Tutti gli articoli di Riccardo Ezzu

LA TEMPESTA – ALESSANDRO SERRA

Dal 15 marzo fino al 3 aprile è in scena alle Fonderie Limone di Moncalieri La tempesta, seconda regia e adattamento di Alessandro Serra di un’opera shakesperiana dopo Macbettu, spettacolo prodotto dal Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, dal Teatro di Roma – Teatro Nazionale, da ERT – Teatro Nazionale, Sardegna Teatro, in collaborazione con Fondazione I Teatri Reggio Emilia e Compagnia Teatropersona.

La tempesta, opera di commiato dalle scene del drammaturgo e poeta di Stratford-Upon-Avon, racconta di Prospero, duca di Milano spodestato, che con l’utilizzo della sua arte magica e con l’aiuto del fidato Ariel, spirito dell’aria, inscena una tempesta ai danni della nave su cui viaggiano il fratello Antonio, attuale duca di Milano, Alonso, re di Napoli, il loro seguito e il resto dell’equipaggio facendoli naufragare sull’isola in cui vivono l’esiliato Prospero, sua figlia Miranda e Caliban, figlio della strega Sicorax, dove i naufraghi vengono messi alla prova.

Il testo tratta e rinnova alcuni temi classici dell’opera di Shakespeare come la magia, la natura, il potere che «tutti cercano di usurpare, consolidare e innalzare» e il teatro, anche nelle sue accezioni più simboliche e metafisiche. Serra incentra il suo lavoro precipuamente su queste tematiche, costruendo una drammaturgia di immagini sceniche composte attraverso l’utilizzo di luci, nebbia, oggetti, suoni e costumi avvalendosi della simbologia dei mezzi teatrali a partire da quelli più immediati, corpo e voce, ad altri più elaborati: nella scena iniziale della tempesta, Ariel danza in armonia insieme ad un grande telo, simbolo delle acque del mar Mediterraneo, per far naufragare la nave di Alonso.

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SONORA DESERT – MUTA IMAGO

Martedì 9 e mercoledì 10 novembre, per il Festival delle Colline Torinesi, è andato in scena alle ‘Lavanderie a vapore’ di Collegno, lo spettacolo Sonora Desert della compagnia Muta Imago, composta da Claudia Sorace (regista) e Riccardo Fazi (drammaturgo/sound designer).

«È la prima volta che realizziamo un lavoro dove non c’è il teatro, non c’è la performance, non c’è un evento dal vivo di fronte allo spettatore, ma c’è un’esperienza proposta direttamente su di te che la fai» dice Riccardo Fazi, che si è gentilmente fatto intervistare.

Il nuovo spettacolo dei Muta Imago è un’installazione allestita in tre diverse stanze. Cinque, se si prendono in considerazione anche la stanza di ingresso, in corrispondenza della biglietteria, e l’uscita, dove si depositano e si recuperano gli effetti personali riposti in appositi contenitori trasparenti. 

«È una scommessa che richiede una disponibilità da parte di chi partecipa.»

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FLOP – DAL VIVO

In occasione della XXVI edizione di Incanti, rassegna internazionale di teatro di figura, è andato in scena, mercoledì 9 ottobre alla Casa Teatro Ragazzi e Giovani, Dal vivo, il nuovo spettacolo di Flop, nome d’arte di Philippe Lefebvre.

Nella sala piccola l’artista francese, per la prima volta al Festival, mette in scena un viaggio onirico orchestrando bicchieri, luci, piccoli congegni e proiettori che trasformano la tela in uno schermo sul quale vengono create e ricreate ombre e immagini sempre nuove: è un’esperienza incantevole tanto per i bambini quanto per gli adulti poter assistere alle molteplici trasformazioni delle ombre partendo dalla semplice silhouette di un calice di vino e ai diversi ritratti e composizioni da un ordinario insieme di oggetti della vita di tutti i giorni.

