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Mistero Buffo: capolavoro intoccabile?

La nuova versione di Mistero Buffo con l’interpretazione di Matthias Martelli e la regia di Eugenio Allegri (coproduzione del Teatro Stabile di Torino e del Teatro della Caduta) è andata in scena dal 6 al 18 febbraio alle Fonderie Limone di Moncalieri.

Dario Fo è Dario Fo. Mistero Buffo è un capolavoro intramontabile,

ma è davvero intoccabile?

Riportarlo sulla scena è un’impresa. Matthias Martelli ci riesce. Vince gli sguardi diffidenti degli spettatori, dapprima un po’ freddi e timorosi, ma che si scaldano in fretta con grasse risate di fronte alle esilaranti giullarate. Il palcoscenico è totalmente spoglio, l’attore solo in scena e in abito neutro alla maniera del Maestro e gli episodi estrapolati sono riproposti tali e quali a livello testuale, con quel tipico miscuglio di linguaggi dialettali, volgari antichi e latinismi, perfettamente comprensibili.

Matthias Martelli in Mistero Buffo

Fa piacere vedere un pubblico vario, che unisce più generazioni, dai più anziani, ai bambini. Martelli si aggira tra la gente ancora prima che lo spettacolo inizi, aspettando l’ingresso di tutti gli spettatori, mentre sul fondale vengono proiettate una serie di fotografie che riportano agli anni Settanta (da immagini di programmi Rai a scatti delle stragi degli anni di piombo) periodo in cui Mistero Buffo, a partire dal ’69, ha fatto innumerevoli repliche in Italia e non solo.

Gli intermezzi tra un episodio e l’altro, invece, sono attualizzati. Ogni episodio è preceduto dalla tipica chiacchierata col pubblico, che ne introduce l’argomento, talvolta con l’aiuto di immagini, affreschi e dipinti, che rientrano nella tradizione iconografica medievale; inevitabilmente questi momenti di dialogo sono stati contestualizzati nei giorni nostri, con accenni di satira ad argomenti di attualità.

Quattro i misteri scelti:

-Le Nozze di Cana
-La resurrezione di Lazzaro
-Bonifacio VIII
-Il primo miracolo di Gesù bambino

Lo spettacolo si apre e si chiude con un omaggio a Dario Fo e Franca Rame: una loro fotografia insieme.

La decisione di Eugenio Allegri, di comune accordo con il giovane attore, è stata quella di far continuare a vivere Mistero Buffo in maniera fedele e rispettosa dell’originale, ma facendone al contempo un’interpretazione il più personale possibile. Sono partiti dalle basi su cui si è fondato il lavoro scenico di Fo, tutte componenti affini al retaggio artistico di regista e interprete: la dialettica tra corpo-suono, in cui convivono linguaggio corporeo e gestualità vocalica, attraverso gli studi sulla Commedia dell’Arte e i principi di teatro fisico e vocale del mimo francese Jacques Lecoq. Matthias Martelli, ben consapevole di avere una fisicità e un’espressività diversa dal Maestro, porta avanti un lavoro personale sulla comicità, già maturato con le numerose repliche del suo Mercante di Monologhi, che gli ha permesso di indagare e scoprire meglio le proprie possibilità espressive.

 Allegri e Martelli si sono buttati a capofitto in questo rischioso progetto già nel 2016, chiedendo il permesso a Dario Fo. Gli hanno inviato il video di un estratto (l’episodio di Bonifacio VIII) e lui ha dato la sua approvazione il 3 ottobre, dieci giorni prima di venire a mancare.
D’altronde sarebbe stato un peccato non poter più godere dell’opera di Fo e vederla spegnersi con lui, irrigidita sulle pagine di un libro, che invece contengono una materia così viva ed esplosiva sul palcoscenico. Mistero Buffo merita di continuare a divertire e arricchire un pubblico oggi bisognoso, forse più che mai, di ridere mettendo in moto cuore e cervello.

Alessandra Minchillo


Mistero Buffo

6 -18 febbraio 2018 – Fonderie Limone

di Dario Fo
con Matthias Martelli
regia di Eugenio Allegri
aiuto regia Alessia Donadio
luci e fonica Alessandro Bigatti
tecnico video Loris Spanu
coach fisico Francesca Garrone
management Serena Guidelli

coproduzione Teatro Stabile di Torino – Teatro della Caduta

in collaborazione con Teatro Fonderia Leopolda e Comune di Follonica
con il patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo.

