Elvira (Elvire Jouvet 40)

“Il teatro è una cosa dello spirito e un culto dello spirito”, così Louis Jouvet pensando al perché si fa teatro e che cosa spinge un attore a entrare in questo mondo misterioso e affascinante. 

Brigitte Jacques traendo spunto dal saggio di Jouvet Molière et la comedie classique (1965, Gallimard), scrive questa pièce teatrale che si concentra su sette lezioni che l’artista francese fece stenografare tra il 1939 e il 1940. Toni Servillo dirige e interpreta  l’apologo del mestiere dell’attore, entrando  nella tecnica e nel pensiero di Jouvet.

In queste lezioni,  che si svolsero  tra il 14 febbraio e il 21 settembre 1940, Jouvet fa preparare a una giovane attrice, Claudia, l’ultima scena del personaggio di Elvira nel Don Giovanni di Molière.  Un’avventura a due, maestro e allieva che si prendono per mano addentrandosi in un territorio oscuro, quello del personaggio. Un territorio da indagare fino in fondo per poter comprendere e dialogare con il personaggio, che va  costruito passo passo, così che lo spettatore in scena al posto dell’attore veda il personaggio. Per giungere a questo il percorso è arduo, estenuante, ma necessario. Per Jouvet  è dovere di una grande attrice arrivare a quell’emozione del personaggio. 

In questa ultima scena Elvira è cambiata: non è più rancorosa a causa del tradimento di Don Giovanni.  È come in estasi, in pace con se stessa. Va incontro a Don Giovanni, all’uomo che ha creduto di poter amare, come un angelo che scende lentamente con gli occhi pieni di luce ad annunciare qualcosa. E’ dunque una scena di annunciazione per Jouvet, in cui Elvira si accosta a Don Giovanni per supplicarlo di cambiare vita, altrimenti l’unico posto che lo accoglierà sarà l’Inferno. Tutto questo è detto   pacatamente, quasi vergognandosi dei suoi momenti di ira precedenti. Torna da lui perché in fondo lo ama ancora, vuole salvarlo.  Sarà l’ultima volta che si vedranno. Così la storia di Elvira e Don Giovanni si intreccia con la storia vera, di un maestro e un’allieva che per sette mesi hanno condiviso lavoro e passione, lezioni di vita e rimproveri reciproci, per poi perdersi e non incontrarsi mai più a causa della guerra e dell’occupazione nazista di  Parigi.

Toni Servillo, nelle vesti di Jouvet, accentua la figura di un  maestro le cui  parole sono cariche di passione, emotività e tenerezza.  È uno spettacolo fatto di sguardi e di silenzi, degli sguardi e dai silenzi da cui nasce la creazione. Può sembrare a prima vista uno spettacolo semplice, ma la grandezza sta nel rendere vive queste lezioni. Lezioni  di recitazione, ma ancor  più lezioni di vita. Sul palcoscenico accade la finzione, ma sul palcoscenico della vita ci aspetta quotidianamente e anche qui l’entrata e i movimenti devo essere quelli giusti.

Abbiamo la possibilità di vedere l’uomo, l’artista nel momento di più alto sforzo e tenerezza, il momento della creazione. Un momento grandioso e allo stesso tempo tenero, ma qui non si tratta di creare un oggetto, un materiale, ma creare il personaggio  attraverso il corpo e le parole di un’attrice.  Per arrivare al punto più alto, le paure e l’orgoglio vanno messi da parte, è necessario liberarsi mentalmente.   Così storia umana e recitazione si intrecciano in un apologo  del mestiere dell’attore che è anche una lezione di vita.

Emanuele Biganzoli

Di Brigitte Jaques

Da Molière e la commedia classica di Louis Jouvet

Traduzione: Giuseppe Monetsano

Regia: Toni Servillo

Interpreti: Toni Servillo (Louis Jouvet), Petra Valentini (Claudia/Elvira) Francesco Marino (Octave / Don Giovanni), Davide Cirri (Leon /Sganarello)

Costumi: Ortensia De Francesco

Luci: Pasquale Mari

Suono: Daghi Rondanini

Aiuto regia: Costanza Boccardi

Produzione: Teatro Milano- Teatro D’Europa, Teatri Uniti

Bravo bravissimo! Al Regio l’inarrestabile vitalità di Rossini.

In occasione dell’anno rossiniano torna l’allestimento de Il barbiere di Siviglia creato nel 2007 dal Teatro Regio di Torino e più volte ripreso fino a diventare un piccolo classico. Le quattro recite (16, 20, 23 e 25 marzo) hanno registrato il tutto esaurito.

Il regista Vittorio Borelli restituisce la vocazione all’allegria propria di quest’opera, che Verdi definì «la più bella opera buffa che esista». La semplicità della regia se forse appiattisce la drammaturgia musicale di Rossini e Sterbini, che avevano sostituito all’incontenibile risata di Paisiello un sorriso divertito e malizioso, ha certo il merito di evidenziare i nodi essenziali della vicenda e di divertire il pubblico. Merito, quest’ultimo, da non sottovalutare.