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Tito Rovine d’europa

In occasione della 24a edizione del Festival delle Colline Torinesi è andato in scena al ‘Teatro Astra’ di Torino, il 16 giugno, Tito Rovine d’Europa, il nuovo spettacolo di Michelangelo Zeno con la regia di Girolamo Lucania (già collaboratori per lo spettacolo Blatte, in cartellone nella stagione 2017/2018 del TST).

Lo spettacolo è ispirato al Tito Andronico di William Shakespeare, considerata la tragedia più brutale dell’autore inglese, e dalla rilettura di Heiner Müller Tito Fall of Rome che chiedeva al lettore di compiere l’operazione: «dismember/remember», cioè distruggere per ricordare, uno dei temi principali di questo dramma; inoltre, parte della troupe, come ha raccontato il regista a Mezz’ora con…, ha intrapreso un viaggio attraverso le ‘rovine’ d’Europa, che ha ispirato i vari componenti e ha fornito materiale utilizzato in seguito per la scenografia (come le fotografie di Vittorio Mortarotti) e per la drammaturgia.

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Something About You – Quel che rimane

In occasione della 24a edizione del Festival delle Colline Torinesi è andato in scena al ‘Cubo Teatro’ di Torino, l’8 e l’11 di giugno, Something About You – Quel che rimane il nuovo spettacolo di Francesca Garolla con la regia di Alba Maria Porto (già regista di Arte, di Yasmina Reza, in cartellone nella stagione 2017/2018 del TST ).

Ispirato dall’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano (Toscana), archivio dedicato alla memoria delle persone comuni, Something About You racconta la storia di una donna (interpretata da Matilde Vigna), madre di due figli (Roberta Lanave e Mauro Bernardi), che soffre di depressione da 17 anni ed è ricoverata in un istituto all’interno del quale ha un’amica, affetta anche lei dalla stessa malattia, con cui riesce a parlare e a condividere i propri pensieri.

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‘Frame’ di Alessandro Serra – Urli silenziosi

Il maestro Alessandro Serra, già vincitore del premio UBU 2017 e ANCT 2017 per Macbettu, ha portato in scena al teatro Astra, il 14 febbraio, un nuovo spettacolo: Frame.

In una sorta di commistione tra una pinacoteca, un’opera di teatro d’ambiente e di teatro danza, Frame racconta la solitudine, la quotidianità e l’amore attraverso il corpo degli attori dando vita ad alcune delle opere più famose del pittore newyorkese Edward Hopper (come, ad esempio, Automat, Morning Sun e Summer Interior). Continua la lettura di ‘Frame’ di Alessandro Serra – Urli silenziosi

La tragedia del vendicatore – Recensione

La tragedia del vendicatore, visto alle  Fonderie Limone di Moncalieri dal 20 al 25 novembre, è uno spettacolo diretto dal celebre regista inglese Declan Donnellan, alla sua prima direzione di un cast totalmente italiano e prodotto dal Piccolo Teatro di Milano, su testo del giacomiano Thomas Middleton (contemporaneo di Shakespeare).

 

In un’Italia di un periodo imprecisato in cui il potere e la corruzione dilagano senza pietà sotto l’autorità del Duca, il giovane Vindice vuole rendere giustizia alla donna amata, che è stata stuprata e avvelenata  dal corrotto regnante nove anni prima. Già il nome del protagonista è collegato all’idea di vendetta. Da questa premessa si snoda una vicenda di sotterfugi e inganni, intrisa di sangue e di sesso, che mette a nudo la natura dell’essere umano.

