stato di inferiorità, il che è strettamente connesso a un legame edipico irrisolto con la madre. La madre, rappresentata come un volto in uno schermo, che non ha ancora metabolizzato l’identità di suo figlio, lo chiama insistentemente e il figlio risponde in qualunque momento non potendo avere in questo modo la propria intimità. Di fatto non sanno cosa dirsi, è un parlare di nulla. La mamma vuole controllare che il figlio abbia mangiato perché se ha mangiato allora vuol dire che va tutto bene, che sua figlia sta bene. La tematica del cibo attraversa tutta la trilogia, cibo come vita contrapposto alla morte. Per tutta la durata dello spettacolo si ha la sensazione di essere nella sua testa dove momenti di quotidianità si fondono a momenti di pura invenzione. Ciò è reso da una drammaturgia con un ritmo serrato in cui il linguaggio quotidiano si alterna ad un linguaggio con forti connotati emotivi; il linguaggio dell’inconscio.

 

Capitolo 3 “Un eschimese in Amazzonia” durata 65’

Quest’ultimo capitolo della trilogia dalla durata di 65 minuti tratta del difficile rapporto della persona transgender (l’eschimese) e la società (il coro). Al centro c’è l’eschimese con un cappuccio, come per proteggersi, e un microfono in mano, intorno a lui si muove il coro, lo segue, lo accerchia. Il coro,composto da 4 attori (Greta Cappelletti, Laura Donfi, Giacomo Marettelli Priorelli, Alice Raffaelli), parla quasi sempre all’unisono con una lingua ritmata, molto spesso con accompagnamento musicale che lo rende ipnotico e pervasivo, a tratti soffocante e che si riflette in una gestualità scandita, ripetitiva. Sottopone l’eschimese ad un fuoco di fila continuo di domande ma non è realmente interessato ad ascoltare le risposte. Infatti hanno già le risposte fatte di stereotipi e luoghi comuni. Il monologo dell’eschimese, che si rifà al format della stand up comedy, è improvvisato e coinvolge il pubblico utilizzando l’ironia e la comicità per affrontare l’attualità politica ed esperienze di vita quotidiana. Oliver Hutton, l’eroe dell’infanzia diventa il simbolo del ”non arrendersi ”; infatti nonostante fosse sempre ferito alla spalla era sempre in campo e vinceva. Alla fine i fari accecano il pubblico, effetto che contribuisce a mantenere lo stato di confusione e spaesamento in cui lo spettatore è coinvolto per tutta la durata dello spettacolo, poi cala il buio e l’eschimese calcia il pallone. Il pallone apre e chiude la trilogia, un pallone che rappresenta il diverso ma allo stesso tempo la libertà.

Come è emerso dalle interviste fatte al pubblico dal progetto “nuovi sguardi”, gli spettacoli sono piaciuti molto e la tematica della ricerca dell’identità  e del conseguente disagio interiore è arrivato dritto al pubblico che si è sentito coinvolto ed emotivamente mosso.” Un turbamento emotivo”: così uno spettatore l’ha definito.

Carola Fasana

 

Questa terra è malata!

Questa terra è malata. Il mondo della Grecia antica preso ad emblema del nostro mondo contemporaneo, passando dall’Antico Testamento alla Danimarca amletica, da un mondo in cui il dio è morto, arrivando, possiamo dire, anche alla Los Angeles di Altman.  Il sacrificio come aeterna conditio del genere umano.

Ifigenia Liberata. Foto ©Masiar Pasquali

Carmelo Rifici mette in scena la tragedia di Euripide, Ifigenia in Aulide, attualizzandola, ma forse meglio dire universalizzandola. Lo spettatore viene spiazzato dalla presenza degli attori in scena a sipario aperto  fin da prima che lo spettacolo cominci, e da un buio che si fa attendere. Il pubblico non si accorge subito dell’inizio, continuando la sua parte di disturbatore. Appena ritrova le condizioni “comuni” di uno spettacolo, presto si acquieta.