Don Chisciotte: tragicommedia dell’arte

La stagione Live Show Cumiana ha ospitato presso il teatro Carena lo Stivalaccio Teatro, compagnia veneta da Scorzé (VE), proponendo una serata ispirata al teatro popolare e alla commedia dell’arte. Marco Zoppello e Michele Mori portano in scena un Don Chisciotte raccontato da due Comici Gelosi della seconda metà del ‘500: Giulio Pasquati, padovano, in arte Pantalone e Girolamo Salimbeni fiorentino, in arte Piombino.

Sul fondale una tela quadrata fatta di pezze color terra su toni marroni, rossi, aranciati. Poco più avanti, al centro, un vecchio e misterioso baule verde; verde speranza, come quella di salvezza che i due comici ripongono nel teatro e nella vita. Gli attori iniziano a recitare tra il pubbico, come si addice a quel teatro comico a cui piace disintegrare la quarta parete nelle due direzioni: non solo dal palco alla platea, ma anche dalla platea al palco.

Tutto ha inizio con una condanna a morte. E’ il 25 febbraio dell’anno 1545, siamo a Venezia e sua eccellenza l’Inquisitore dichiara i due comici colpevoli di aver inscenato sulla pubblica via uno “sconcio” spettacolo di commedia dell’arte in tempo di Quaresima, per di più senza aver pagato il plateatico. Ma i condannati hanno un ultimo desiderio: recitare una commedia. E’ concessa loro una sola ora di vita, poi la forca. Allora ecco che decidono di mettere in scena le buffe “imprese” del famoso hidalgo della Mancia e del suo fedele scudiero-contadino. Salimbeni nei panni di un Don Chisciotte toscano e Pasquati in quelli di un Sancho Panza veneto ripercorrono le avventure dei due celebri personaggi in un incalzare di episodi, conditi talvolta con qualche trovata inedita; laddove non si ricordano come va avanti la storia si inventano alcuni particolari, ma qualsiasi trovata va bene pur di ritardare l’esecuzione e assaporare qualche minuto in più di vita.

Prima di tutto urge il cosiddetto momento equino, ovvero la presentazione del nobile destriero, dell’immane quadrupede, della fiera bestia: Ronzinante, il ronzino “unigamba”, così classificato da Salimbeni. Come definire con altrettanta eleganza un fantoccio che ha per testa un grumo di pezza e per corpo un manico di scopa? Mai definizione fu più calzante. Dal canto suo anche Pasquati procura al suo Sancho l’asinello di rito: un modellino di cavallo a dondolo per nani da giardino. Una volta recuperata la cavalcatura più adatta, possono finalmente dedicarsi a imprese gloriose: combattono nel nome della dolce Dulcinea, in un mondo deformato, tra osti castellani e catini fatti elmi, tra giganti mulini a vento ed eserciti di pecore, “perché – come alla fine si rende conto Don Chisciotte – viviamo in un mondo in cui vivere non è che sognare” (La vita è sogno, Calderon De la Barca).

Di tanto in tanto l’inquisitore, quando nota che i due comici temporeggiano, interviene battendo il tempo. Ma i due guitti cialtroni si aggrappano a qualunque pretesto in modo da tirare la commedia per le lunghe; si inventano persino un nuovo capitolo del romanzo pur di rimandare la condanna. Grazie ai suggerimenti di un pubblico attivo e partecipe, ecco il capitolo inedito di Cervantes: la nuova avventura di Don Chisciotte contro il tremendo Gianni Morandi. Il marrano tiene nascosta Dulcinea nel comune di Napoli, ma verrà sconfitto dal cavaliere errante con un potentissimo schiaccianoci.

Con Don Chisciotte: tragicommedia dell’arte ci troviamo di fronte a quel teatro che sembra all’improvviso, ma non lo è. Marco Zoppello e Michele Mori seguono precisi codici comici della commedia dell’arte: se danno l’impressione di andare a braccio, in realtà sanno benissimo dove andare a parare e dove portare il pubblico. Curato nel dettaglio a livello tecnico, di movimento e di parola, lo spettacolo si regge anche su una drammaturgia ben pensata. A fianco al gesto, al ritmo, alle onomatopee incalzanti, ai lazzi e alle tirate, si pone un testo intessuto di citazioni come una ragnatela: da Dante a De la Barca, da Shakespeare a Leopardi e molti altri.