Nel Rossini comico lo scavo psicologico è del tutto assente e sarebbe inutile e fuorviante andare a cercarlo. Il motore è l’ingegno, non necessariamente messo a servizio dei buoni sentimenti, e il propellente è il ritmo. Si pensi ai celeberrimi crescendo e ai magnifici concertati d’insieme: l’individualità dei personaggi è trascesa nell’effervescenza di un meccanismo ingegnoso descritto cronometricamente dalla pulsazione.

La direzione di Alessandro De Marchi trasmette, senza esagerazioni, il piacere del suono e del ritmo, la gioia che si sprigiona dalla partitura rossiniana.

Al godimento della vicenda ben si prestano i semplici parati lignei dipinti mossi a vista a definire gli ambienti della scena, a cura di Claudia Boasso, e i costumi di gusto andaluso di Luisa Spinatelli.

I cantanti si fanno apprezzare per la loro vis comica, in particolare Simone Del Savio nei panni di Don Bartolo e Carlo Lepore in quelli di Don Basilio.

Il giovane baritono Davide Luciano interpreta il barbiere factotum facendosi apprezzare, con il suo timbro scuro e caldo, sia per l’effervescenza, sia per il controllo dell’esecuzione.

Il tenore Francesco Marsiglia nel ruolo di Almaviva è capace di restituire i passi che richiedono particolare agilità, così come i momenti più lirici.

In questa versione è presente l’aria Cessa di più resistere, spesso tagliata perché considerata inutile al dramma. Lungi dall’essere una mera esibizione vocale, questo rondò con coro porta a compimento l’azione e riconsegna al personaggio del conte l’importanza che doveva avere per Rossini e Sterbini. Si ricorda che l’opera debuttò al Teatro Argentina di Roma nel 1816 con il titolo Almaviva, o sia l’inutile precauzione e nel ruolo del protagonista c’era la star Manuel García.

Ad ogni modo, che si ponga l’attenzione sull’élan vital di Figaro come celebrazione della nuova borghesia o se, al contrario, si riconosca nella vittoria di Almaviva un atto da Ancien Régime, tutt’altro che progressista, l’essenziale è l’aspetto ludico. Benvenuti, allora, quegli allestimenti non oscurati da improbabili echi di ghigliottine.

Gli applausi scroscianti del pubblico affermano, ancora una volta, l’importanza del gioco e del riso, elementi fondamentali del nostro vivere.

Marco Cavallo per i 40 anni della Legge Basaglia

Il secondo appuntamento della rassegna Quello che tutti chiamavano manicomio, promossa da Lavanderia a Vapore, Fondazione Piemonte dal Vivo, Regione Piemonte e Comune di Collegno in occasione del quarantennale della Legge Basaglia, ha ospitato il 7 Marzo sul palco della Lavanderia La storia di Marco Cavallo, spettacolo prodotto dal Teatro delle Selve. La regia è di Franco Acquaviva, che è anche l’attore solista presente sulla scena, e l’aiuto alla regia è di Anna Olivero.

All’interno della cornice della rassegna occorre mettere in luce lo spirito col quale nasce il Teatro delle Selve: fondato nel 1998 da Franco Acquaviva e Anna Olivero, si impegna a promuovere una idea di cultura teatrale in grado di valorizzare le relazioni tra l’ambiente e la memoria che lo abita. Appare chiara l’aderenza rispetto al tema proposto dall’iniziativa e al luogo dello spettacolo: l’attuale Lavanderia a Vapore nasce infatti dalla ristrutturazione di quelle che erano le originarie lavanderie del manicomio di Collegno (questo l’ambiente) ed entra in pieno contatto con il tema proposto, volto a ricordare e riattualizzare il problema dell’esclusione sociale (questa la memoria collettiva). Come ci ricorda lo stesso regista infatti lo spettacolo “appare necessario oggi che molte delle conquiste sociali e civili di quegli anni sono messe in discussione” e la sua idea nasce principalmente da un bisogno di dialogo e di apertura sociale.

La storia di Marco Cavallo parla di quella che fu la prima esperienza di animazione teatrale condotta all’interno di un manicomio. Nel 1973 a Trieste, su idea di Franco Basaglia, un gruppo eterogeneo di persone (fra cui pittori, registi, insegnanti, scrittori, fotografi, animatori) decise di mettere a disposizione la propria professionalità per cercare un nuovo modo di stare insieme e modificare la realtà ancora chiusa e crudele del manicomio. Attraverso la creazione di un grande cavallo di legno e cartapesta dal colore azzurro, simbolo della gioia di vivere, e dalla pancia simbolicamente piena dei desideri di tutti i pazienti, l’esperienza aprì il manicomio alla città e contribuì a cambiare il modo di essere del teatro e della cura. Portata a termine la costruzione del cavallo venne infatti organizzata una grande parata per le vie di Trieste e il quadrupede di cartapesta divenne immediatamente il simbolo per eccellenza della liberazione manicomiale.