Uno spettacolo che ammicca al teatro di Brecht, nel proporre una riflessione su diversi temi a partire da Ifigenia, attraversando diversi autori che hanno inciso nella cultura della propria epoca e di quelle successive: Eraclito, Omero, Eschilo, Sofocle, Renè Girard, Freidrich Nietzsche, e la Bibbia per fare qualche esempio. Uno straniamento dello spettatore e allo stesso tempo dell’attore, che si percepisce fin da subito, quando l’attore che interpreta la parte del regista (Tindaro Granata), spiega al pubblico l’impostazione dello spettacolo. Un teatro nel teatro, dove gli attori vengo diretti da un regista e una drammaturga (Mariangela Granelli) nel mettere in scena prima l’uccisione di Abele da parte di Caino, e poi varie scene dell’Ifigenia in Aulide di Euripide. Ogni scena è intervallata da riflessioni  del regista o della drammaturga, forse a volte un po’ scontate, rivolte al pubblico o agli stessi attori, che a volte non riescono a cogliere il senso di quello che stanno facendo. In questi intermezzi gli attori rimangono come sospesi  in un altro tempo, mentre lo spettatore è portato a ragionare sul perché i Greci accettano di sacrificare una fanciulla innocente. Lo spettacolo non perde di ritmo in questi frangenti, un’energia che subito si sprigiona quando gli attori riprendono a recitare. Attori di grande intensità e presenza fisica, che appena sono chiamati in causa dominano la scena, come dei veri condottieri , uomini valorosi che si trovano davanti ad una scelta difficile: Agamennone ( Edoardo Ribatto) , Menelao (Vincenzo Giordano), Odisseo (Igor Horvat). Anche le donne non sono da meno, forse mostrano più fragilità, incredulità, arrendevolezza, con corpi minuti, ma dolci con movimenti più sereni, forse già arresi al destino rispetto a quelli degli uomini: Clitemnestra (Giorgia Senesi), che deve cercare di mantenere l’onore dei suoi figli, e Ifigenia (Anahì Traversi). Al coro delle donne del popolo, le donne di paese diremmo oggi, che mostrano ,da un lato una conoscenza semplice delle situazioni, ma sognatrice, che si fanno influenzare dalle circostanze senza rifletterci, e dall’altro una misteriosa preveggenza, portatrici dei caratteri di una società, è affidato il compito di commentare quello che sta accadendo ai Greci, e di attualizzarlo, il tutto con un ritmo incalzante. Se si va a conquistare le loro città e stuprare le loro donne, non possiamo lamentarci troppo se loro poi verranno a conquistarci, così una frase del coro.

Ifigenia Liberata. Foto ©Masiar Pasquali

La scenografia è quella semplice di una sala prove, qualche sedia, una scrivania per la drammaturga che in scena scriverà il finale e uno schermo, in cui sono proiettati video in presa diretta di scene che avvengono fuori dal portone principale, un luogo separato dalla realtà, dove accadono solo eventi di grande portata, come per esempio l’uccisione di Abele o il sacrificio di Ifigenia. La musica è dal vivo con il musicista Zeno Gabaglio che suona diversi strumenti, tra cui spicca il contrabbasso che accompagna con la sua musica grave le scene più accese.

Veniamo al sacrificio. La bonaccia che costringeva all’esercito greco di rimanere nei terreni paludosi della pianura di Aulide, e poi la guerra che avrebbero voluto intraprendere, sono solo un pretesto per sfuggire ai loro peccati, ai mali. Senza guerra si massacrerebbero tra di loro, ci sarebbero guerre fratricide. Quindi si decide, con un certo sollievo (Agamennone prova un po’ di sollievo quando prende quella scelta, l’esercito reclamava il sangue che gli spettava), di scaricare le proprie colpe su altri.

Ifigenia Liberata. Foto ©Masiar Pasquali

Un sacrificio per redimere la Grecia intera, forse potremmo anche azzardare un sacrificio che è una costante di ogni epoca, un mito di cui si ha bisogno per forgiare la propria cultura. Qualcuno che si carica su di sè gli errori dell’umanità. Se si libera il male, il male contamina come la peste le persone e se si uccide il minotauro bisogna pagarne il prezzo. Allora l’unica via di scampo è tornare a racchiudere il male. Ifigenia accetta una morte gloriosa per la Grecia, accetta il suo compito per evitare catastrofi ulteriori, come Gesù accetta la crocifissione assorbendo tutti i peccati. Al destino non si sfugge. Nemmeno un vecchio, simbolo dell’uomo qualunque tentando di salvare Ifigenia, si accorge della  sua impotenza, l’impotenza dell’uomo di fronte al fatto. Ma perchè la dea vuole questo sacrificio? Gli dei sono esseri altri, imperscrutabili e a noi non è dato capire il loro scopo.

E qui si ricollega il senso ultimo dello spettacolo: la drammaturgia che non trova modo di far terminare la tragedia se non tramite il sacrificio di Ifigenia per dare un senso a tutta la vicenda, mentre per il regista il vero senso di questa vicenda umana, e quindi dello spettacolo, sta nel parlare di questo fatto per tentare di comprenderlo.