Una natura debole, assoggettata alla sete di potere, alla lussuria e a ogni vizio e peccato possibile e immaginabile. Gli uomini raccontati da Donnellan, interpretati da un cast eccellente ed estremamente affiatato, sarebbero disposti a vendere l’anima al diavolo per la sete di potere (o 15 minuti di celebrità), per un momento di passione o per un se pur credibile e invitante, ma misero ed effimero, miglioramento di carriera e di condizione sociale. Sono assassini, patricidi e fratricidi il Duca e la sua progenie; sono madri snaturate (Pia Lanciotti) la Duchessa, per lussuria, e Graziana, madre di Vindice, Ippolito  e Castiza (interpretati da Fausto Cabra, Raffaele Esposito e Marta Malvestiti), che arriva quasi a scambiare la verginità della figlia per il lusso della corte.

 

La Vendetta è l’unico atto in grado di rendere giustizia, atto catartico all’ennesima potenza, in grado di riportare la Giustizia in un mondo corrotto e di infimi valori morali. Questo è ciò di cui Vindice (nomen omen) è fermamente convinto, sicurissimo di essere talmente al di sopra di quel mondo che lo circonda da non poterci finire dentro. «Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te». L’emblematico aforisma di Nietzsche riesce a catturare l’essenza del protagonista, e del fratello Ippolito, che, al momento cruciale della vicenda, in cui la vendetta sul Duca si compie, l’abisso scruta dentro Vindice, che, a mente fredda come un serial killer, trova conforto e piacere nel dolore del Duca. In scena c’è un cameramen che i riprende i dettagli di questa scena pulp e la esaspera, rendendo Vindice una sorta di voyeur. Voyeur in questo contesto è la traduzione più vicina al termine tedesco schadenfreude che definisce una persona che gode nel vedere situazioni di sofferenza o la sfortuna degli altri. Il termine però ha un’accezione preminentemente sessuale e che rende la scena quasi pornografica. Bisogna però intendere questo termine attraverso le parole dell’antropologo Geoffrey Gorer, dal suo libro The Pornography of the Death: « L’esperienza non menzionabile tende a diventare l’oggetto di fantasie private, più o meno realistiche, fantasie cariche di piacevole colpevolezza o colpevoli piaceri».

 

La vanitas vanitatum, resa simbolicamente dal teschio, di richiami shakesperiani, della moglie di Vindice, e la ciclicità del tempo sono enfatizzate dall’avverbio adesso, che è il termine più usato nello spettacolo, culminando nella danza macabra del finale in cui scorre a tempo di musica una serie di nuovi omicidi. L’ambiguità temporale dettata dalla dicotomia costumi/scenografia accentua nuovamente l’avverbio. Quest’ultima nel particolare proietta la vicenda nel passato, alla corte italiana del XVI-XVII secolo (a cui Middleton fa riferimento) attraverso dipinti di Andrea Mantegna, Piero della Francesca e Tiziano; i costumi invece sono più contemporanei  e sottolineano come le vicende umane siano destinate a ripetersi, in uno scorrere del tempo ciclico.

Come un serpente che si morde la coda, la tragedia del vendicatore, e di tutto il genere umano, è destinata a ripetersi nelle stesse modalità, ed è pronta a colpire, senza via di scampo, ogni essere umano.

«Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te»

Friedrich Nietzsche

 

di Thomas Middleton

drammaturgia e regia Declan Donnellan

versione italiana Stefano Massini

con Ivan Alovisio, Alessandro Bandini, Marco Brinzi, Fausto Cabra, Martin Ilunga Chishimba,

Christian Di Filippo, Raffaele Esposito, Ruggero Franceschini, Pia Lanciotti, Errico Liguori, Marta Malvestiti,

David Meden, Massimiliano Speziani, Beatrice Vecchione

scene e costumi Nick Ormerod

disegno luci Judith Greenwood, Claudio De Pace

musiche originali Gianluca Misiti

Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

Emilia Romagna Teatro Fondazione

 