Perché però far raccontare il Don Chisciotte da due comici dell’arte? Il motivo di questa scelta è duplice. Innanzitutto la predisposizione naturale del romanzo di Cervantes alla messa in scena. Si tratta infatti di un testo dotato di dinamiche e meccanismi comici, che risultano assimilabili alla Commedia dell’arte, in particolare i due protagonisti possono corrispondere ad alcuni “tipi fissi”: da un lato troviamo Don Chisciotte, a metà tra un Capitano sognatore e un cieco Amoroso, che vive di letteratura e ama di un amore puro, platonico, idealizzato; dall’altro Sancho Panza, più simile ad uno Zanni, umile contadino e servo affamato, che punta al sodo per appagare i suoi bisogni primari (fame, sonno, sesso).

In secondo luogo la scelta è simbolica, strettamente legata ad un momento critico e di rinascita della compagnia lo Stivalaccio. Unici “superstiti” della compagnia originaria, Marco Zoppello e Michele Mori, si sono dovuti inventare uno spettacolo che permettesse loro di poter continuare a vivere di teatro. E allora, rimasti duo, perché non raccontare con Don Chisciotte e Sancho Panza le loro disavventure e magari farle raccontare da due Comici Gelosi condannati a morte?
Pasquati e Salimbeni rischiano la morte e cercano attraverso il pubblico di salvarsi la vita, si aggrappano a quello che sanno fare meglio: recitare, fingere, modellare e plasmare il pubblico, giocarci e prendersene gioco, metterlo in burla, ottenere consenso, plausi, approvazione, la grazia, la vita. Alla fine il pubblico applaude e i comici si salvano, vox populi, vox dei.

Alessandra Minchillo

 

Live Show Cumiana – Teatro Carena
22 dicembre 2017

Don Chisciotte: tragicommedia dell’arte
Produzione Stivalaccio Teatro

interpretazione e regia:
Michele Mori – Girolamo Salimbeni/Don Chisciotte
Marco Zoppello – Giulio Pasquati/Sancho Panza

soggetto originale Marco Zoppello
dialoghi Carlo Boso, Marco Zoppello
costumi e fondale Antonia Munaretti
maschere Roberto Maria Macchi
audio e luci Matteo Pozzobon

 

 

MASCULU E FìAMMINA: UNA CONFESSIONE GENTILE

Masculu e Fìammina è un monologo che utilizza il potere dell’immaginazione per trasportare lo spettatore nella storia di Peppino, uomo semplice di un paese imprecisato della Calabria. Basta poco. La scenografia è minimale: un cerchio di neve, una lapide innevata, la fotografia della mamma, la colonnina su cui si siede l’uomo, non prima di avervi appoggiato un cuscino bianco. Tutto è bianco e grigio. Bianca la neve, bianco il cuscino, grigie la lapide e la foto, grigi i capelli di Peppino. Un solo puntino rosso a scaldare il quadretto: la rosa che ripone con cura davanti alla lapide.

Saverio La Ruina ha scritto un testo che arriva al cuore, lo stringe, lo accarezza, lo scalda e lo solletica suscitando persino il riso tra i toni tristi e malinconici dominanti. Non mancano nemmeno slanci di gioia nei “ricordi belli a metà” che il protagonista condivide d’inverno con Nina, sulla panchina sotto le fronde degli alberi e che ripete alla mamma, nel cimitero. Il tutto è recitato con una coloritura dialettale che affonda le radici nel retroterra linguistico e culturale dell’attore-autore, comprensibile anche alle orecchie meno avvezze alle parlate del sud.

La mamma di Peppino non c’è più, ma è come se fosse presente davanti a lui col “vestito fiorato, che mette il buon umore”. La vediamo anche noi, per come lui le parla. Se la immagina in viaggio verso il paradiso, forse ormai in coda con la valigia in mano ad aspettare il suo turno per parlare con San Pietro, che vaglia all’ingresso: “Tu sì. Tu no. Tu aspetta.”
Nessuna lacrima per la madre, solo una normale, quotidiana chiacchierata che poi si trasforma in confessione. Con lei si confida, si scusa e la ringrazia. Per la prima volta le dice apertamente di essere omosessuale. E’ una liberazione. Si scusa per non aver avuto il coraggio di dirglielo prima, anche se, ne è certo, lei l’aveva già capito da tempo e mai gliel’aveva fatto pesare. La ringrazia per ciò che in vita gli ha detto, per le parole pacate che ha usato, per il rispetto che ha nutrito nei suoi confronti: il rispetto è qualcosa che si ha, non si impara a scuola – dice Peppino-Saverio – l’istruzione non c’entra, così come non c’entra l’ignoranza. Alla mamma è bastata la terza elementare per averlo.

Peppino inizia quindi a ripercorrere le tappe del difficile percorso di auto-accettazione, tramite cui ha preso coscienza della propria omosessualità, passando poi per i primi amori, le delusioni, gli insulti, l’adesione a gruppi comunisti degli anni ‘70 (come Lotta Continua o Collettivo Karl Marx) che portano in paese un’ondata di libertà, ma anche di ipocrisia, fino ad arrivare ad un Segreto ancora più grande, dalle tinte macabre, che lo consuma da anni e per cui gli “piange non solo la faccia, ma il corpo intero”.

La storia di Peppino è fatta di immagini vivide. In un flusso di coscienza Saverio La Ruina fa riaffiorare una serie di episodi che intrecciano la sua vita con quelle di altri personaggi:

Nina, l’amica uscita dalla Banda della Magliana
Gino, il primo omosessuale del paese
Enzo, il compagno di scuola dal dolce sorriso
Pina, “che è partito masculu ed è tornato fìammina
Angelo, di nome e di fatto
Alfredo, il grande amore da Treviso
Vittorio, amico schietto e provocatorio
Saro e Marietto, i travestiti fatti Santi

Alcune delle loro storie finiranno in tragedia, segnando profondamente l’animo di Peppino. Non tutto però è frutto della fantasia dell’autore. Nella Mezz’ora con l’attore (momento del Festival dedicato al confronto con gli artisti) Saverio La Ruina ci rivela che molti dei personaggi sono stati costruiti a partire da esperienze personali reali di conoscenti e da cronache.

Masculu e Fìammina, con Saverio La Ruina. Foto ©Masiar Pasquali

Dolcezza, gentilezza, rispetto, autenticità sono concetti a cui l’attore-autore sembra tenere molto e che tornano più volte nel monologo, dando vita a spunti di riflessione, come quello sulle parole. Più che le persone, sono le parole che fanno paura, sia a chi le dice, sia a chi le riceve. Omosessuale, checca, frocio, fru fru, ricchione dette con tono spregiativo sottintendono l’idea di invertito, anormale, malato, diverso dall’uomo in quanto essere umano. Così accade che per chi ama una persona dello stesso sesso sia difficile riconoscersi come tale davanti ad uno specchio, frenato da pregiudizi sociali. Peppino racconta di essere riuscito a definirsi omosessuale, nel momento in cui ha realizzato che il principio che porta ‘nu masculu ad amare ‘na guagliuna è lo stesso che porta ‘nu masculu ad amare ‘nu masculu. Ecco che allora Peppino trova istanti di libertà ed autenticità stando nudo, solo, in spiaggia dove si vedono “solo pìetre, pini e ginestre” poi “mare e cielo” e“di nuovo pìetre, pini e ginestre”.

Ma Peppino è stanco. Si convince che Angelo, di nome e di fatto, ha ragione: in un paese come il loro avrebbero dovuto aspettare almeno cent’anni perché le cose cambiassero. Ha sentito che un uomo ibernato nella neve può rimanere intatto per anni e anni, allora si siede di fianco alla tomba della madre e sullo scontrino della rosticceria scrive: “svegliatemi quando il mondo sarà un po’ più gentile”, magari un mondo in cui la parola “ricchione” vorrà dire semplicemente “uomo dalle grandi orecchie”. E aspetta, con le mani nella neve.

Alessandra Minchillo

Festival delle Colline Torinesi XXII Edizione
Teatro Astra –18 giugno 2017
Masculu e Fìammina

di Saverio La Ruina
regia Saverio La Ruina

con Saverio La Ruina
musiche originali Gianfranco De Franco
collaborazione alla regia Cecilia Foti
scene Cristina Ipsaro e Riccardo De Leo
disegno luci Dario De Luca e Mario Giordano
audio e luci Mario Giordano
organizzazione Settimio Pisano

produzione Scena Verticale