I classici sono sempre contemporanei, parlano anche al nostro presente; temi e miti fondanti della nostra umanità si protraggono fino ad oggi. Forse siamo impotenti davanti al divenire di certi voleri, ma a noi è dato il compito di riflettere, di capire, per poi poter avere una lieve forza per cambiare le situazioni. Far in modo che il sacrificio di Ifigenia, di Cristo e di ogni persona che viene cancellata per volere di una bomba, non sia stato invano e non si perda nella memoria del mito.

Emanuele Biganzoli e Roberto Lentinello

 

Produzione: Luganoinscena / in coproduzione con Lac Lugano Arte e Cultura, Piccolo Teatro Milano – Teatro Europa, Azimut in collaborazione con Spoleto Festival dei due mondi, Theater Chur, con il sostegno di Pro Helvetia, fondazione svizzera per la cultura.

Ispirato ai testi di Eraclito, Omero, Eschilo, Sofocle, Euripide, Antico e Nuovo Testamento, Friedrich Nietzsche, René Girard, Giuseppe Fornari

Progetto e drammaturgia: Angela Demattè e Carmelo Rifici

Regia: Carmelo Rifici

Interpreti: Caterina Carpio (corifea, ominide), Giovanni Crippa ( Calcante, Vecchio), Zeno Gabaglio (musicista), Vincenzo Giordano (Menelao, ominide), Tindaro Granata (regista), Mariangela Granelli (drammaturga), Igor Horvat (Odisseo, ominide), Francesca Porrini (corifea), Edoardo Ribatto (Agamennone), Giorgia Senesi (Clitemnestra), Anahì Traversi (Ifigenia)

Scene: Margherita Palli

Costumi: Margherita Baldoni

Maschere: Roberto mestroni

Musiche: Zeno Gabaglio

Disegno Luci: Jean-Luc Chanonat

Progetto visivo: Dimitrios Statiris

Cuore/Tenebra: racconto di una tirocinante.

Ho avuto la fortuna di svolgere il tirocinio presso il Teatro Stabile di Torino, seguendo come assistente allestimento la prima fase della creazione dello spettacolo Cuore/Tenebra: migrazioni da de Amicis a Conrad, in cartellone al Teatro Carignano dal 22 maggio al 10 giugno, con la regia di Gabriele Vacis e l’allestimento (o meglio, la scenofonia) di Roberto Tarasco.

Con questo articolo voglio condividere con i lettori del blog la mia esperienza in un mondo teatrale che non conoscevo e che ho trovato estremamente interessante e coinvolgente.

Da subito mi è stato chiaro che non si trattava solo della produzione di uno spettacolo nel senso stretto del termine, ma che questo sarebbe stato il risultato finale di un progetto più ampio.

Cuore/Tenebra infatti è il primo esito spettacolare dell’Istituto di Pratiche Teatrali per la Cura della Persona, un progetto ideato da Gabriele Vacis, Roberto Tarasco e Barbara Bonriposi, sostenuto dal Teatro Stabile di Torino, la Regione Piemonte e la Compagnia di San Paolo.

Per comprendere l’esperienza dello spettacolo è indispensabile fare un excursus sul progetto da cui nasce.

L’Istituto di Pratiche Teatrali per la Cura della Persona propone un teatro sociale, basato sull’inclusione, dedicandosi alle tecniche che il teatro può offrire all’individuo, a prescindere dallo spettacolo e facendole confluire nella pratica della Schiera e nel teatro di narrazione.

La base per la cosiddetta salute personale è la consapevolezza.

In un mondo dove l’attività principale è il fare, non siamo più abituati a soffermarci ad ascoltare noi e le persone che abbiamo accanto, non siamo più in grado di prestare attenzione allo spazio in cui ci troviamo e alle relazioni che in questo spazio stabiliamo.

La parola chiave è Attenzione, e la pratica con la quale viene allenata prende il nome di Schiera, o Stormo.

Ispirandosi al volo degli uccelli, la pratica della schiera (apparentemente ma ingannevolmente facile), chiama in causa corpo, movimento e voce. Si tratta di ascoltare ciò che accade e farne costantemente parte, con la consapevolezza che chiunque può modificarlo in qualsiasi momento; di trovare un respiro comune, in cui si è parte di un coro, ma si è anche persona singola, si è parte di un gruppo ma si è anche protagonisti, consapevoli del fatto che le dinamiche e le relazioni cambiano costantemente.

Accanto all’allenamento dell’attenzione, la narrazione.

Ognuno di noi ha la sua storia, o meglio, le sue storie da raccontare e il palcoscenico si offre come il luogo dove farsi ascoltare. Un teatro per dare voce ai racconti.

A questo proposito l’Istituto porta avanti diverse attività tra le quali i colloqui con i migranti e i laboratori nelle scuole.

Mi ricollego ora con il progetto specifico Cuore/Tenebra, con il quale ho collaborato.

Lo spettacolo vede la partecipazione, oltre ad attori a tutti gli effetti, di un paziente del centro di salute mentale di Settimo Torinese, un ragazzo immigrato e sei scuole superiori di Torino e provincia.

Il punto di partenza sono i due famosi romanzi: il libro Cuore di Edmondo de Amicis e Cuore di Tenebra di Conrad.

Cuore, uscito nel 1886 è da subito uno dei libri in assoluto più venduti, nel tempo elogiato o criticato, ma che non lascia di certo indifferenti. Forte la sua matrice pedagogica nel voler formare gli Italiani come popolo unito. Enrico, un ragazzino torinese delle scuole elementari, grazie al suo diario ci racconta l’Italia e le sue storie di ricchezza, povertà, amicizia ed immigrazione (dal sud al nord Italia).

Cuore di Tenebra, del 1899, è un libro di ben diverso spessore e complessità. Narra di un viaggio nell’Africa nera, raccontando le barbarie e le razzie compiute dalle potenze occidentali sul continente africano.

Lo stesso periodo storico raccontato dai due punti di vista: storie di colonialismo e immigrazione.

Sono queste storie che Gabriele Vacis vuole portare sul palcoscenico del Carignano, mescolate con i racconti dei ragazzi delle scuole superiori e le loro esperienze di vita. Il progetto infatti si sviluppa su due fronti: la creazione con gli attori e i laboratori nelle scuole.

Durante il mio periodo di tirocinio ho avuto modo di seguire entrambi i fronti, ma in particolar modo vorrei descrivere il lavoro svolto nelle scuole, poiché è questa esperienza a rendere cosi diversa la proposta di Gabriele Vacis e Roberto Tarasco.

Il principio fondamentale è che ai ragazzi non viene detto cosa devono fare e quando devono farlo, ma vengono allenati alla consapevolezza e al racconto. Da un lato praticando la schiera e ascoltando i testi (presi da Cuore e Cuore di Tenebra) che gli attori raccontano loro, dall’altro gli viene chiesto di ricordare ed elaborare delle esperienze personali a partire da spunti di riflessione nati da temi presenti nei libri, con lo scopo di creare un filo di collegamento tra i racconti di Enrico nel suo diario e la loro quotidianità scolastica: “Ricordi una volta che hai avuto davvero paura?”, “Quando ti sei sentito parte di un “noi”?”, “C’è stato un momento in cui ti sei sentito al sicuro?”.

Ogni classe si approccia in modo diverso, e in ogni classe ci sono ragazzini e ragazzine di ogni tipo: il bulletto che si rifiuta di fare le cose, il timido, quello a cui piace stare al centro dell’attenzione, il ragazzino veramente interessato a quello che si sta facendo.

All’inizio del percorso laboratoriale le differenze erano molto evidenti. Una cosa che mi ha colpito molto è stato vedere come man mano che il lavoro avanzava, i ragazzi hanno iniziato a capire l’importanza e soprattutto la bellezza di quello che stava accadendo, lasciando piano piano cadere le resistenze, trovando cosi il piacere di fare parte di questo progetto comunitario.

Di sicuro non è questo quello che si aspettavano quando gli è stato detto che avrebbero fatto parte di un progetto teatrale.                                     Più di qualcuno nelle video interviste o nel loro Diario ha scritto “ci aspettavamo di dover interpretare qualche personaggio, e invece passiamo il tempo a camminare”.

E difatti è cosi: non c’è nessun personaggio da recitare, c’è da portare sul palcoscenico se stessi. E per portare sul palcoscenico se stessi bisogna imparare ad essere presenti, nel qui e ora, in relazione a ciò che accade e alla presenza dei compagni.

Lo stesso tipo di allenamento viene chiesto agli attori, in prova alle Fonderie Limone. Ad ogni attore sono assegnati dei racconti, ma oltre a questo, non esiste una drammaturgia precisa di ciò che deve accadere in scena. Esiste solo la verità del presente di ognuno, e sono queste verità che vanno a costruire lo spettacolo.

Concludo così, augurando una buona visione a tutti coloro che saranno prossimamente tra il pubblico del Carignano.

Lara Barzon