Lussurioso – Ivan Alovisio

Junior – Alessandro Bandini

Operatore TV/ Giudice/ Guardia – Alessandro Bandini

Vindice/ Piato – Fausto Cabra

Operatore TV/ Guardia – Martin Ilunga Chishimba

Supervacuo – Christian Di Filippo

Ippolito – Raffaele Esposito

Operatore TV/ Vescovo/ Guardia – Ruggero Franceschini

Duchessa/Graziana – Pia Lanciotti

Spurio – Errico Liguori

Castiza – Marta Malvestiti

Ambizioso – David Meden

Duca – Massimiliano Speziani

Operatore TV/ Medico/ Guardia – Beatrice Vecchione

FDCT23 – AIACE

In conclusione al Festival delle Colline Torinesi è andato in scena il 22 giugno alle Lavanderie a Vapore di Collegno Aiace, testo classico di Sofocle rivisitato da Linda Dalisi e interpretato dall’attore ivoriano Abraham Kouadio Narcisse (Aiace), da Michelangelo Dalisi (Odisseo) e dall’attrice francese Estelle Franco (Dea Atena e Tecmessa).

Dopo la morte di Achille, al nono anno della guerra di Troia, le sue armi vengono ereditate da Odisseo. Aiace, il guerriero più forte tra gli Achei, secondo, un tempo, solo al Pelìde, in seguito a questa decisione, perde il senno. Preso dall’ira e ispirato da Atena, la protettrice di Odisseo, uccide tutto il bestiame greco, convinto che siano i suoi compagni, ma l’indomani, resosi conto dell’errore e della follia decide di salvare il proprio onore, davanti agli dei e ai Greci, suicidandosi. 

Prima del compiersi del gesto estremo si susseguono una serie di riflessioni sulla condizione umana: dalla follia alla soggiogazione dagli dei; dall’onore al rispetto delle tradizioni; dal ricordo dell’infanzia al rispetto dei padri. 

Il supporto visivo tramite tre proiettori che, letteralmente, proiettano su teli illusioni, sogni, speranze, paure, sangue nel mare ecc…, è particolarmente efficace poiché dà spazio all’interiorità e ai sentimenti dei protagonisti e trova il culmine nel finale, con l’ultima proiezione: Aiace, suicida, si trasforma in centauro.

Aiace prima di tutto, racconta una storia di estraneità, che è culturale, ideologica, temporale, personale. Questo elemento esiste su due differenti piani. Uno è radicato nel testo sofocleo stesso e viene arricchito in seconda istanza dalla presenza in scena di tre attori, provenienti da Costa d’Avorio, Francia e Italia, che parlano lingue diverse. Quello che potrebbe essere un punto di contatto, la lingua, sembra essere, invece, una barriera insormontabile: Aiace, ormai impazzito, non riesce nemmeno più a spiegarsi. Non riesce a esprimere i motivi per cui dovrebbe meritare le armi e Odisseo, dall’alto della sua condizione di forza e della sua arroganza, si rivolge direttamente al pubblico per sottolineare questa mancanza linguistica (Aiace/Abraham sta parlando nella sua lingua madre). Un’estraneità che si risolve in incomunicabilità, ma anche in estraneità da se stessi. La dea Atena infatti annebbia la mente di Aiace che non si riconosce più e tutte le certezze che aveva acquisito in vita scompaiono all’improvviso, lasciando spazio solo al dubbio, al rimorso, al disonore e alla consapevolezza di non poter cambiare in alcun modo il proprio triste destino.

Odisseo sembra solamente uno scaltro arrivista, ma quando entra in contatto con la sua dea protettrice compatisce la sorte del povero Aiace: «Nonostante mi sia nemico, ho pietà per quell’infelice, per la tremenda sciagura cui si trova aggiogato: nella sorte di lui trovo riflessa anche la mia». Ritiene infatti che la debolezza e l’errore siano condizioni che possono diventare di chiunque.