Il testo di Franco Acquaviva nasce dalla convergenza di diverse fonti rielaborate all’interno di una cornice drammaturgica creata specificamente per lo spettacolo. Marco Cavallo, il testo a cura di Giuliano Scabia, uno dei maggiori protagonisti dell’azione teatrale del ’73, è l’opera di riferimento, alla quale si aggiungono frammenti di altri testi che disegnano una situazione di teatro nel teatro con tre personaggi e diverse figure minori. Un teatro di narrazione, quello che il regista ci propone, attraverso una e-vocazione (più che una ri-evocazione) dell’atmosfera, delle idee e delle difficoltà proprie di quell’esperienza. L’attore, attraverso la forza della sua fisicità, crea un ricco tessuto di voci che dialogano nel corso della vicenda seguendo un ritmo sempre sostenuto, mai scontato. Il tutto prende avvio da un personaggio che ricorda un’esperienza risalente agli anni universitari, nei quali fu mandato a Trieste dal suo professore di Storia del teatro, nel manicomio quasi dismesso della città. Il suo compito era intervistare il responsabile di un laboratorio teatrale che si sarebbe realizzato nei padiglioni coi pazienti, ma inaspettatamente si ritrovò ad essere parte attiva dello spettacolo, dedicato appunto a Marco Cavallo.

Alle curiosità, ingenuità e resistenze del ragazzo si intrecciano il racconto dell’esperienza storica e le manie bizzarre e divertenti della compagnia dei matti. Nel reparto P troviamo un teatro partecipato, sudato, vissuto in comunità, “un gioco che però impegna”, nel quale i malati riescono a vedere un’attività libera, in cui poter fare ciò che desiderano. Lo studente, inizialmente scettico e dubbioso riguardo all’utilità dell’esperienza, grazie alla sua prolungata permanenza e al dialogo creato a mano a mano con la realtà che lo avvolge, riesce a comprenderne il valore, superando la crisi nata in lui in seguito all’uscita dall’ambiente universitario. Il ragazzo fa così ritorno dal professore senza aver compiuto l’intervista, ma portando con sé una diversa consapevolezza. L’attenzione portata dal regista sui muri interni alla mente dello studente ne è solo un esempio. Muri che, inoltre, ci riportano con un tuffo spontaneo nel presente, ai tanti muri, reali o simbolici, che la contemporaneità continua ad erigere nei confronti dell’altro. Uno spettacolo che, pur portando in scena un’esperienza passata, si dimostra nei suoi contenuti quanto mai attuale, rivolgendosi ad un pubblico appositamente composto da studenti liceali e universitari.

L’autore ci lascia con un messaggio: “la follia è un modo per uscire da se stessi”. Il teatro può rappresentare questa via, laddove esso non è semplicemente vita, ma “vita più follia”. Follia che deve essere insegnata a tutti perché è elemento positivo della vita, come l’acqua e il fuoco.

Si ricorda infine che il 19 marzo si è tenuto un prezioso incontro pubblico organizzato da Fondazione Piemonte dal Vivo e Lavanderia a Vapore presso il Polo del ‘900, nel quale sono intervenute importanti figure: Giuliano Scabia, Peppe dell’Acqua, Renato Sarti e Massimo Cirri. La riunione ha voluto rievocare il clima e le esperienze di quegli anni unitamente alla storia di Franco Basaglia per coinvolgere il pubblico in una riflessione partecipata sulla psichiatria.

 

recensione di Linda Casoli

La storia di Marco Cavallo

di e con Franco Acquaviva

aiuto regia Anna Olivero

produzione Teatro delle Selve 2014

con il patrocinio e il sostegno di: Regione Piemonte, Fondazione Piemonte dal vivo – Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo di Torino, Comune di San Maurizio d’Opaglio, Compagnia di San Paolo

 

Orfeo: il mito alle origini del teatro d’opera

L’Orfeo di Monteverdi andò in scena la prima volta nel palazzo Ducale di Mantova il 24 febbraio 1607. Se esso sia o meno considerabile dalla storiografia il primo esempio ufficiale di teatro musicale è una questione che tutt’ora fa dibattere i musicologi. Tecnicamente il primo melodramma fu l’Euridice di Peri e Rinuccini, rappresentato a Palazzo Pitti, a Firenze, il 6 ottobre 1600, a cui probabilmente Monteverdi assistette. Sicuramente l’opera monteverdiana è la più antica ancora presente nei cartelloni delle stagioni liriche.

Ricordiamo che alla corte dei Gonzaga fu invitato un ristretto numero di cortigiani. Il fatto che a distanza di quattro secoli il pubblico contemporaneo continui ad applaudire la creazione mantovana è indicativo dell’appeal che ancora esercita sui suoi fans. Forse in virtù dell’ordine armonioso che Monteverdi e Striggio infondono ad un’articolazione drammatica in cui si mescolano echi classicheggianti, gusto pastorale e vari effetti scenici.

