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Orfeo: il mito alle origini del teatro d’opera

L’Orfeo di Monteverdi andò in scena la prima volta nel palazzo Ducale di Mantova il 24 febbraio 1607. Se esso sia o meno considerabile dalla storiografia il primo esempio ufficiale di teatro musicale è una questione che tutt’ora fa dibattere i musicologi. Tecnicamente il primo melodramma fu l’Euridice di Peri e Rinuccini, rappresentato a Palazzo Pitti, a Firenze, il 6 ottobre 1600, a cui probabilmente Monteverdi assistette. Sicuramente l’opera monteverdiana è la più antica ancora presente nei cartelloni delle stagioni liriche.

Ricordiamo che alla corte dei Gonzaga fu invitato un ristretto numero di cortigiani. Il fatto che a distanza di quattro secoli il pubblico contemporaneo continui ad applaudire la creazione mantovana è indicativo dell’appeal che ancora esercita sui suoi fans. Forse in virtù dell’ordine armonioso che Monteverdi e Striggio infondono ad un’articolazione drammatica in cui si mescolano echi classicheggianti, gusto pastorale e vari effetti scenici.

Arduo è per gli stessi musicologi decretarne un’appartenenza certa allo stile barocco o a quello rinascimentale. A detta di Alessio Pizzech, regista della versione in scena al Teatro Regio di Torino dal 13 al 21 marzo, l’opera sarebbe musicalmente già barocca, ma drammaturgicamente ancora rinascimentale. Il soggetto infatti, ispirato al mito greco, è trattato in chiave profondamente filo-umanista: l’uomo alle prese con la necessaria comprensione dell’irreversibilità della morte.

A riflettere sulla propria condizione, amorosa prima e tragica poi, è il protagonista Orfeo, interpretato dall’eccellente baritono Mauro Borgioni, con un timbro appropriato, sempre comprensibile e un’interpretazione sentita.

La rappresentazione si inserisce nell’ambito del Progetto Opera Barocca. L’orchestra e il Coro del Teatro Regio sono affiancati dall’Ensemble strumentale La Pifarescha.

Dispiace che l’esecuzione sia stata disturbata da alcuni rumori, come quelli delle moquettes erbose, goffamente trascinate via nel bel mezzo dell’aria della Messaggera, interpretata dall’intensa Monica Bacelli.

Il bellissimo trompe l’oeil da studiolo umanista di corte che ospita scenograficamente la vicenda ha forse qualcosa a che fare con un certo inganno visivo, filo conduttore di questa resa dell’Orfeo. Esso viene rappresentato con immagini suadenti, attraverso coreografie sensuali, costumi di gusto kitsch (Caronte Aquaman, Apollo dorato con cetra al neon, becchini di Al Capone che trasportano il cadavere di Euridice), scenografie più barocche del barocco e quantità esageratamente fastose di persone in scena (non sempre coordinate tra loro) e di fantastici oggetti mobili.

Il palco inclinato è metaforicamente aggressivo, un’immagine aggettante verso lo sguardo inerme e goduto dello spettatore. Una regia consapevolmente provocatoria o semplicemente dettata dalle ineludibili tendenze attualizzanti che investono il mondo dell’opera?

Tobia Rossetti e Marida Bruson

IL BALLO

Un’attrice, 5 voci, tanti specchi.

Sonia Bergamasco porta sulla scena del Teatro Gobetti una favola nera di Irène Némirovsky, scrittrice francese di origine ebraica vittima dell’olocausto.

E’ la storia di Antoniette, una ragazzina quattordicenne, figlia di ebrei arricchiti, trascurata da una madre troppo narcisista ed egoista per preoccuparsi di lei.

Finalmente la madre ha ottenuto la ricchezza tanto desiderata e può permettersi di dare il primo ballo, che le aprirà le porte al suo debutto in società. Ma Antoinette viene esclusa: non può parteciparvi, e tanto meno rivolgere la parola a qualcuno. Chiusa in camera. Quello è il suo posto.

La ragazza allora compie il suo atto di vendetta: in un attimo d’ira getta nel fiume gli inviti, così che nessun nobile lo riceverà mai.

E’ il giorno del ballo: il tavolo è imbandito con pietanze di ogni tipo, la sala addobbata a festa, l’orchestra pronta per suonare. Ogni cosa è predisposta per accogliere la più alta società.

Ma non arriva nessuno. Solo la vecchia cugina, presenza non gradita dalla madre, ha ricevuto il biglietto a mano, e si trova ad essere partecipe di quest’immensa umiliazione.

Di fronte alla disperazione, la figlia, col viso nascosto tra le braccia della madre in lacrime, ride. La vendetta è stata compiuta.

Sonia Bergamasco porta in scena con un’interpretazione magistrale il racconto in tutta la sua spietatezza, dando voce ai 5 protagonisti: Antoinette, la madre, il padre, l’educatrice e la vecchia cugina.

Come scrive la stessa Bergamasco è una storia “di vendetta e di disamore; (..) il teatro di un bambino solo che costruisce il suo mondo, perchè il mondo conosciuto (quello degli adulti) non è bello e non gli piace”

Ed è questo che noi vediamo: una figura esile e bianca, che si muove sola, in un palcoscenico pieno di specchi, in cui si è costretti a guardare e guardarsi: in cui madre e figlia sono costrette a rispecchiarsi.

Ma la storia di Antoinette è molto più di questo: “è l’arma di vendetta di una scrittrice che sempre, in ogni sua opera, ricorda e non perdona. La scrittura come arma, scoperta molto presto da Irène, proprio contro quella famiglia, quella madre che non aveva saputo amarla.”

Lara Barzon

Racconto di scena ideato e interpretato da Sonia Bergamasco
liberamente ispirato a 
Il ballo di Irène Némirovsky
disegno luci Cesare Accetta
scena Barbara Petrecca
costume di scena Giovanna Buzzi
Teatro Franco Parenti / Sonia Bergamasco

Mistero Buffo: capolavoro intoccabile?

La nuova versione di Mistero Buffo con l’interpretazione di Matthias Martelli e la regia di Eugenio Allegri (coproduzione del Teatro Stabile di Torino e del Teatro della Caduta) è andata in scena dal 6 al 18 febbraio alle Fonderie Limone di Moncalieri.

Dario Fo è Dario Fo. Mistero Buffo è un capolavoro intramontabile,

ma è davvero intoccabile?

Riportarlo sulla scena è un’impresa. Matthias Martelli ci riesce. Vince gli sguardi diffidenti degli spettatori, dapprima un po’ freddi e timorosi, ma che si scaldano in fretta con grasse risate di fronte alle esilaranti giullarate. Il palcoscenico è totalmente spoglio, l’attore solo in scena e in abito neutro alla maniera del Maestro e gli episodi estrapolati sono riproposti tali e quali a livello testuale, con quel tipico miscuglio di linguaggi dialettali, volgari antichi e latinismi, perfettamente comprensibili.

Matthias Martelli in Mistero Buffo

Fa piacere vedere un pubblico vario, che unisce più generazioni, dai più anziani, ai bambini. Martelli si aggira tra la gente ancora prima che lo spettacolo inizi, aspettando l’ingresso di tutti gli spettatori, mentre sul fondale vengono proiettate una serie di fotografie che riportano agli anni Settanta (da immagini di programmi Rai a scatti delle stragi degli anni di piombo) periodo in cui Mistero Buffo, a partire dal ’69, ha fatto innumerevoli repliche in Italia e non solo.

Gli intermezzi tra un episodio e l’altro, invece, sono attualizzati. Ogni episodio è preceduto dalla tipica chiacchierata col pubblico, che ne introduce l’argomento, talvolta con l’aiuto di immagini, affreschi e dipinti, che rientrano nella tradizione iconografica medievale; inevitabilmente questi momenti di dialogo sono stati contestualizzati nei giorni nostri, con accenni di satira ad argomenti di attualità.

Quattro i misteri scelti:

-Le Nozze di Cana
-La resurrezione di Lazzaro
-Bonifacio VIII
-Il primo miracolo di Gesù bambino

Lo spettacolo si apre e si chiude con un omaggio a Dario Fo e Franca Rame: una loro fotografia insieme.

La decisione di Eugenio Allegri, di comune accordo con il giovane attore, è stata quella di far continuare a vivere Mistero Buffo in maniera fedele e rispettosa dell’originale, ma facendone al contempo un’interpretazione il più personale possibile. Sono partiti dalle basi su cui si è fondato il lavoro scenico di Fo, tutte componenti affini al retaggio artistico di regista e interprete: la dialettica tra corpo-suono, in cui convivono linguaggio corporeo e gestualità vocalica, attraverso gli studi sulla Commedia dell’Arte e i principi di teatro fisico e vocale del mimo francese Jacques Lecoq. Matthias Martelli, ben consapevole di avere una fisicità e un’espressività diversa dal Maestro, porta avanti un lavoro personale sulla comicità, già maturato con le numerose repliche del suo Mercante di Monologhi, che gli ha permesso di indagare e scoprire meglio le proprie possibilità espressive.

 Allegri e Martelli si sono buttati a capofitto in questo rischioso progetto già nel 2016, chiedendo il permesso a Dario Fo. Gli hanno inviato il video di un estratto (l’episodio di Bonifacio VIII) e lui ha dato la sua approvazione il 3 ottobre, dieci giorni prima di venire a mancare.
D’altronde sarebbe stato un peccato non poter più godere dell’opera di Fo e vederla spegnersi con lui, irrigidita sulle pagine di un libro, che invece contengono una materia così viva ed esplosiva sul palcoscenico. Mistero Buffo merita di continuare a divertire e arricchire un pubblico oggi bisognoso, forse più che mai, di ridere mettendo in moto cuore e cervello.

Alessandra Minchillo


Mistero Buffo

6 -18 febbraio 2018 – Fonderie Limone

di Dario Fo
con Matthias Martelli
regia di Eugenio Allegri
aiuto regia Alessia Donadio
luci e fonica Alessandro Bigatti
tecnico video Loris Spanu
coach fisico Francesca Garrone
management Serena Guidelli

coproduzione Teatro Stabile di Torino – Teatro della Caduta

in collaborazione con Teatro Fonderia Leopolda e Comune di Follonica
con il patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo.

“Il Padre”di Strindberg va al tappeto

Gabriele Lavia ha diretto e interpretato al Teatro Carignano di Torino, Il Padre, un dramma del 1887 dello scrittore svedese Johan August Strindberg, amato e definito da Nietzsche «un capolavoro di dura psicologia». I valori universali di questo testo hanno invitato l’attore a portarlo in scena per la terza volta. Nel dialogo di Retroscena con il professore Franco Perrelli che si è tenuto al Teatro Gobetti nel febbraio scorso Lavia ha spiegato:

«Non volevo fare Il Padre, ma tutti i pezzi che sceglievo costavano troppo. È un vecchio gioco tra me e le mie produzioni. La mia prima scelta era Il Temporale, poi ho tirato fuori dal cappello Il Padre perché sapevo che non avrebbero potuto dirmi di no».

Le sue tre versioni sono molto diverse tra loro: la prima era molto moderna, tutto si svolgeva in una gabbia di quattro metri per quattro e gli attori erano completamente nudi; la seconda si caratterizzava per la scenografia e uno specchio nel quale il padre si rifletteva; in questa terza versione l’essenza della scenografia è duplice: impreziosita dal velluto rosso del divano e delle poltrone, delle tende e del pavimento; romanticizzata dall’arredamento sghembo che richiama il fantastico (ricorda, insieme alla musica, lo stile dei film di Tim Burton) e dalla neve che si vede scendere piano attraverso la finestra.

Partendo da un conflitto coniugale, Strindberg, oltre a sottolineare la crisi dei valori della famiglia borghese, mette in discussione lo stesso istituto del matrimonio, e ci orienta verso temi a lui cari: la lotta tra sessi, il crollo della potenza maschile e la spietata sopraffazione da parte della donna.

Adolf, capitano di cavalleria e uomo di scienza, si trova in disaccordo con sua moglie Laura circa l’educazione da impartire alla loro figlia Bertha: lei vuole a tutti i costi che diventi una pittrice assecondandone le inclinazioni artistiche, lui invece sostiene che la figlia non abbia questo talento e vorrebbe andasse a studiare in città. La donna, furba e manipolatrice, per raggiungere il suo obiettivo e avere tutto il potere sulla bambina non solo insinua nell’uomo il dubbio sulla propria paternità (all’epoca non si disponeva della prova del DNA) con sottili provocazioni e allusioni nell’intento di farlo interdire, ma la stessa con l’aiuto del medico si organizza affinché si dichiari incapace di intendere e di volere. In una crescente lacerazione della sua identità, l’uomo, che si è sacrificato per anni perché la moglie vivesse libera da pensieri, finisce per aggredirla con un lume acceso. Essendo tutti convinti della sua pazzia e non avendo più alcun controllo per legge sulla figlia, il capitano si rifugerà tra le braccia sicure della sua vecchia bàlia, unica donna fidata, proprio colei che farà indossare al suo bambino la camicia di forza piano piano, inscenando per gioco la vestizione di un re. Il crollo della potenza maschile è avvenuto: egli versa lacrime anche se è un uomo.

Ne Il Padre c’è il rapporto contorto dell’uomo con la propria parte femminile, che lo costringe a fare a pugni con la sua identità e lo conduce alla sofferenza, probabilmente la stessa provata proprio da Strindberg in alcuni periodi della sua vita. ll sospetto di non essere lui il padre di Bertha e l’impossibilità di scongiurare questo dubbio lo fa ammalare.

Lavia a tal proposito ha detto:

«Molte donne vengono da me a fine spettacolo e mi dicono: “Ho pianto”. In un mondo che ha coscienza della violenza sulla donna, è curioso come la violenza sull’uomo le commuova».

Una costante negli spettacoli strindberghiani è da un lato il mondo stravolto (nel Pellicano e nella Danza macabra), dall’altro il lato ironico. Nella rappresentazione di questo testo, nel quale Lavia inserisce brani di altri drammi di Strindberg (L’isola dei morti e Sonata di fantasmi), ci troviamo di fronte a un personaggio comico, goffo e molto affezionato alla figlia, che crea per suo padre un pupazzo che gli somiglia: i padri forse sono destinati ad essere presi in giro, ora dal carattere giocoso di un figlio ora dall’ironia affine che si instaura tra fratelli. A differenza del testo originale, qui la figura della figlia, da ragazzina forte e ambiziosa diviene sul palco una fanciulla completamente dipendente dai genitori.

Strindberg resta un autore per molti versi ironico e geniale e in tanti lo avevano compreso. Quando nel giorno del suo ultimo compleanno lo si era visto sporgere solo una candela fuori dalla finestra perché non poteva affacciarsi, lì fuori c’era tutta la città.

Alessandra Pisconti

di Johan August Strindberg
con Gabriele Lavia
e con Federica Di Martino, Giusi Merli, Gianni De Lellis, Michele Demaria, Luca Pedron, Gidari Ghennadi
regia Gabriele Lavia
scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
Fondazione Teatro della Toscana

 

 

CARLO CECCHI E LA FOLLIA CONSAPEVOLE DELL’ENRICO IV

Dal 13 al 25 Febbraio al Teatro Carignano di Torino è andato in scena Enrico IV di Luigi Pirandello, con l’adattamento e la regia di Carlo Cecchi.

Enrico IV, uno dei testi più conosciuti e importanti di Pirandello, nella versione di Carlo Cecchi è la storia di un uomo che da vent’anni veste i panni dell’Imperatore di Franconia come inganno per simulare una nuova vita e come evasione dalla quotidianità e dalla realtà. Gli altri lo credono però pazzo e perciò lo assecondano in questa commedia per paura e per affetto, tanto da aver assunto degli attori come vassalli per fargli compagnia nella sua dimora, arredata e vissuta secondo gli usi del periodo storico in cui visse Enrico IV. Dopo ormai molti anni però gli amici decidono che l’uomo deve guarire, e portano al suo cospetto un famoso medico che dovrebbe riuscire ad aiutarlo: ovviamente l’incontro avviene con indosso costumi del periodo e sotto precisi pseudonimi storici, e il medico riesce così a fare una diagnosi. Ma durante un incontro con i suoi vassalli nella sala del trono l’Imperatore ammette di non essere mai stato malato e in questo modo tutti vengono a scoprire l’inganno.  Nel finale, come è ben noto, Enrico IV uccide Belcredi. Ma la morte, e tutto il resto, è nella versione di Cecchi finta, perché come ricorda proprio il protagonista, devono tutti riprendersi per la prossima replica, catapultando così gli spettatori in una improvvisa e quasi inaspettata dimensione meta teatrale.

 

Il testo affronta i grandi temi della maschera, della follia e del rapporto tra finzione e realtà: l’uomo sfugge razionalmente ad una realtà che non ama e che non lo rappresenta, e questo è infatti l’emblema pirandelliano del legame tra maschera e realtà. Un altro tema importantissimo e che Cecchi ha voluto mettere bene in luce è quello del teatro e della recitazione stessa: lo si vede chiaramente nel finale dello spettacolo, ma anche nella motivazione data alla falsa follia dell’Imperatore, che egli spiega in un bellissimo monologo, fulcro dello spettacolo: la vocazione teatrale.

Nonostante tutti gli attori fossero molto bravi e incisivi, non poteva non spiccare la recitazione di Carlo Cecchi: la sua tipica cadenza napoletana restituisce verità alla sua interpretazione e fa sì che il pubblico avverta che in quel momento in scena, proprio sotto i suoi occhi, stia accadendo qualcosa di profondamente reale. La cultura popolare infatti si insinua nella sua recitazione e la renda spontanea, giocosa, ma allo stesso tempo grottesca: si accende negli spettatori una coscienza critica che permette loro di vedere con lucidità i vari argomenti che questa recita porta alla nostra attenzione. Il carattere antinaturalistico del suo teatro infatti è perfettamente visibile anche grazie ai suoi movimenti un po’ legnosi, agli abiti molto larghi utilizzati per richiamare l’elemento burattinesco. Spesso inoltre egli recita di spalle, rendendo un po’ difficile la comprensione delle sue parole agli spettatori, sottolineando così l’impossibilità della piena e compiuta realizzazione artistica, altro tema a lui molto caro.

 

Interessante la scenografia realizzata da Sergio Tramonti: molto efficace nel richiamare la finta atmosfera medievale con diversi oggetti di scena, come le armature, ma soprattutto decisiva nel creare un ambiente sospeso, quasi fuori da tempo, quando gli attori si trovano nella sala del trono. Essa infatti ha come fondale uno specchio che riflette tutto quello che sta accadendo in scena, le rivelazioni e le finzioni, rende visibili gli attori che si voltano di spalle, catapultandoci così in un ambiente menta teatrale e sottolineando le duplici funzioni che il teatro può avere.

a cura di Alice Del Mutolo                                                                                      

di Luigi Pirandello
adattamento Carlo Cecchi
con Carlo Cecchi, Angelica Ippolito, Gigio Morra, Roberto Trifirò, Dario Iubatti, Federico Brugnone, Remo Stella, Chiara Mancuso, Matteo Lai, Davide Giordano
regia Carlo Cecchi
scene Sergio Tramonti
costumi Nanà Cecchi
luci Camilla Piccioni
Marche Teatro

 

UNA VITA A MATITA

In scena il 24 Febbraio alla Casa del Teatro Ragazzi e Giovani “Una vita a matita” della compagnia Quinto Equilibrio.

Ogni anno nel mondo vengono festeggiati all’incirca 7 miliardi di compleanni e 21 milioni di non compleanni”

Così ci accoglie una voce fuori campo, mentre due figure entrano all’unisono in scena e si fermano ad ascoltare. Chi sono? E qual è il loro compito? Sono due scienziati alle prese con la sperimentazione delle giuste formule e tecniche per evitare catastrofi e sprechi durante i festeggiamenti di compleanno, cercando di capire quando e perchè questo rituale si è trasformato in pura forma, in un evento consumistico.

Gli esperimenti dei ricercatori, dimostrati attraverso virtuosismi acrobatici e di giocoleria, sono intervallati dalla voce registrata che passa in rassegna dati statistici e cifre di consumo talmente incredibili da farci scoppiare a ridere.

Tute bianche, scenografia quasi vuota, ad eccezione di un tavolino con lo stretto indispensabile, e delle “righe” luminose colorate costituiscono il set del laboratorio.

Le ricerche passano in esame i principali oggetti usati nelle feste di compleanno, e ne suddividono lo studio in varie fasi.

L’oggetto di studio n. 1 non poteva che essere il POP CORN. Come nasce il pop corn è noto a tutti, ma cosa succede in quell’istante in cui il nucleo si espande generando il fiocco bianco? E cosa accade quando lo sottoponiamo alla forza di gravità? Ce lo raccontano attraverso giochi sempre più comici e assurdi, che ci portano infine al secondo oggetto di studio: le trombette. Pochi sanno che il loro nome esteso è “trombette o lingua di Menelik”, e ancora meno risapute sono le sue radici. Esse affondano del XV secolo, e il nome deriva da Menelik II d’Etiopia, sovrano dalla lingua assai pungente, come il suono di queste trombette, che nessuno sopporta ma che continuano ad essere usate.

Di studio in studio arriva il momento di ricreare l’habitat ideale per i festeggiamenti: musica alta, strobo sfera, e due “ciuffi” di palloncini a creare un po’ di ambient. Ma mentre i due scienziati ballano, si rendono conto di essere soli in mezzo a tanti oggetti. Senza abbandonare la dimensione comica, la riflessione sposta la sua attenzione dagli oggetti alla sfera emotiva. Il compleanno non è solo regali, cibo e festoni, ma è in primo luogo uno di quei momenti che crea eccitazione e grandi aspettative, ma allo stesso tempo lascia dietro di se una scia di malinconia, e tutto ciò che ci rimane da fare,è esprimere i nostri desideri soffiando sulle candeline:

Vorrei sapere perchè le cose si rompono
V
orrei che gli esseri umani fossero più umani e meno esseri
V
orrei affacciarmi alla finestra di san Pietro e urlare Buon anno!
V
orrei andare in letargo con gli orsi
V
orrei che i pinguini non fossero sempre associati ai camerieri
V
orrei che mia figlia piangesse solo di felicità
V
orrei tuffarmi in una piscina piena di tagliatelle
V
orrei che una candelina rimanesse sempre accesa”

Lara Barzon

Il camerino dell’ipocrisia (o della società)

Il camerino dell’ipocrisia (o della società)

 

 

La compagnia teatrale “Il mulino di Amleto” ha messo in scena nel febbraio scorso l’opera di Molière Il Misantropo all’interno della stagione teatrale Santa Cultura in Vincoli con tono originale e ironico.

 

Lo spettacolo inizia con Alceste, il protagonista, e Filinte che litigano perché Filinte ha appena abbracciato e salutato con affetto una persona che a malapena conosce. Con questo primo scontro iniziale ci viene subito presentata la questione intorno alla quale si snoderà tutto il senso del testo: è giusto mantenere un rapporto di cordiale “amicizia” nonostante il proprio pensiero – che troppe volte non corrisponde affatto a come ci si mostra – come sostiene Filinte, o bisogna dire ciò che si pensa senza farsi troppi scrupoli, come ribadisce Alceste, rendendo così i rapporti forse più aspri e complessi ma sicuramente più sinceri?

Durante la discussione arriva Oronte, un amico che improvvisatosi scrittore, fa leggere ad Alceste una sua poesia. Vorrebbe ricevere un parere sincero e dal momento che Alceste è conosciuto per la sua onestà e la sua schiettezza sembra la persona più adatta. Dopo un primo tentativo di salvare le apparenze, sotto consiglio del cauto Filinte, Alceste non riesce a trattenersi e scoppia in un commento pesante per il povero Oronte che, offeso e colpito sul personale, lo denuncerà per l’umiliazione subita. Alceste, ovviamente, non si mostrerà mai minimamente dispiaciuto per l’accaduto, anzi, rivendicherà fiero la sua fedeltà a quei principi che regolano la sua vita, principi che non accettano compromessi.

In un momento successivo scopriamo che quei versi sono stati scritti per la bella Celimene, amante di Alceste, con la quale ha un rapporto di amore-odio: se non riesce a sopportarne i difetti, allo stesso tempo non riesce neanche a fare a meno di lei, donna bella e corteggiata che ama circondarsi di ammiratori e “amici” e dare feste e ricevimenti. La falsità dimostrata dai gentiluomini e dalle gentildonne che frequentano la casa di Celimene vengono marcati e sottolineati ancora di più dagli stessi comportamenti di Alceste. Egli non si adatta a quell’ambiente formale, non rispetta le regole che la buona educazione e la convivenza civile impongono. Al contrario, fa di tutto per farsi notare, per rompere quell’equilibrio fatto di falsi sorrisi e frasi di circostanza, per scuotere dalle fondamenta quell’aria perbenista e cordiale così insopportabile.

Lo vediamo lottare, farsi portavoce di un’istanza di verità, di una lotta che non può essere vinta ma che deve essere combattuta, a costo di perdere tutto, anche l’amata Celimemene. Celimene era infatti l’unica persona che avrebbe portato con sé nell’esilio volontario che si impone per allontanarsi da quel mondo fatto solo di apparenze, l’unica persona per la quale era disposto a cedere, ad accettare un compromesso in cambio di una vita felice. Ma nemmeno questo basterà.

 

Alceste potrebbe essere definito in vari modi, a seconda del punto di vista di chi lo osserva: disadattato, asociale, anticonformista, ribelle. La sua morale non gli permette di scendere a compromessi e la sua critica verso la società è dura e irremovibile. Ma non si può non notare che quelle parole tanto aspre e accusatorie che rivolge verso gli altri sono le stesse che potrebbe rivolgere anche a se stesso. Soffre dell’ipocrisia che lo circonda ma allo stesso tempo si contraddice. Odia gli estremismi di ogni genere ma ne vorrebbe rappresentare uno, quello del lupo solitario superiore ad ogni convenzione sociale. In sostanza, non c’è coerenza tra quello che dice e quello che poi effettivamente fa, e l’esempio lampante di questo suo comportamento sta proprio nel suo sentimento d’amore. Alceste desidera ciò che più odia, è innamorato della signorina più civettuola e frivola di tutti, padrona della casa che ospita quegli ipocriti che Alceste tanto detesta, amica di persone false tanto quanto lei. Indugia in un eterno odi et amo, abbandonandosi alle dolci rassicurazioni di lei e provando poi un’ira terribile quando viene a sapere del suo presunto tradimento.

Molto interessante e tematicamente attuale la scena in cui, sospettando il tradimento, accecato dal rancore, si abbandona tra le braccia di Eliante per consolarsi. Ma quella che sembra una richiesta di affetto e di comprensione degenera quasi in uno stupro. Vediamo l’attrice dimenarsi mentre viene trattenuta e cercare di convincerlo che non è il modo migliore di reagire ad un torto subito.Quando Eliante riesce a divincolarsi, lui non la degna più di uno sguardo, non le porge delle scuse per ciò che aveva fatto poco prima, per aver giocato con i suoi sentimenti e averla bloccata e strattonata con la forza pur avendo ricevuto un chiaro rifiuto.

Gli attori si dimostrano particolarmente abili nel giocare bene il rapporto tra lo spazio d’azione drammatica e il teatro stesso – Ex cimitero di San Pietro in Vincoli, un posto piccolo e accogliente, elegante e suggestivo – sfruttando l’intimità che il luogo offre e la vicinanza del pubblico per sorprenderlo e coinvolgerlo.

La scenografia, composta per lo più da pochi arredi semplici, mostra un elemento interessante: sul fondale è sistemata una fila di specchi e di sedie, come quelli di un grande camerino di teatro, separata dal resto della scena da un telo trasparente che quando illuminato lascia intravedere. Si crea così un’interessante spazio d’azione secondario dove far accadere controscene divertenti, come quella di Alceste che in preda alla disperazione si cosparge di benzina per darsi fuoco,  o intime, come quando Celimene riflette dopo il duro confronto con Alceste.

Molto abile e ben congeniato è anche l’uso degli oggetti, in particolar modo degli alimenti. Qui il cibo, consumato veramente dagli attori con precisi intenti e significati, diventa un importante elemento drammatico: esilarante il momento in cui Alceste, per creare scompiglio tra gli ospiti di Celimene e marcare ancora di più la differenza tra lui e il gruppo, si rovescia addosso la bottiglia di spumante, si ingozza con le meringhe e si cosparge di torta, sporcandosi faccia, vestiti e capelli che rimarrano così durante tutto lo spettacolo. Ma non solo: il cibo viene anche condiviso con il pubblico, che si diverte molto a ricevere bicchieri di spumante e pop corn dentro coni di cartone direttamente dagli attori, che invitano i più temerari a ballare insieme a loro durante la festa a casa di Celimemene.

L’approccio che la compagnia utilizza permette di analizzare al meglio i temi che l’opera affronta, in particolar modo le riflessioni sui rapporti umani.

La compagnia è composta da Federico Manfredi(Alceste), Roberta Calia (Celimemene),Yuri D’agostino (Oronte),Marco Lorenzi (il giudice),Barbara Mazzi (Eliante, amica di Celimene) e Raffaele Musella (Filinte).

Un aiuto prezioso arriva anche dalla musica, che passa da Sostakovic a Help dei Beatles, conferendo al testo una chiave moderna e godibile. Gli abiti moderni, un po’ restrò nel gusto, e le musiche contemporanee creano infatti un contrasto interessante con la parlata che rimane quella di un testo del XVII secolo.

Sarebbe interessante capire come Moliere avrebbe adattato Il Misantropo ai nostri tempi, cioè nell’epoca dei social, dove la maggior parte dei rapporti sono fittizi e fasulli. Sarebbe curioso vedere la reazione di Alceste: credo che tutti noi la pensiamo un po’ come lui, ma che la maggior parte lo nasconda.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Uno Schiaccianoci politically correct

Tommaso Monza e Claudia Rossi Valli tornano sul palco della Lavanderia a Vapore con una rivisitazione contemporanea del grande classico di Tchaikovsky e Petipa, Lo Schiaccianoci. La versione, riletta e rivitalizzata, rasenta il “mastodontico”: sulla scena non si conta il numero di comparse, presumibilmente una cinquantina, tra danzatori professionisti (compagnia Natiscalzi DT), il coro di bambini della scuola Marconi di Collegno, in collaborazione con la Cooperativa 360, le studentesse delle scuole di danza Stabilimento delle arti di Alessandria e Lab 22 di Collegno. Di “mastodontico”, oltre i numeri, ci sono anche le aspettative di coinvolgimento e di partecipazione che il balletto mette in campo. La complessa idea progettuale mira infatti a far dialogare molteplici e diversificate realtà locali: a quelle già citate si aggiungono l’Accademia Albertina di Torino, presso la quale gli studenti hanno illustrato in un fumetto i testi di Arianna Perrone, ex allieva della Scuola Holden, scritti a contatto con il processo di creazione della coreografia, avvenuto l’anno scorso, sempre fra le mura della Lavanderia. Tali testi costituiscono inoltre parte consistente della drammaturgia dello spettacolo stesso. Non ultima, l’introduzione alla storia del balletto russo tenuta dal prof. Alessandro Pontremoli dell’Università di Torino. Facile intuire che, a fianco della nobile volontà da cui è animato il progetto, la resa coerente e solida dello stesso si prospetta ardua.

Un evento a trecentosessanta gradi della durata di un’ora e mezza (come del resto il balletto originale) che avvicina ambiti professionali diversi, pubblici variegati, famiglie, bambini, ragazzi e studenti. Un evento che tuttavia, in virtù di questa sua natura eterogenea, non si dichiara mai esplicitamente appartenente a una definita etichetta critica: sarà teatro ragazzi o danza d’autore? Un progetto di sostegno a un coreografo emergente o un re-enactment di un classico della danza? O ancora uno spettacolo per le famiglie, sulla falsa riga di un saggio di fine anno? Da un punto di vista drammaturgico la narrazione percorre la vita e i sogni dei personaggi incarnati dai danzatori, che vogliono presumibilmente avvicinarsi alla vita e ai sogni di ognuno di noi, ma con i quali, a livello partecipativo, si fa fatica a identificarsi. La causa è l’addizione di scene eccellenti che prese singolarmente basterebbero a giustificare un intero spettacolo dedicato, ma che susseguendosi rapidamente in una bulimia di cose da dire non rimangono, come meriterebbero, impresse nella memoria dello spettatore. Sul palco, inoltre, si accumulano una serie di oggetti e di strumenti non sufficientemente valorizzati: tra gli altri un grosso tappeto elastico, un giradischi, una moltitudine di giocattoli, costumi variopinti, un vinile, un diario, un microfono, un clarinetto… Viene da chiedersi quanto potere effettivamente abbiano (o non abbiano) avuto i due giovani autori dello spettacolo, Tommaso Monza e Claudia Rossi Valli, su questi numerosi aspetti importanti e preziosi, costitutivi della loro opera. L’elenco dei coproduttori (Compagnia Abbondanza Bertoni – Cid Cantieri – Festival Oriente Occidente) e dei sostenitori (Lavanderia a Vapore di Collegno, Fonderia 39 – Aterballetto – Reggio Emilia) è ricco e prestigioso. La mancanza tuttavia di una riconoscibilità propria di questo re-enactment dello Schiaccianoci, se non si fa apprezzare dagli addetti ai lavori, è una scommessa per quel che riguarda la ricezione del pubblico, non precisamente avvezzo, come si sa, alla danza accademica e neanche a quella contemporaneità con cui si è soliti oggi reinterpretare i classici. Lo amerà? Lo comprenderà? O gli basterà riconoscere sul palco qualcuno della sua famiglia, magari un suo bambino, perché l’esito del progetto possa dirsi positivo?

L’aspetto più meritevole è certamente la mole inimmaginabile di lavoro e di competenze che stanno dietro allo spettacolo, e che sicuramente hanno richiesto lo spostamento e il coordinamento di grosse masse di partecipanti, ancora più complesse da gestire se si pensa alle diverse fasce di età e alle diverse provenienze (pensiamo soprattutto ai numerosissimi bambini e adolescenti presenti sul palco). Una cultura del corpo che travalica le generazioni e i generi per avvicinare tutti, in una sana e salutare pratica motoria che si è consacrata nella briosa messa in scena finale cui abbiamo assistito alla Lavanderia.

Si rivela particolarmente apprezzabile l’estetica che caratterizza l’opera: un tripudio tipicamente italiano, potremmo dire felliniano, che tramite l’accumulo di immagini celebra il sogno e la festa, resi cinematograficamente dallo spostamento, già citato, di considerevoli masse sulla scena, di una scenografia giocosa e di sequenze coreografiche numerose che sembrano omaggiare le dolcezze della vita in chiave sociale, sostenibile, comunitaria. Forse più ancora che lo spirito natalizio della fonte drammaturgica, lo stile della rappresentazione sposa un gusto e una propensione festosa dello spirito tipicamente made in Italy. Non a caso il coro di voci bianche richiama alla recente memoria quello che, altrettanto fellinianamente, ha cantato e decantato la Vita in vacanza al Festival della canzone italiana di Sanremo poche settimane fa.

Uno Schiaccianoci molto ricco, molto lungo e molto popolato, che in definitiva, come dice uno dei protagonisti nei confronti del signor Drosselmeyer, “affascina ma non è limpido”.

Senza filtro – Uno spettacolo per Alda Merini

È il primo novembre, siamo al Bar Charlie sui navigli di Milano. L’atmosfera è in stile anni Sessanta. La scena davanti a noi è caotica, onirica e suggestiva: sedie rotte, impilate una sull’altra, tazzine da caffè sporche, pagine sparse sul pavimento. Al centro, un tavolino, due seggiole e una macchina da scrivere. Sullo sfondo un musicista, Marco Pagani, commenta la scena con chitarra e pad elettronico. In primo piano, Rossella Rapisarda, co-autrice della pièce con Fabrizio Visconti, è l’unica attrice. Indossa le vesti di un angelo biondo, un po’ spettinato, in attesa di qualcuno che non ci è dato conoscere. Attesa che trasformandosi in racconto dà vita allo spettacolo.

Senza filtro – Uno spettacolo per Alda Merini è la produzione teatrale della compagnia Eccentrici Dadarò andata in scena venerdì 16 Febbraio alla Lavanderia a Vapore di Collegno. Come da titolo, la rappresentazione omaggia la poetessa e scrittrice milanese, vittima, insieme a molti altri, dell’esperienza di ricovero in manicomio. La Lavanderia, insieme alla Regione Piemonte, al Comune di Collegno e alla Fondazione Piemonte dal Vivo, ha infatti scelto di inaugurare con questo spettacolo la rassegna intitolata Quello che tutti chiamavano manicomio, organizzata in occasione del quarantennale della legge n. 180/1978, meglio conosciuta come Legge Basaglia. Per chi non fosse adeguatamente informato sull’argomento, cercheremo qui di riassumere brevemente i complessi e significativi avvenimenti cui si deve la programmazione dello spettacolo.

Era il 13 maggio 1978 quando venne promulgata la legge “Accertamenti e trattamenti sanitari e obbligatori”, la quale sanciva la chiusura definitiva dei manicomi in Italia. Il luogo scelto per portare in scena lo spettacolo non è casuale: la Lavanderia a Vapore era infatti il luogo deputato al lavaggio dei panni e della biancheria all’interno del manicomio di Collegno, il più grande d’Europa al suo tempo. Qui tuttavia, già nel 1977, anticipando di un anno la legge, su iniziativa dell’Amministrazione Comunale venne abbattuto un primo tratto del muro di cinta che separava la struttura dalla città. Fu un gesto di grande importanza poiché il varco permise per la prima volta a migliaia di cittadini di entrare nel manicomio per visitare una mostra dedicata alla tematica dal titolo Collegno: proposte e documenti. Quell’evento aprì una finestra sulle condizioni di vita dei ricoverati creando così un dialogo tra istituzione psichiatrica e città. Nel 1979 venne infine completata l’opera di demolizione delle mura e il manicomio, da luogo di coercizione, si trasformò definitivamente in un parco pubblico aperto a tutti. Ancora oggi i cittadini collegnesi ricordano vivamente il momento in cui per la prima volta videro camminare liberamente nel parco i tanti pazienti che fino a poco prima avevano vissuto, segregati, a fianco delle loro case. Nel 2008 un’ulteriore trasformazione dello spazio inaugurò l’attuale padiglione multiculturale conosciuto col nome di Lavanderia a Vapore. Niente di tutto ciò sarebbe stato possibile se non fosse stato per la lungimirante battaglia intrapresa dall’intellettuale veneto Franco Basaglia, psichiatra e neurologo.

Quello che ha ospitato lo spettacolo in questione è dunque uno spazio trasformatosi negli anni da luogo di dolore e malattia a terreno fertile per la cultura. Sappiamo come all’interno dell’istituzione manicomiale il sapere e il potere medico venissero usati per creare un’idea di malattia mentale tale da giustificare l’esistenza stessa del manicomio e dei suoi metodi coercitvi. Su queste tematiche si confrontarono importanti studiosi come Foucault, Goffman, Szasz e lo stesso Basaglia, giungendo ad esisti che tutt’ora si rivelano estremamente attuali. Oggi, attraverso una forma di sapere differente, più propriamente culturale, l’ex luogo manicomiale si sta trasformando in una possibilità concreta di condivisione e crescita per il soggetto, attraverso un processo di conoscenza, scoperta e sperimentazione di sé, contribuendo alla formazione di un cittadino, si spera, più critico e consapevole.

Tornando allo spettacolo su Alda Merini, non si fa difficoltà a trovarvi forti parallelismi con questi stessi discorsi. L’angelo biondo sulla scena è un personaggio ripreso da una poesia della scrittrice intitolata Al mio angelo custode che non ha mai imparato a fumare che possiamo vedere come un suo doppio, quello stesso doppio che nella follia spesso partecipa della soggettività dell’individuo. Protagonisti della pièce sono la macchina da scrivere e la musica. Ventiquattromila baci di Adriano Celentano è il brano con il quale inizia la scrittura, che si rivelerà travagliata durante il corso di tutto lo spettacolo: “senza musica – ci dice l’angelo – non c’è amore”. Torna alla mente il momento narrato dalla Merini nel suo testo L’altra verità. Diario di una diversa in cui, durante uno dei numerosi ricoveri in manicomio, il suo medico le diede una macchina da scrivere, invitandola a ritrovare il piacere della scrittura. Com’è la protagonista a ricordarci, in maniera a volte fin troppo retorica, la vita di Alda Merini fu un inno alla vita e all’amore. Una fame d’amore caratteristica dell’uomo che se dura incontrollata tutta una vita comporta facilmente un vuoto, nel quale può emergere il disagio psichico. La poetessa milanese scrisse che “la malattia mentale non esiste, che esistono i dolori e le mancanze ma non la malattia”. In questo troviamo una grande vicinanza con il pensiero di Basaglia il quale sostenne per tutta una vita la distruzione del mito della malattia mentale. Due controverse personalità che, pur da posizioni diverse, hanno dato voce ad una stessa “folle” e visionaria idea.

 

recensione di Linda Casoli

 

IL GIURAMENTO DELLA DIGNITA’

Dal 16 al 18 Febbraio il Teatro Astra ha ospitato lo spettacolo Il Giuramento, un testo di Claudio Fava con la regia di Ninni Bruschetta. La storia è ambientata in Italia nel 1931 e narra di Mario Carrara, professore di Patologia all’Università di Torino, uno dei dodici docenti che rifiutò il giuramento di fedeltà al fascismo. Mussolini lo aveva imposto per essere certo di avere pieno controllo sulla formazione, sugli  insegnamenti impartiti ai giovani, stroncando ogni possibilità di dissenso.

Lo spettacolo si apre con l’ingresso  in scena  (dalla platea) degli attori mascherati e con un mantello nero che intonano una versione rivisitata di Faccetta Nera in chiave jazz: un modo per  permettere agli spettatori di entrare nell’atmosfera in cui si ambienterà lo spettacolo; sono, infatti, molti i rimandi ai primi anni dell’epoca fascista che chiariscono il periodo storico e sociale della messinscena: il ritmo quasi martellante della marcia delle camicie nere scandisce la recitazione degli attori soprattutto in momenti di particolare tensione e alcuni allievi del professor Carrara si recano a lezione indossando la divisa del partito, muniti di regolare pugnale. Inoltre ci sono personaggi che incarnano le varie tipologie umane che si possono trovare sotto un regime: l’ufficiale austero dell’esercito che insegna ai giovani a essere forti e pronti per la guerra, i ragazzi che inneggiano al Duce sicuri che egli farà rinascere il Paese, e il Rettore dell’Università che sottolinea come l’Italia fascista abbia bisogno di muscoli e persone sane, declassando così i più deboli e i malati in un sistema a suo vedere perfetto, poiché freddo e inesorabile.

Al centro della vicenda, però, non vi è solo il contesto storico, che pure rimane  chiaro nella mente degli spettatori, non si vuole porre l’accento solo sul fatto che  il fascismo è stata  una dittatura  violenta e spietata. Al centro della vicenda, vediamo un uomo comune, con le sue manie e le sue abitudini, al quale piace il proprio lavoro, passare la propria conoscenza a giovani brillanti che saranno il futuro della società. Quest’uomo, Mario Carrara (David Coco), è sicuramente un antifascista, ma questa non è la prima cosa che viene messa in risalto, poiché egli, messo al corrente dal Rettore  che avrebbe dovuto prestare giuramento al Re e al Duce, vive una profonda crisi che non è dettata dal suo orientamento politico, ma dal fatto che prima di tutto si sente un uomo  e un medico. Il sapere, la conoscenza e la scienza non devono giurare a niente e a nessuno, non possono piegare il capo, ed è proprio per questo che Carrara non capisce perché un professore debba fare un giuramento su una materia oggettiva e totalmente slegata da qualsiasi retorica politica. Ed è qui che si scontra con l’opinione di altri: il Rettore (Simone Luglio) ha fede nel Duce, i suoi ragazzi sono stati quasi tutti ammaliati dalla promessa di valore e fama, e perfino il suo amico e collega apertamente socialista (Antonio Alveario) gli intima di giurare: perché lo faranno tutti, perché è l’unico modo per mantenere il proprio lavoro, ma soprattutto perché ormai il processo di affermazione di un totalitarismo è già iniziato e solo dall’interno si può ancora fare qualcosa. In un momento storico in cui le donne non venivano quasi considerate come esseri pensanti, sarà proprio la dolce e decisa Tilde (Stefania Ugomari di Blas), sua assistente da anni, alla quale è legato da un profondo affetto, a spingerlo a prendere una decisione. Grazie all’ultima conversazione con la donna, infatti, Carrara deciderà di congedarsi dai suoi studenti e accetterà di andare in carcere con l’unica colpa di avere avuto il coraggio di dire di no a qualcosa che riteneva profondamente ingiusto e proprio per questo con la testa alta di un uomo che con dignità si è distinto dal conformismo della società.

Dato il messaggio forte dello spettacolo, la regia ha voluto lasciare le menti degli spettatori sveglie e attente per tutta la sua durata realizzando una messinscena che non permetteva l’abbandono e l’immedesimazione: la scenografia essenziale rappresentava un aula universitaria con delle gradinate e una cattedra, aula che a seconda dei momenti poteva diventare anche un tribunale dove il professor Carrara sentiva premere su di lui il giudizio degli altri. Lo spazio teatrale era stato reso visibile in tutta la sua grandezza e potenzialità, e infatti anche le quinte erano sparite, in modo che gli attori uscendo di scena rimanessero sempre visibili al pubblico, spettatori anch’essi del dilemma interiore che si stava compiendo sul palco. Anche i pochi cambi scenografici sono stati fatti a vista  e spesso durante i dialoghi e i momenti corali si aveva un alternanza di recitazione e canto, che alla fine dello spettacolo si trasforma quasi in un canto funebre che accompagna Carrara in cella.

Molto interessante è l’uso dell’eco nei momenti più carichi di pathos, soprattutto quando il Rettore inneggia alle parole d’ordine del regime: in quei momenti è stato proprio come se quelle parole arrivassero direttamente dalle nostre coscienze, per invitarci ancora a riflettere su quello che è stato, sui gesti di uomini come Carrara, una memoria che non deve scomparire.

Degna di nota sicuramente è  la capacità degli attori di passare dal canto alla prosa senza perdere l’intensità del momento e facendo arrivare chiaramente al pubblico tutta la potenza di quello che volevano trasmettere.

Dopo lo spettacolo, ho assistito a un incontro di approfondimento con il regista Ninni Bruschetta, l’autore Claudio Fava e Tommaso De Luca, rappresentante dell’ANPI Provinciale, durante il quale è intervenuto anche il nipote di Mario Carrara, suo omonimo, presente allo spettacolo. Quest’ultimo, pur avendo apprezzato la recita, ha criticato alcuni aspetti della restituzione della figura del nonno,  primo fra tutti il fatto che non sia stata sottolineata chiaramente la posizione politica di Carrara, capostipite di una famiglia antifascista da generazioni. In risposta, l’autore ha sottolineato che il testo non voleva  raccontare che cosa fosse il fascismo, ma raccontare il coraggio di non conformarsi con la società, di rivendicare l’autonomia della ricerca scientifica. Infatti, con il suo gesto coraggioso, Mario Carrara è emblema di dignità e di dovere solo verso i propri principi scientifici. Come evidenzia poi il regista, nello spettacolo si è voluto scindere l’orientamento politico dal giudizio personale: quella di Carrara diventa un’azione eroica, poiché disgiunta dal fine; egli non pensa al risultato del suo rifiuto mentre lo compie, riesce solo a vedere con chiarezza quale sia la cosa moralmente giusta  da fare.

Concludo riportando una frase del personaggio del Rettore: “Non resterà traccia del vostro rifiuto”; i dodici nomi di chi si è rifiutato di giurare, elencati sulla via della prigione proprio da Carrara alla fine dello spettacolo, sono conosciuti e meritevoli di essere tramandati come un esempio. Gli altri 1238 professori invece non sono degni di memoria.

Alice Del Mutolo

Teatro Stabile di Catania
presenta

IL GIURAMENTO

novità assoluta di Claudio Fava
regia Ninni Bruschetta
con David Coco,
Stefania Ugomari Di Blas, Antonio Alveario, Simone Luglio, Liborio Natali,
Pietro Casano, Federico Fiorenza, Luca Iacono, Alessandro Romano
musiche originali Cettina Donato
scene e costumi Riccardo Cappello
luci Salvo Orlando