Il ruolo dei proiettori diventa particolarmente rilevante in unione alla musica e alla danza, poiché serve a sottolineare come le paure e i sogni delle persone, pur lontane per cultura o stato sociale, possano essere gli stessi. Aiace si sente inadeguato, deriso e disorientato in un mondo che non riconosce più, privo di tradizione ed onore, e sogna solo di poter tornare bambino e di potersi tuffare nel mare a gareggiare ancora con Achille. L’energia/L’empatia che viene trasmessa dall’esibizione deve far scattare l’allarme, accendere una lampadina: tutti possiamo essere Tecmessa, Atena, Odisseo e Aiace; tutti si possono trovare nelle stesse loro situazioni, ed è bene ricordarsi di non giudicare troppo in fretta, di andare oltre ai pregiudizi e a puntare subito il dito, che sia un amico, il tuo vicino di casa, uno straniero.

Il Festival delle Colline Torinesi arriva qui, con Aiace, alla conclusione della 23esima edizione riaffermando l’importanza delle arti e del teatro. Parafrasando una frase attribuita a Francis Scott Fitzgerald: «Questa è la parte più bella di tutto il teatro [orig. di tutta la letteratura]: scoprire che i tuoi desideri sono desideri universali, che non sei solo o isolato da nessuno. Tu appartieni».

di Linda Dalisi e Matteo Luoni

regia Linda Dalisi

con Abraham Kouadio Narcisse, Michelangelo Dalisi, Estelle Franco

scene Giuseppe Stellato

costumi Graziella Pepe

suono e musiche Marco Messina

luci Simone De Angelis

movimenti Francesco Manetti

assistente alle scene Domenico Riso 

aiuto regia Francesca Giolivo

production Brunella Giolivo

management Michele Mele

produzione stabilemobile

in collaborazione con l’Asilo – exasilofilangieri.it

FDCT23 – MACBETTU La zona d’ombra – Dove gli uomini si fanno lupi

Per la ventitreesima edizione del Festival delle Colline Torinesi è andato in scena il 17 e 18 giugno, alle Fonderie Limone di Moncalieri, Macbettu, versione in limba sarda con sovratitoli in italiano del capolavoro di Shakespeare, diretto da Alessandro Serra e interpretato dalla compagnia Teatropersona.

Lo spettacolo è stato il vincitore del prestigiosissimo premio UBU 2017 e del Premio ANCT 2017 (Associazione Nazionale dei Critici di Teatro).

 

Macbettu non si discosta per trama e contenuti dal testo originale, bensì lo amplia con i carnevali sardi: le maschere che rappresentano la foresta che avanza, nel finale, sono simili alle maschere dei Mamuthones e degli Issohadores del Carnevale di Mamoiada. La Sardegna è un luogo sacro e arcaico, dove gli antichi culti pagani sopravvivono ancora oggi in una maniera più vera e sentita rispetto ad altre località ed è lo scenario ideale per rappresentare una tragedia che fa della solennità e della ritualità dei movimenti e di una lingua dal sapore antico e impenetrabile il proprio codice di lettura.

 

La mancanza quasi totale di scenografia e l’assenza di attrici è un omaggio al teatro elisabettiano di Shakespeare. Ciò però non rende meno efficaci le ottime prove degli attori, sia a livello dei singoli – come per quanto riguarda Lady Macbettu, interpretata da un dionisiaco e barbuto Fulvio Accogli – sia a livello corale.

Non è la prima volta che il Macbeth viene rivisitato e ambientato in un’altra cultura. Ne è un esempio il film del 1957 di Akira Kurosawa Il trono di sangue che compie un adattamento in territorio nipponico.

Sono state molteplici negli anni le versioni cinematografiche del capolavoro shakespeariano, ma la versione di Roman Polanski – proiettata al cinema Massimo in preparazione allo spettacolo sardo – è di particolare rilievo perché approfondisce il lato dionisiaco (e demoniaco) delle streghe e di Lady Macbeth. In questo senso compie un’operazione simile anche Alessandro Serra, che caratterizza le Sorelle e soprattutto Lady Macbettu, tutte interpretate da uomini, facendo loro perdere  sembianze umane e femminee in favore di un’aura diabolica. Fulvio Accogli è ottimo nel rappresentare la sensualità del personaggio, specie nella scena del suicidio durante la quale è completamente nudo (o nuda) sul palco, esprimendo una inquietante e peculiare femminilità.