Arduo è per gli stessi musicologi decretarne un’appartenenza certa allo stile barocco o a quello rinascimentale. A detta di Alessio Pizzech, regista della versione in scena al Teatro Regio di Torino dal 13 al 21 marzo, l’opera sarebbe musicalmente già barocca, ma drammaturgicamente ancora rinascimentale. Il soggetto infatti, ispirato al mito greco, è trattato in chiave profondamente filo-umanista: l’uomo alle prese con la necessaria comprensione dell’irreversibilità della morte.

A riflettere sulla propria condizione, amorosa prima e tragica poi, è il protagonista Orfeo, interpretato dall’eccellente baritono Mauro Borgioni, con un timbro appropriato, sempre comprensibile e un’interpretazione sentita.

La rappresentazione si inserisce nell’ambito del Progetto Opera Barocca. L’orchestra e il Coro del Teatro Regio sono affiancati dall’Ensemble strumentale La Pifarescha.

Dispiace che l’esecuzione sia stata disturbata da alcuni rumori, come quelli delle moquettes erbose, goffamente trascinate via nel bel mezzo dell’aria della Messaggera, interpretata dall’intensa Monica Bacelli.

Il bellissimo trompe l’oeil da studiolo umanista di corte che ospita scenograficamente la vicenda ha forse qualcosa a che fare con un certo inganno visivo, filo conduttore di questa resa dell’Orfeo. Esso viene rappresentato con immagini suadenti, attraverso coreografie sensuali, costumi di gusto kitsch (Caronte Aquaman, Apollo dorato con cetra al neon, becchini di Al Capone che trasportano il cadavere di Euridice), scenografie più barocche del barocco e quantità esageratamente fastose di persone in scena (non sempre coordinate tra loro) e di fantastici oggetti mobili.

Il palco inclinato è metaforicamente aggressivo, un’immagine aggettante verso lo sguardo inerme e goduto dello spettatore. Una regia consapevolmente provocatoria o semplicemente dettata dalle ineludibili tendenze attualizzanti che investono il mondo dell’opera?

Tobia Rossetti e Marida Bruson

Diario di una Tirocinate – Don Giovanni

Cari lettori, vi scrivo per raccontarvi un’esperienza unica!
Ho la fortuna di fare un tirocinio presso il Teatro Stabile di Torino, e non negli uffici, ma svolgendo un lavoro dall’interno di in uno degli spettacoli che si prospetta tra i più interessanti della stagione: Don Giovanni per la regia di Valerio Binasco. Subito dopo il primo incontro  con Valerio Binasco  in quattro e quattr’otto mi sono ritrovata al tavolo con tutti gli attori il primo giorno di prove.
Ufficialmente alle 14.39 di Lunedì 26 febbraio, si è partiti in q

13/03 Giornata di Memoria per tutti!

uesta avventura. I primi due giorni, siamo stati ospitati al Gobetti in sala Pasolini, perché alle Fonderie Limone faceva troppo freddo e nessuno si deve ammalare! Per me e la mia compagna di avventura ed amica, Giada, i primi giorni ci sono serviti per capire con chi avevamo a che fare, che tipo di lavoro sarebbe stato il nostro. Seppur un pochino spaesate, fin da subito Valerio ci ha integrato in tutto e per tutto nell’organico presentandoci a tutta la compagnia.
A metà settimana poi ci siamo spostati alle Fonderie, ed aspettando che la scenografia fosse pronta, gli attori hanno iniziato ad alzarsi dal tavolino e a provare con movimenti, in sala K.
E’ molto interessante vedere, giorno dopo giorno, come i personaggi prendono vita e ognuno degli attori ci mette se stesso. Binasco è molto attento a non togliere la naturalezza propria di ogni attore, e senza che vi sveli troppo, lo vedrete maggiormente nel secondo atto, che nel caso di alcuni personaggi è stato riscritto in dialetto.
I problemi ci sono stati in queste prime due settimane di lavoro, uno su tutti l’impatto con la scenografia: si tratta di una compagnia che in passato ha lavorato molto a tavolino e in movimento (provando e costruendo le scene in spazi più piccoli e creando insieme una scena collettiva che fosse la stessa nell’immaginario di tutti).
Questo maggiormente si è verificato per il secondo atto, ambientato in un piccolo Bar. Ogni attore vi vedeva un bar differente. Il problema ha trovato la sua soluzione quando gli attori si sono seduti e hanno raccontato cosa fosse per ciascuno quel luogo, spostando gli attrezzi di scena, vivendolo per davvero e affrontando lo spazio, senza paure.
Adesso si sta procedendo in maniera spedita a montare i vari atti, i costumi sono in via di rifinitura, le musiche sono sempre più precise e le luci vanno a scolpire i sentimenti dei personaggi.
Nel frattempo, noi suggeriamo, corriamo a destra e sinistra per fare in modo che non manchi mai nulla e scriviamo i vari rapporti di giornata.
Come sta andando, cosa sta succedendo….? Lo saprete tra una settimana.
Blogger in incognito, Elisa Mina

IL BALLO

Un’attrice, 5 voci, tanti specchi.