In questo senso Macbettu incontra il Festival delle Colline Torinesi: il viaggio dell’identità tramite la rievocazione elisabettiana e l’annullamento di genere, e la Sardegna come luogo lontano, nel tempo e nello spazio, e straniero dove inscenare temi universali che accomunano tutti gli esseri umani, in una ricerca radicale dell’uomo, sino alla zona d’ombra, la più oscura e bestiale.

 

La zona d’ombra, ovvero il luogo in cui si svolge la vicenda. Un’ombra visibile – lo spettacolo si apre e si chiude entro lunghi momenti di oscurità lacerata dalle streghe, all’inizio, e da suoni metallici che rappresentano il cuore morente di Macbettu, al termine – ma soprattutto un’ombra dell’anima.

Quella che le Sorelle Fatali pronunciano a Macbettu e Banquo potrebbe anche non essere una vera e propria profezia, quanto un dubbio, un’insinuazione proposta e in seguito raccolta dal Conte di Cawdor, che poi si avvererà. Un’ombra che si impossessa anche della consorte che sostiene e inneggia a ogni assassinio (accumulato simbolicamente pietra su pietra come un piccolo nuraghe)  utile per la scalata verso il potere. La zona d’ombra che è il regno del soprannaturale, della vita dopo la morte che si interseca con quella dei vivi con l’apparizione del fantasma di Banquo; ma anche la bestialità dell’essere umano che trova il proprio culmine nella scena, che richiama la maga Circe e i film Porcile (1969) e Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pasolini, in cui i due coniugi danno da mangiare alle guardie del corpo di Re Duncan che lottano tra di loro come maiali e cinghiali, mettendo a dura prova gli spettatori.

Una bestialità che si incarna nell’essere umano e lo porta, giù nella zona d’ombra, a compiere le nefandezze più gravi, che possono essere ben spiegate dalle parole di Cesare Pavese: «Non conosci la strada del sangue. Gli dèi non ti aggiungono né tolgono nulla. Solamente, d’un tocco leggero, t’inchiodano dove sei giunto. Quel che prima era voglia, era scelta, ti si scopre destino. Questo vuol dire farsi lupo […]».

Dialogo tra due cacciatori tratto dal racconto L’uomo lupo da Dialoghi con Leucò, Cesare Pavese

Riccardo Ezzu

Macbettu 

regia Alessandro Serra

tratto da Macbeth di William Shakespeare

con Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino

traduzione in sardo e consulenza linguistica Giovanni Carroni

collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini

musiche, pietre sonore Pinuccio Sciola

composizioni pietre sonore Marcellino Garau

scene, luci, costumi Alessandro Serra

produzione Sardegna Teatro e compagnia Teatropersona

con il sostegno di Fondazione Pinuccio Sciola, Cedac Circuito Regionale Sardegna

Premio Miglior Spettacolo UBU 2017,  Premio ANCT 2017 (Associazione Nazionale dei Critici di Teatro)

Una serata con Don Giovanni

Al Teatro Carignano di Torino, dal 3 al 22 aprile 2018, è andato in scena Don Giovanni di Molière, uno spettacolo in prima nazionale diretto da Valerio Binasco, al suo esordio come direttore artistico del Teatro Stabile torinese.

Arriviamo al Carignano. Cerchiamo il nostro posto. Ci sediamo e attendiamo l’inizio. Le luci si spengono: ci siamo! Il palco è illuminato da una candela in scena. C’è un telo scuro, semi trasparente. Attacca un arpeggio di chitarra. È Stairway to Heaven dei Led Zeppelin che accompagna la scena: Don Giovanni sta andando a caccia (di una donna). Lo scambio di battute è proiettato sul telo durante lo svolgimento dell’azione, quasi un omaggio al cinema muto.