Sonia Bergamasco porta sulla scena del Teatro Gobetti una favola nera di Irène Némirovsky, scrittrice francese di origine ebraica vittima dell’olocausto.

E’ la storia di Antoniette, una ragazzina quattordicenne, figlia di ebrei arricchiti, trascurata da una madre troppo narcisista ed egoista per preoccuparsi di lei.

Finalmente la madre ha ottenuto la ricchezza tanto desiderata e può permettersi di dare il primo ballo, che le aprirà le porte al suo debutto in società. Ma Antoinette viene esclusa: non può parteciparvi, e tanto meno rivolgere la parola a qualcuno. Chiusa in camera. Quello è il suo posto.

La ragazza allora compie il suo atto di vendetta: in un attimo d’ira getta nel fiume gli inviti, così che nessun nobile lo riceverà mai.

E’ il giorno del ballo: il tavolo è imbandito con pietanze di ogni tipo, la sala addobbata a festa, l’orchestra pronta per suonare. Ogni cosa è predisposta per accogliere la più alta società.

Ma non arriva nessuno. Solo la vecchia cugina, presenza non gradita dalla madre, ha ricevuto il biglietto a mano, e si trova ad essere partecipe di quest’immensa umiliazione.

Di fronte alla disperazione, la figlia, col viso nascosto tra le braccia della madre in lacrime, ride. La vendetta è stata compiuta.

Sonia Bergamasco porta in scena con un’interpretazione magistrale il racconto in tutta la sua spietatezza, dando voce ai 5 protagonisti: Antoinette, la madre, il padre, l’educatrice e la vecchia cugina.

Come scrive la stessa Bergamasco è una storia “di vendetta e di disamore; (..) il teatro di un bambino solo che costruisce il suo mondo, perchè il mondo conosciuto (quello degli adulti) non è bello e non gli piace”

Ed è questo che noi vediamo: una figura esile e bianca, che si muove sola, in un palcoscenico pieno di specchi, in cui si è costretti a guardare e guardarsi: in cui madre e figlia sono costrette a rispecchiarsi.

Ma la storia di Antoinette è molto più di questo: “è l’arma di vendetta di una scrittrice che sempre, in ogni sua opera, ricorda e non perdona. La scrittura come arma, scoperta molto presto da Irène, proprio contro quella famiglia, quella madre che non aveva saputo amarla.”

Lara Barzon

Racconto di scena ideato e interpretato da Sonia Bergamasco
liberamente ispirato a 
Il ballo di Irène Némirovsky
disegno luci Cesare Accetta
scena Barbara Petrecca
costume di scena Giovanna Buzzi
Teatro Franco Parenti / Sonia Bergamasco

Mistero Buffo: capolavoro intoccabile?

La nuova versione di Mistero Buffo con l’interpretazione di Matthias Martelli e la regia di Eugenio Allegri (coproduzione del Teatro Stabile di Torino e del Teatro della Caduta) è andata in scena dal 6 al 18 febbraio alle Fonderie Limone di Moncalieri.

Dario Fo è Dario Fo. Mistero Buffo è un capolavoro intramontabile,

ma è davvero intoccabile?

Riportarlo sulla scena è un’impresa. Matthias Martelli ci riesce. Vince gli sguardi diffidenti degli spettatori, dapprima un po’ freddi e timorosi, ma che si scaldano in fretta con grasse risate di fronte alle esilaranti giullarate. Il palcoscenico è totalmente spoglio, l’attore solo in scena e in abito neutro alla maniera del Maestro e gli episodi estrapolati sono riproposti tali e quali a livello testuale, con quel tipico miscuglio di linguaggi dialettali, volgari antichi e latinismi, perfettamente comprensibili.

Matthias Martelli in Mistero Buffo

Fa piacere vedere un pubblico vario, che unisce più generazioni, dai più anziani, ai bambini. Martelli si aggira tra la gente ancora prima che lo spettacolo inizi, aspettando l’ingresso di tutti gli spettatori, mentre sul fondale vengono proiettate una serie di fotografie che riportano agli anni Settanta (da immagini di programmi Rai a scatti delle stragi degli anni di piombo) periodo in cui Mistero Buffo, a partire dal ’69, ha fatto innumerevoli repliche in Italia e non solo.

Gli intermezzi tra un episodio e l’altro, invece, sono attualizzati. Ogni episodio è preceduto dalla tipica chiacchierata col pubblico, che ne introduce l’argomento, talvolta con l’aiuto di immagini, affreschi e dipinti, che rientrano nella tradizione iconografica medievale; inevitabilmente questi momenti di dialogo sono stati contestualizzati nei giorni nostri, con accenni di satira ad argomenti di attualità.

Quattro i misteri scelti:

-Le Nozze di Cana
-La resurrezione di Lazzaro
-Bonifacio VIII
-Il primo miracolo di Gesù bambino

Lo spettacolo si apre e si chiude con un omaggio a Dario Fo e Franca Rame: una loro fotografia insieme.

La decisione di Eugenio Allegri, di comune accordo con il giovane attore, è stata quella di far continuare a vivere Mistero Buffo in maniera fedele e rispettosa dell’originale, ma facendone al contempo un’interpretazione il più personale possibile. Sono partiti dalle basi su cui si è fondato il lavoro scenico di Fo, tutte componenti affini al retaggio artistico di regista e interprete: la dialettica tra corpo-suono, in cui convivono linguaggio corporeo e gestualità vocalica, attraverso gli studi sulla Commedia dell’Arte e i principi di teatro fisico e vocale del mimo francese Jacques Lecoq. Matthias Martelli, ben consapevole di avere una fisicità e un’espressività diversa dal Maestro, porta avanti un lavoro personale sulla comicità, già maturato con le numerose repliche del suo Mercante di Monologhi, che gli ha permesso di indagare e scoprire meglio le proprie possibilità espressive.

 Allegri e Martelli si sono buttati a capofitto in questo rischioso progetto già nel 2016, chiedendo il permesso a Dario Fo. Gli hanno inviato il video di un estratto (l’episodio di Bonifacio VIII) e lui ha dato la sua approvazione il 3 ottobre, dieci giorni prima di venire a mancare.
D’altronde sarebbe stato un peccato non poter più godere dell’opera di Fo e vederla spegnersi con lui, irrigidita sulle pagine di un libro, che invece contengono una materia così viva ed esplosiva sul palcoscenico. Mistero Buffo merita di continuare a divertire e arricchire un pubblico oggi bisognoso, forse più che mai, di ridere mettendo in moto cuore e cervello.

Alessandra Minchillo


Mistero Buffo

6 -18 febbraio 2018 – Fonderie Limone

di Dario Fo
con Matthias Martelli
regia di Eugenio Allegri
aiuto regia Alessia Donadio
luci e fonica Alessandro Bigatti
tecnico video Loris Spanu
coach fisico Francesca Garrone
management Serena Guidelli

coproduzione Teatro Stabile di Torino – Teatro della Caduta

in collaborazione con Teatro Fonderia Leopolda e Comune di Follonica
con il patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo.

“Il Padre”di Strindberg va al tappeto

Gabriele Lavia ha diretto e interpretato al Teatro Carignano di Torino, Il Padre, un dramma del 1887 dello scrittore svedese Johan August Strindberg, amato e definito da Nietzsche «un capolavoro di dura psicologia». I valori universali di questo testo hanno invitato l’attore a portarlo in scena per la terza volta. Nel dialogo di Retroscena con il professore Franco Perrelli che si è tenuto al Teatro Gobetti nel febbraio scorso Lavia ha spiegato:

«Non volevo fare Il Padre, ma tutti i pezzi che sceglievo costavano troppo. È un vecchio gioco tra me e le mie produzioni. La mia prima scelta era Il Temporale, poi ho tirato fuori dal cappello Il Padre perché sapevo che non avrebbero potuto dirmi di no».

Le sue tre versioni sono molto diverse tra loro: la prima era molto moderna, tutto si svolgeva in una gabbia di quattro metri per quattro e gli attori erano completamente nudi; la seconda si caratterizzava per la scenografia e uno specchio nel quale il padre si rifletteva; in questa terza versione l’essenza della scenografia è duplice: impreziosita dal velluto rosso del divano e delle poltrone, delle tende e del pavimento; romanticizzata dall’arredamento sghembo che richiama il fantastico (ricorda, insieme alla musica, lo stile dei film di Tim Burton) e dalla neve che si vede scendere piano attraverso la finestra.

Partendo da un conflitto coniugale, Strindberg, oltre a sottolineare la crisi dei valori della famiglia borghese, mette in discussione lo stesso istituto del matrimonio, e ci orienta verso temi a lui cari: la lotta tra sessi, il crollo della potenza maschile e la spietata sopraffazione da parte della donna.

Adolf, capitano di cavalleria e uomo di scienza, si trova in disaccordo con sua moglie Laura circa l’educazione da impartire alla loro figlia Bertha: lei vuole a tutti i costi che diventi una pittrice assecondandone le inclinazioni artistiche, lui invece sostiene che la figlia non abbia questo talento e vorrebbe andasse a studiare in città. La donna, furba e manipolatrice, per raggiungere il suo obiettivo e avere tutto il potere sulla bambina non solo insinua nell’uomo il dubbio sulla propria paternità (all’epoca non si disponeva della prova del DNA) con sottili provocazioni e allusioni nell’intento di farlo interdire, ma la stessa con l’aiuto del medico si organizza affinché si dichiari incapace di intendere e di volere. In una crescente lacerazione della sua identità, l’uomo, che si è sacrificato per anni perché la moglie vivesse libera da pensieri, finisce per aggredirla con un lume acceso. Essendo tutti convinti della sua pazzia e non avendo più alcun controllo per legge sulla figlia, il capitano si rifugerà tra le braccia sicure della sua vecchia bàlia, unica donna fidata, proprio colei che farà indossare al suo bambino la camicia di forza piano piano, inscenando per gioco la vestizione di un re. Il crollo della potenza maschile è avvenuto: egli versa lacrime anche se è un uomo.

Ne Il Padre c’è il rapporto contorto dell’uomo con la propria parte femminile, che lo costringe a fare a pugni con la sua identità e lo conduce alla sofferenza, probabilmente la stessa provata proprio da Strindberg in alcuni periodi della sua vita. ll sospetto di non essere lui il padre di Bertha e l’impossibilità di scongiurare questo dubbio lo fa ammalare.

Lavia a tal proposito ha detto:

«Molte donne vengono da me a fine spettacolo e mi dicono: “Ho pianto”. In un mondo che ha coscienza della violenza sulla donna, è curioso come la violenza sull’uomo le commuova».

Una costante negli spettacoli strindberghiani è da un lato il mondo stravolto (nel Pellicano e nella Danza macabra), dall’altro il lato ironico. Nella rappresentazione di questo testo, nel quale Lavia inserisce brani di altri drammi di Strindberg (L’isola dei morti e Sonata di fantasmi), ci troviamo di fronte a un personaggio comico, goffo e molto affezionato alla figlia, che crea per suo padre un pupazzo che gli somiglia: i padri forse sono destinati ad essere presi in giro, ora dal carattere giocoso di un figlio ora dall’ironia affine che si instaura tra fratelli. A differenza del testo originale, qui la figura della figlia, da ragazzina forte e ambiziosa diviene sul palco una fanciulla completamente dipendente dai genitori.

Strindberg resta un autore per molti versi ironico e geniale e in tanti lo avevano compreso. Quando nel giorno del suo ultimo compleanno lo si era visto sporgere solo una candela fuori dalla finestra perché non poteva affacciarsi, lì fuori c’era tutta la città.

Alessandra Pisconti

di Johan August Strindberg
con Gabriele Lavia
e con Federica Di Martino, Giusi Merli, Gianni De Lellis, Michele Demaria, Luca Pedron, Gidari Ghennadi
regia Gabriele Lavia
scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
Fondazione Teatro della Toscana

 

 

CARLO CECCHI E LA FOLLIA CONSAPEVOLE DELL’ENRICO IV

Dal 13 al 25 Febbraio al Teatro Carignano di Torino è andato in scena Enrico IV di Luigi Pirandello, con l’adattamento e la regia di Carlo Cecchi.

Enrico IV, uno dei testi più conosciuti e importanti di Pirandello, nella versione di Carlo Cecchi è la storia di un uomo che da vent’anni veste i panni dell’Imperatore di Franconia come inganno per simulare una nuova vita e come evasione dalla quotidianità e dalla realtà. Gli altri lo credono però pazzo e perciò lo assecondano in questa commedia per paura e per affetto, tanto da aver assunto degli attori come vassalli per fargli compagnia nella sua dimora, arredata e vissuta secondo gli usi del periodo storico in cui visse Enrico IV. Dopo ormai molti anni però gli amici decidono che l’uomo deve guarire, e portano al suo cospetto un famoso medico che dovrebbe riuscire ad aiutarlo: ovviamente l’incontro avviene con indosso costumi del periodo e sotto precisi pseudonimi storici, e il medico riesce così a fare una diagnosi. Ma durante un incontro con i suoi vassalli nella sala del trono l’Imperatore ammette di non essere mai stato malato e in questo modo tutti vengono a scoprire l’inganno.  Nel finale, come è ben noto, Enrico IV uccide Belcredi. Ma la morte, e tutto il resto, è nella versione di Cecchi finta, perché come ricorda proprio il protagonista, devono tutti riprendersi per la prossima replica, catapultando così gli spettatori in una improvvisa e quasi inaspettata dimensione meta teatrale.

 

Il testo affronta i grandi temi della maschera, della follia e del rapporto tra finzione e realtà: l’uomo sfugge razionalmente ad una realtà che non ama e che non lo rappresenta, e questo è infatti l’emblema pirandelliano del legame tra maschera e realtà. Un altro tema importantissimo e che Cecchi ha voluto mettere bene in luce è quello del teatro e della recitazione stessa: lo si vede chiaramente nel finale dello spettacolo, ma anche nella motivazione data alla falsa follia dell’Imperatore, che egli spiega in un bellissimo monologo, fulcro dello spettacolo: la vocazione teatrale.

Nonostante tutti gli attori fossero molto bravi e incisivi, non poteva non spiccare la recitazione di Carlo Cecchi: la sua tipica cadenza napoletana restituisce verità alla sua interpretazione e fa sì che il pubblico avverta che in quel momento in scena, proprio sotto i suoi occhi, stia accadendo qualcosa di profondamente reale. La cultura popolare infatti si insinua nella sua recitazione e la renda spontanea, giocosa, ma allo stesso tempo grottesca: si accende negli spettatori una coscienza critica che permette loro di vedere con lucidità i vari argomenti che questa recita porta alla nostra attenzione. Il carattere antinaturalistico del suo teatro infatti è perfettamente visibile anche grazie ai suoi movimenti un po’ legnosi, agli abiti molto larghi utilizzati per richiamare l’elemento burattinesco. Spesso inoltre egli recita di spalle, rendendo un po’ difficile la comprensione delle sue parole agli spettatori, sottolineando così l’impossibilità della piena e compiuta realizzazione artistica, altro tema a lui molto caro.

 

Interessante la scenografia realizzata da Sergio Tramonti: molto efficace nel richiamare la finta atmosfera medievale con diversi oggetti di scena, come le armature, ma soprattutto decisiva nel creare un ambiente sospeso, quasi fuori da tempo, quando gli attori si trovano nella sala del trono. Essa infatti ha come fondale uno specchio che riflette tutto quello che sta accadendo in scena, le rivelazioni e le finzioni, rende visibili gli attori che si voltano di spalle, catapultandoci così in un ambiente menta teatrale e sottolineando le duplici funzioni che il teatro può avere.

a cura di Alice Del Mutolo                                                                                      

di Luigi Pirandello
adattamento Carlo Cecchi
con Carlo Cecchi, Angelica Ippolito, Gigio Morra, Roberto Trifirò, Dario Iubatti, Federico Brugnone, Remo Stella, Chiara Mancuso, Matteo Lai, Davide Giordano
regia Carlo Cecchi
scene Sergio Tramonti
costumi Nanà Cecchi
luci Camilla Piccioni
Marche Teatro

 

UNA VITA A MATITA

In scena il 24 Febbraio alla Casa del Teatro Ragazzi e Giovani “Una vita a matita” della compagnia Quinto Equilibrio.

Ogni anno nel mondo vengono festeggiati all’incirca 7 miliardi di compleanni e 21 milioni di non compleanni”

Così ci accoglie una voce fuori campo, mentre due figure entrano all’unisono in scena e si fermano ad ascoltare. Chi sono? E qual è il loro compito? Sono due scienziati alle prese con la sperimentazione delle giuste formule e tecniche per evitare catastrofi e sprechi durante i festeggiamenti di compleanno, cercando di capire quando e perchè questo rituale si è trasformato in pura forma, in un evento consumistico.

Gli esperimenti dei ricercatori, dimostrati attraverso virtuosismi acrobatici e di giocoleria, sono intervallati dalla voce registrata che passa in rassegna dati statistici e cifre di consumo talmente incredibili da farci scoppiare a ridere.

Tute bianche, scenografia quasi vuota, ad eccezione di un tavolino con lo stretto indispensabile, e delle “righe” luminose colorate costituiscono il set del laboratorio.

Le ricerche passano in esame i principali oggetti usati nelle feste di compleanno, e ne suddividono lo studio in varie fasi.

L’oggetto di studio n. 1 non poteva che essere il POP CORN. Come nasce il pop corn è noto a tutti, ma cosa succede in quell’istante in cui il nucleo si espande generando il fiocco bianco? E cosa accade quando lo sottoponiamo alla forza di gravità? Ce lo raccontano attraverso giochi sempre più comici e assurdi, che ci portano infine al secondo oggetto di studio: le trombette. Pochi sanno che il loro nome esteso è “trombette o lingua di Menelik”, e ancora meno risapute sono le sue radici. Esse affondano del XV secolo, e il nome deriva da Menelik II d’Etiopia, sovrano dalla lingua assai pungente, come il suono di queste trombette, che nessuno sopporta ma che continuano ad essere usate.

Di studio in studio arriva il momento di ricreare l’habitat ideale per i festeggiamenti: musica alta, strobo sfera, e due “ciuffi” di palloncini a creare un po’ di ambient. Ma mentre i due scienziati ballano, si rendono conto di essere soli in mezzo a tanti oggetti. Senza abbandonare la dimensione comica, la riflessione sposta la sua attenzione dagli oggetti alla sfera emotiva. Il compleanno non è solo regali, cibo e festoni, ma è in primo luogo uno di quei momenti che crea eccitazione e grandi aspettative, ma allo stesso tempo lascia dietro di se una scia di malinconia, e tutto ciò che ci rimane da fare,è esprimere i nostri desideri soffiando sulle candeline:

Vorrei sapere perchè le cose si rompono
V
orrei che gli esseri umani fossero più umani e meno esseri
V
orrei affacciarmi alla finestra di san Pietro e urlare Buon anno!
V
orrei andare in letargo con gli orsi
V
orrei che i pinguini non fossero sempre associati ai camerieri
V
orrei che mia figlia piangesse solo di felicità
V
orrei tuffarmi in una piscina piena di tagliatelle
V
orrei che una candelina rimanesse sempre accesa”

Lara Barzon