Si tratta del prologo del Burlador de Sevilla di Tirso de Molina, primo ideatore di Don Giovanni. Un inizio interessante, anche perché estraneo – quasi fosse un frammento a sé stante – per scrittura, interpretazione, modalità, toni e musica al resto della commedia.

L’opera di Molière, suddivisa in cinque atti, narra le (ultime) avventure di Don Giovanni, seduttore seriale ante litteram, e del suo servo Sganarello, sempre al fianco del padrone in ogni nuova impresa e conquista: da Donna Elvira fino alle “contadinotte” Maturina e Charlotte. I due protagonisti sono costantemente in fuga dalle ire dei fratelli della prima e dal promesso sposo di Charlotte. Per trovare riparo e un po’ di riposo, si rifugiano per la notte in un bosco, in cui si imbattono dapprima nei già nominati fratelli e in seguito nella statua del Commendatore che tempo prima Don Giovanni aveva ucciso. Provocata da Don Giovanni che la invita a cena, la statua risponde positivamente e si presenta l’indomani per trascinare il seduttore impenitente con sé nel mondo dei morti.

Don Giovanni, interpretato da Gianluca Gobbi, è spogliato e rivestito di una contemporaneità lontana dalla tradizione letteraria francese seicentesca. I suoi punti di forza sono fisicità e voce, potenti come un tuono. E’ un’interpretazione, sia da parte del regista sia del protagonista, insolita, originale, estremamente viscerale e corporea. Don Giovanni è uno spietato cacciatore di prede, estremo nel concepire il contatto amoroso solo all’interno di logiche di puro consumo. E’ sposato sì, con tantissime donne in ogni città, ma l’unico vero rapporto di fedeltà è con il suo servo, interpretato da Sergio Romano, che lo segue dappertutto, facendosi trascinare da un’avventura all’altra e provando ogni tanto a farlo ragionare, come una moglie sensibile e pacata farebbe con il proprio marito.

Un altro tema fondamentale è il rapporto con la religione e con la morte (approfondito a più riprese con l’omicidio del Commendatore, interpretato da Fabrizio Contri che veste simbolicamente anche i panni di Don Luigi, il padre del protagonista). Don Giovanni si fa beffe di due delle esperienze che fondano ogni esistenza umana.

Non manca, inoltre, l’intenzione di richiamare la tradizione italiana, quella basata sui dialetti, in particolare per le scene nella locanda con i promessi sposi Pierrot (Lucio De Francesco) e Charlotte (Elena Gigliotti).

Le peculiarità del Don Giovanni contemporaneo affiancate alla tradizione dialettale e musicale che incontriamo all’interno dello spettacolo sono cifre stilistiche di un regista che ha come suo primo obiettivo la comunicazione con il pubblico. Parafrasando le sue parole nell’incontro di presentazione dello spettacolo nel ciclo Retroscena: a Don Giovanni, come a qualsiasi classico che si rispetti, piace emozionare ed essere aggiornato.

«Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire» – Italo Calvino, Perché leggere i classici

Federica Beccasio

Riccardo Ezzu

di Molière

con Fabrizio Contri, Lucio De Francesco, Giordana Faggiano, Elena Gigliotti, Gianluca Gobbi, Nicola Pannelli, Fulvio Pepe, Sergio Romano

e con Vittorio Camarota, Marta Cortellazzo Wiel

regia Valerio Binasco

scene Guido Fiorato

luci Pasquale Mari

costumi Sandra Cardini

musiche Arturo Annecchino

assistente regia Nicola Pannelli

assistente scene Anna Varaldo

assistente costumi Silvia Brero

Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale