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Il senso della vita di Emma

Chi è Emma? Si potrebbe rispondere in molti modi. Emma siamo noi, la nostra vita.  Emma è semplicemente la ragazza scomparsa. Ma è anche una figura astratta, tant’è che la vediamo solo alla fine. Permette la narrazione di una storia, crea dinamiche familiari, e trasforma i personaggi. Emma è un po’ vera e un po’ falsa.   Si potrebbe continuare a trovare altri significati. Ed facile che ci sovvenga  anche una seconda domanda: qual è il senso della vita di Emma? Niente di più sbagliato. Lo spettacolo non vuole essere incentrato sulla ricerca del senso della vita di Emma, o il senso della vita in generale.

Fausto Paravidino, attore, autore e regista, molto attivo nel panorama  teatrale italiano e internazionale, da gennaio di quest’anno Dramaturg residente del Teatro Stabile di Torino, scrive e mette in scena, interpretando anche uno dei personaggi, lo spettacolo Il senso della vita di Emma. Un romanzo teatrale in due parti, dove diverse storie e dinamiche familiari si intrecciano a piccoli cambiamenti di costume e di arte, sullo sfondo della storia grande; una storia che succede addosso ai personaggi, ma non motore della vicenda, a detta del regista.

Uno spettacolo che fin dall’inizio vuole rivolgersi direttamente al pubblico, dove i personaggi hanno bisogno di narrare la loro storia, per capire come mai Emma sia scappata. Infatti, la quarta parete sarà infranta ripetutamente. Padre, madre, fratello e sorella e gli amici racconteranno a tratti qualche spezzone della vita di Emma. Lo spettatore assiste ad  una storia di due  famiglie, dagli anni sessanta fino ai giorni nostri, da quando i genitori di Emma e i loro amici si sono conosciuti fino al ritrovamento di Emma. Classi sociali differenti, ma che si incontrano. Due coppie di amici che si accorgono che è arrivato anche per loro il momento di crescere e assumersi responsabilità: da una parte Carlo (Fausto Paravidino) e Antonietta (Eva Cambiale) e dall’altra Giorgio (Jacopo Maria Bicocchi) e Clara (Marianna Folli). La prima coppia, un uomo semplice dedito ad impagliare gli animali e una professoressa di lettere un poco svampita; la seconda, una donna pettegola e isterica, che scarica le sue frustrazioni sul compagno, un letterato per bene, che si fa mettere i piedi in testa dalla compagna accettando la situazione.

I problemi giungono quando nascono i primi figli di Carlo e Antonietta: Marco, il maggiore (Gianluca Bazzoli) sempre in crisi con la propria identità, scoprendo in seguito di essere bisessuale, e vittima degli scherzi della sorella Giulia, la stronza (Angelica Leo). Impreparati a gestire i propri figli, i problemi si trasferiranno anche sugli amici: questi, stanchi del fatto che l’altra coppia ha scelto di avere figli, forse anche invidiosi, decidono di non frequentare più Carlo e Antonietta. Il punto di svolta si avrà quando Antonietta rimane incinta per la terza volta. Tutte le frustrazioni della coppia saliranno in superfice: Carlo non riesce a vedere e capire le sofferenze della moglie e così quest’ultima decide di prendersi una pausa di riflessione e si trasferisce dagli amici, con cui si era riconciliata poco prima. Il padre dovrà occuparsi dei figli, o meglio dovrà imparare ad occuparsi di loro.

Emma che per più di metà spettacolo viene solo evocata a parole, finalmente entra in scena (era la bambina che aspettavano Antonietta e Carlo), prima come bambina neonata, poi cresciuta come una marionetta, una  bambola. Forse per accentuare il fatto che sono gli altri, i genitori e i fratelli che la dirigono nella sua infanzia, la manipolano a loro piacimento, oppure solo per mostrare che è un personaggio immaginario, finto, che rappresenta qualcosa in più della semplice Emma. Fatto sta che lei procurerà non pochi problemi alla famiglia. Crescendo parla poco, ha solo un’amica con cui condivide le sue stranezze e le sue avventure di ribellione contro un sistema sporco e radical chic.  A Londra fa irruzione con altre compagne in una galleria d’arte contemporanea, con una maschera di maiale sul viso e completamente nuda, per distruggere con un quadro una pecora, sezionata a metà, esposta come opera d’arte. Qui, come all’inizio dello spettacolo si vede tutto l’intento parodico su cosa ormai possa essere considerato bello e su cosa sia un’opera d’arte. Tutto può essere considerato opera d’arte? I cambiamenti di cultura e costume, vanno di pari passo con la crescita di Emma, come se lei rappresentasse uno spartiacque tra la cultura sessantottina dei genitori e quella successiva  dei figli, di lei, che deve fare i conti con l’eredità che i genitori le hanno lasciato: non a caso è nata il giorno del delitto  Moro.

Emma è compresa solo da Leone  (Giuliano Comin), figlio dell’altra coppia, di Giorgio e Clara. Lui, innamorato,  va a cercarla, ma sarà poi rifiutato da lei. Emma torna a casa, e si allinea al sistema : va a lavorare per un’industria che di ecologico non ha nulla e sposa Nello lo Splendido (Giacomo Dossi), un discotecaro bisessuale che la tradisce con la sua logopedista. Emma a seguito in un furto nell’azienda in cui lavora, scappa in Kosovo, per riapparire in un museo inglese dove è esposto il suo ritratto. Finalmente ha lasciato il suo corpo di marionetta e la vediamo come una persona viva (Iris Fusetti). Si è tolta la maschera, una maschera imposta dagli altri, da sé con le sue fughe i suoi atti sovversivi, una maschera per stare al mondo, in un mondo che fa marionetta e ti dirige? La maschera si è trasformata nel ritratto appeso al museo ed è per questo che lo vuole distruggere?  Sarà bloccata da Leone che si trovava lì per caso ad ammirare il quadro, o meglio ad ammirare Emma. Leone le fa capire cosa ha sbagliato in tutti quegli anni di fughe di comportamenti ingrati, ma lei continuerà a sentirsi disadattata, vuole ma non riesce a trovare una sua identità, a piacersi. Colpa degli insegnamenti sbagliati, o meglio delle mancanze dei genitori? Forse. Leone e l’artista del quadro le fanno capire che la persona raffigurata nel quadro è si lei, ma rappresentata dal punto di vista dell’artista, e così il quadro rimane lì. Non dobbiamo aver paura di come ci raffigura la società ed essere noi stessi?

La chiusa finale è un piccolo gioco sul teatro, dove la storia di Emma è un po’ vera e un po’ no come il teatro, per usare le parole del regista. E qui sta il senso di chi sia Emma, una figura che esiste, che si porta dietro problemi, fa evolvere le vite degli altri personaggi e si immerge nei cambiamenti culturali, ma che allo stesso tempo è una marionetta, è finta. Emma siamo noi, è la nostra vita, così si chiudeva la prima parte.

Fausto Paravidino non vuole dare un senso ultimo allo spettacolo, ma lascia libera interpretazione allo spettatore. Non vuole neanche fare una critica alla società post-sessantottina che si trasforma, a costumi che cambiano velocemente, pur inserendo commenti parodici verso l’arte e una storia che c’è come sottofondo.

Ma se si vuole appagare la nostra ricerca a dare senso ad ogni cosa, si può trovare un possibile significato dello spettacolo parafrasando le battute di Giorgio. La vita magari non è quella che ci siamo sognati, va così. Ci sono momenti belli e altri invece di meno, ma l’importante è esserci, vivere.

Uno spettacolo da tutto esaurito pure alla penultima rappresentazione. Un pubblico però che abbocca più facilmente alle battute volgari. Altre scene potevano meritare di più la risata, ma hanno avuto meno applausi. Uno spettacolo quindi comico, ma con venature drammatiche che si diramano attraverso le crisi di queste persone, il tutto per dare uno spaccato particolare, ma abbastanza probabile di due possibili famiglie.

Uno spettacolo forse troppo didascalico. Dove a volte le azioni compiute, che si sovrappongono alle parole, suscitano la risata, o sono costruite molto bene per aumentare il senso di quello che si ascolta, altre volte questo risulta troppo pesante e scontato.
E un finale in cui tutto si fa troppo dilatato e prolisso. Ci riferiamo soprattutto all’incontro tra i due giovani al museo.
Invece, punto di forza sono le scene corali, costruite molto bene dal regista e dagli attori. Un gruppo di ben 12 attori, con a “capo” Fausto Paravidino che fa da punto focale di queste piccole coreografie, anche nei momenti in cui in scena gli attori sono solo una parte. Sul palcoscenico lo si sente e lo sentono anche gli altri attori, come se si nascondesse dietro ai suoi personaggi per far da base, da spinta per far risaltare di più i suoi compagni/personaggi.
Uno spettacolo che seppur con qualche caduta è divertente e abbastanza riuscito. In un microcosmo dove esistono problemi, si deve vivere un po’ giocosamente, prendere coscienza di sè e cercare di non morire democristiani.

Emanuele Biganzoli

Produzione: Teatro Stabile di Bolzano e Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale

Di Fausto Paravidino

Regia: Fausto Paravidino

Con: Eva Cambiale (Antonietta), Fausto Paravidino (Carlo), Marianna Folli (Clara), Jacopo Maria Bicchiere (Giorgio), Gianluca Bazzoli (Marco), Angelica Leo (Giulia), Sarà Rosa Postilla (zia Berta), Giuliano Comin (Leone), Veronika Lochmann (Ingrid), Emilia Pizza (Genziana), Maria Giulia Scarcella (dottoressa Forlì), Iris Fusetti (Emma), Giacomo Dossi (Nello, lo splendiso / don Mario).

Scene: Laura Benzi

Costumi: Sandra Cardini

Luci: Lorenzo Carlucci

Musiche originali di Enrico Melozza, eseguite da Orchestra Notturna Clandestina, diretta dall’autore

Maschere: Stefano Ciammitti

 

Muttersprache Mameloschn – Lingua madre Mameloschn: alla ricerca della propria dimensione.

Non tutti siamo fatti per restare dove siamo nati: c’è chi, allora, parte e rispetta l’intenzione di non tornare più, chi parte ma torna indietro quasi subito, e chi, come Rahel, figlia di Clara e nipote di Lin – le tre protagonista di questa dramma- salpa alla volta di New York per iniziare un nuovo capitolo della propria vita, portandosi dietro un amuleto pesante di confusione storica, di ricordi e di fragilità.
Si sa, all’inizio è sempre allettante trasferirsi in un posto nuovo ma poi, piano piano, subentrano le difficoltà;  la vita, infatti, sa essere crudele e mette a durissima prova l’essere umano.

Rahel, inizialmente, gode della sua confusione a proposito delle vie senza nomi ma solo numerate; è felice di tornare a sentirsi nuovamente come una sorella minore- come scrive nelle lettere rivolte al fratello assente- e di non capire la lingua del posto: un’incomprensione linguistica che ricorda tanto Alexander Bruno, il protagonista di un libro di J. Lethem , che cerca a tutti i costi di andare in posti esotici in cui la lingua a lui sconosciuta lo lasci felicemente ISOLATO nell’incomunicabilità; ma se per questo protagonista il tutto si rivela come un dolce balsamo, per Rahel, invece, a lungo andare, diventa estenuante.
“Io non capisco i piccoli dettagli, le allusioni, non capisco nemmeno le barzellette, niente!” scriverà al fratello, in modo sempre più disperato. Le barzellette che strappavano risate dolci-amare, le barzellette simbolo di casa, simbolo di una lingua parlata da sempre con sua madre e sua nonna, una lingua madre appunto -un mameloschn– che ora ha perduto e non sa come ritrovare.

Sentirsi continuamente fuori posto, affermare la propria identità mediante la storia passata e ricercare una propria lingua madre in cui sentirsi a casa: sono questi i temi di un dialogo politico, religioso, familiare ed intimo che le straordinarie Elena Callegari, Francesca Cutolo e Maria Roveran portano in scena con tenerezza, passione e delicatezza.

È intorno al tema della partenza, però, che si snoda l’intero dramma. Il primo a essere andato via e a non aver fatto più ritorno è Davie, unica figura maschile dell’intero dramma che presenta la sua assenza unicamente con delle lettere spedite alla sorella Rahel, dalle quali si alzerà il coro delle voci della coscienza delle donne, con un sistema narrativo che ricorda il romanzo La grande sera di Pontiggia. Seguirà poi, la partenza della giovane ragazza, che segnerà un ennesimo colpo al cuore per una madre ormai “orfana” di due figli.
Partire, dunque, per cercare di risolvere le questioni in sospeso o addirittura lasciarle alle spalle, ma è davvero sempre possibile? Il poeta latino Orazio, in un famoso esametro, diceva che è il cielo a mutare per coloro che attraversano il mare, e non l’animo; lo stesso vale per gli affanni dell’anima dell’adolescente, che non riuscendo a superare il dolore causato dalla partenza definitiva dell’ amato fratello maggiore, prova a superarla attraverso una partenza in un nuovo Stato -che comunica allo spettatore attraverso un intimo monologo- ma nemmeno a lei è dato da sapere se riuscirà nel suo intento: quando il dolore c’è e non passa, te lo porti dietro ovunque, anche dall’altra parte del continente!

Oltre alla figura pregnante della ragazza, protagoniste di questo dramma sono, poi, altre due donne, altre due generazioni che sono l’una l’antitesi dell’altra: una nonna e una figlia- a sua volta madre di Rahel- che ne hanno vissute tante insieme, dagli spettacoli di cabaret alle manifestazioni socialiste guidate dall’ormai anziana Lin e , tutt’ora, si ritrovano a (soprav)vivere con tutte le loro contraddizioni, in un vortice di amore e odio, in un appartamento berlinese, all’ombra della caduta del Muro.
Si amano, si uccidono con una mezza parola che è peggio di una freccia imbevuta nel veleno, come solo una madre sa lanciare…e ancora si amano e si disprezzano e più si amano e più si rinfacciano i dogmi di un ebraismo ormai diventato un peso per entrambe. Tentano, invano, di lasciarsi ma non riescono a stare l’una separata dall’altra, sono l’una l’ossigeno per l’altra; solo la morte sarà in grado di separarle, ma solo apparentemente poiché un filo rosso le terrà per sempre unite.

Sasha Marianna Salzmann è nata nel 1985 a Volgograd nell’Unione Sovietica, vive tra Berlino e Instanbul, è scrittrice e curatrice del teatro Maxim Gorki di Berlino, ed è l’autrice di questo dramma, la cui regia è stata curata da Paola Rota, attrice di cinema e teatro, nonché regista di spettacoli prodotti dal Teatro Stabile di Torino, della Biennale di Venezia e del Teatro dell’Elfo di Milano.

 

Martina Di Nolfo

 

di Sasha Marianna Salzmann
traduzione Alessandra Griffoni
con Elena Callegari, Francesca Cutolo, Maria Roveran
regia Paola Rota
costumi Ursula Patzak
luci Camilla Piccioni
Teatro Stabile di Genova
Festival delle Colline Torinesi
PAV nell’ambito di Fabulamundi .
Playwriting Europe – BEYOND BORDERS?
con il supporto del programma dell’unione Europea Creative Europe e del Goethe Institut

Re Lear: il trionfo del bene sul male, è utopia o realtà?

È un Re Lear decisamente più calcato e più “underground” rispetto all’opera originale del bardo, il Re Lear di Giorgio Barberio Corsetti, regista teatrale romano, interpretato da un eccezionale Ennio Fantastichini, fasciato da un completo in velluto rosso. Riscritto in chiave moderna senza azzardare troppo, ripulito da lirismi di marca secentesca sostituti da qualche battuta odierna, l’opera si fa piacevolmente seguire e trascina lo spettatore per l’intera durata dello spettacolo, nonostante la lunghezza – alla quale non siamo più abituati, vista la velocità eccessiva con cui tutto scorre nel nostro tempo- sia non poco impegnativa; merito anche di un cast numeroso e pulsante che conosce davvero il lavoro dell’ attore su stesso.

Re Lear è la storia di padri che fraintendono i figli, e di figli che tradiscono i padri; è una storia intrecciata di legami di sangue infangati da menzogne e sotterfugi per un unico grande desiderio: il potere, che prende forma in svariati modi: nella dominazione, nella supremazia, nel denaro e nella sessualità. Soprattutto, però, è la storia di “animali umani” che dimostrano di essere più istintivi e affamati degli animali stessi, che non uccidono per sussistenza ma per smania di possessione e per egoismo. Ecco infatti, che la storia si ripete: Re Lear non è solamente una tragedia teatrale, ma è un affresco della violenza che domina i nostri telegiornali e i social network, un dipinto del profitto sul più debole e il riflesso di un meccanismo sociale presente fin dagli albori, che premia cioè chi tace e punisce chi parla. L’intero Re Lear è quella sensazione di olio fritto che non si ha digerito, è la nausea di una sbornia triste dopo una felice festa di carnevale all’insegna di brindisi e balli ma che, ad ogni modo, lascia una piccola speranza alle generazioni future.

“A noi spetta gravarci del peso di questo triste tempo, dire quel che si prova, e non quel che si deve”, sono queste, infatti, le ultime parole affidate ad Edgar (un toccante Gabriele Portoghese), unico superstite della tragedia che rappresenta uno spiraglio di speranza e di miglioramento per le generazioni future.

La suddivisione dello spettacolo ricorda molto la Commedia dantesca, concepita però a ritroso. Lo spettacolo si apre nel salone del palazzo del Re, con un modernissimo party colorato con tante luci e tanto spumante, con un sottofondo di musiche composte e eseguite dal vivo da Luca Nostro; un Eden contemporaneo insomma, dove spiccano abiti eleganti e colorati che caratterizzano anche i vari personaggi, e il loro stato d’animo: Lear è caratterizzato dal rosso, la figlia Cordelia ( una delicata Alice Giroldini) dal nero, le spietate sorelle di quest’ultima e i loro mariti (Mariano Pirello e Pierluigi Corallo) , rispettivamente Goneril (un’ irruenta Francesca Ciocchetti) dal blu e Regan (una sensuale Sara Putignano) dal verde. In questa prima parte si svolge il dramma delle due famiglie.

Il primo dramma riguarda Re Lear appunto, un re rinascimentale e barbaro che fa della parola il metro di giudizio dell’amore. Egli ha, infatti, deciso di abdicare e di spartire i territori del suo regno in proporzione all’amore che ogni figlia, con le sue parole, saprà dimostrare al padre. Cordelia sarà l’unica fra le tre figlie, però, che si rifiuterà di adulare il padre in questo modo, poiché fermamente convinta che l’amore puro si dimostri con i fatti e non con parole condite di reverenza; ma d’altronde questo è il dramma in cui è la parola a rivelare l’azione e non viceversa, dunque a venir punita sarà la sincerità, tanto che Cordelia verrà rinnegata come figlia dal padre; sarà, invece, la parola che non sentiamo ma che conviene dire ad avere la meglio.
Sempre in questa prima parte assistiamo a un altro dramma che si sovrappone e si intreccia alla vicenda dei Lear, e cioè quella della famiglia Gloucester composta dal Conte in questione- interpretato da un incisivo Michele Di Mauro che sfodera una straordinaria capacità di far prendere a cuore allo spettatore quella tenerezza e quell’ ingenuità tipica di un padre innamorato dei propri figli, come lo è Gloucester- e dai suoi figli Edgar e Edmund. Quest’ultimo interpretato dall’atletico Francesco Villano che ci regala tutto se stesso, in particolare durante i monologhi che sembrano essere cuciti su di lui, stregando il pubblico con l’ ambiguità feroce e distruttiva del suo personaggio.

Nella seconda parte, che si può paragonare ad un Purgatorio, si svolge la tempesta che imperversa nella brughiera, il simbolo della follia che Lear farnetica. È proprio qui che l’incubo inizia a farsi avanti, confondendosi con la realtà: ecco che gli abiti perdono la vivacità dei colori che avevano in precedenza e la musica si fa più cupa.
Ed è sempre in questa parte che prende vita un altro tema, quello della strategia che si manifesta nell’ amore opportunista delle sorelle che tradiscono prima il padre e poi i loro mariti, e nel linguaggio colmo di falsità e invidia di Edmund, un Caino invidioso del fratello, che stufo di esser il figlio “bastardo” di Gloucester è disposto a tutto, persino a denunciare il padre come spia e a farlo accecare, pur di raggiungere una posizione elevata e di riscattare la bassa stima del proprio sé .

     

Infine la terza e ultima parte: il girone infernale ovvero la guerra, che porta con sé la dissoluzione finale della stirpe di Lear e della sua famiglia, sotto una scarica di musica rock che rivela i complotti e i tradimenti. Un girone infernale dove però la morte non guarda in faccia nessuno, punendo sia innocenti sia peccatori, ed è proprio a conclusione di questa tragedia che la domanda sorge spontanea: è possibile ancora credere nel trionfo del bene sul male o è solo un’utopia? E ancora, è possibile credere nella giustizia, visto che a pagare sono quasi sempre i puri d’animo?

Siamo invasi oggi da un interessamento su alcuni temi- come quello di farsi o meno giustizia in modo autonomo- da parte degli organi politici, che è solo apparente e che poi, col passare del tempo dimostra falle, trascuratezza e poca serietà; questo è pericoloso e non è da sottovalutare, perché comporta un trionfo di ignoranza- nel vero senso della parola, cioè di non conoscenza- che sfocia in atti ingiustificabili, violenti, fascisti e razzisti (e non solo verso stranieri), che rischia di finire in un’autogestione confusa e pregna di fraintendimenti, dove distinguere poi tra carnefice e vittima diventa difficile se non impossibile. È su questi problemi, quindi, che succedono oggi come succedevano anche ai tempi del drammaturgo inglese, che dovremmo riflettere.
Scritta quattro secoli fa, tra il 1605 e il 1606, Re Lear è, purtroppo e per fortuna, come tutte le opere di Shakespeare, estremamente attuale: quanti dissidi familiari sorgono a causa di eredità? Quante morti innocenti per la spartizione di territori- penso per esempio agli israeliani e ai palestinesi – ci sono state? Quante gare si facevano nel medioevo sulla torre più alta che al giorno d’oggi mi ricorda tanto una gara a chi possiede l’arma da guerra più tossica o devastante? Riflettiamoci, e cerchiamo di affermare un po’ di giustizia nel nostro piccolo mondo: è questo il messaggio di quest’opera. Come dice Edmund nell’ultimo atto, la ruota gira e gira per tutti, e anche se le strade asfaltate che tutti intraprendono sembrano essere le più facili da percorre, non è detto che siano le più convenienti; a volte, inoltrarsi nel sottobosco può essere la strada più giusta e perché no più vantaggiosa.
C’è ancora tanto bisogno delle opere di Shakespeare in questo mondo per le generazioni presenti e per quelle future!

Martina Di Nolfo

 

Re Lear

di William Shakespeare
traduzione Cesare Garboli
con Ennio Fantastichini
e con Michele Di Mauro, Roberto Rustioni, Francesco Villano, Francesca Ciocchetti, Sara Putignano, Alice Giroldini, Mariano Pirrello, Pierluigi Corallo,
Gabriele Portoghese, Andrea Di Casa, Antonio Bannò, Zoe Zolferino
regia e adattamento Giorgio Barberio Corsetti
scene e costumi Francesco Esposito
luci Gianluca Cappelletti
musiche composte e eseguite dal vivo Luca Nostro
ideazione e realizzazione video Igor Renzetti e Lorenzo Bruno
Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Teatro Biondo – Stabile di Palermo

 

Sei Personaggi in cerca d’autore

I sei personaggi pirandelliani cercano il loro autore sul palcoscenico del Teatro Astra dal 24 al 28 Gennaio, diretti da Luca de Fusco.

Uno dei testi teatrali italiani più importanti del Novecento; un’opera, come afferma lo stesso de Fusco, “che proveniva dal futuro, anticipando i tempi in modo clamoroso”.

Per apprenderla appieno e comprendere il motore che ha spinto Pirandello a scrivere quest’opera credo sia necessario un breve excursus storico sul dramma.

A partire dall’Ottocento il sistema di valori del dramma borghese, ossia il suo essere assoluto, primario, presente e basato su rapporti intersoggettivi, va in crisi.

Con autori come Ibsen, Cechov e Strindberg, comincia a scardinarsi il modello secondo il quale un dramma per essere tale deve essere un concatenamento di azioni mosse da rapporti interpersonali che avvengono nel momento stesso in cui noi vi assistiamo.

Si comincia a riconoscere l’impossibilità di continuare a portare sulla scena drammi di questo tipo, e ad intravedere la necessità di lasciare spazio ad altri temi, come il passato, la frammentazione dell’io e l’impossibilità dei rapporti umani.

Pirandello, agli inizi del Novecento, appena dopo la fine della Prima guerra mondiale, è proprio questo che porta in scena: l’impossibilità.

Ma impossibilità di cosa?

I personaggi, entità che provengono da un altro mondo, che esistono e vivono come il loro autore li ha concepiti, “più vivi di quelli che respirano e vestono panni; meno reali forse, ma più veri” (come dice il Padre al Capocomico), costretti a vivere giorno dopo giorno il loro dramma, senza possibilità di uscirne, non possono essere rappresentati a teatro senza perdere la loro autenticità. Ogni attore interpreta un personaggio inevitabilmente a modo suo, e lo stesso spazio teatrale non permette la rappresentazione realistica dei fatti, ma è necessario mettere in atto delle convenzioni che i personaggi non accettano.

Allo stesso tempo però essi hanno bisogno di vivere il loro dramma, dal momento che esistono in relazione ad esso. Cercano un autore perchè colui che li ha concepiti (Pirandello stesso) si è rifiutato di completare l’opera dal momento in cui si è reso consapevole della sua irrappresentabilità.

Dovevano essere predestinati al romanzo, ma sono approdati al teatro, e smaniano per avere una vita artistica. Ma forse non è il teatro la forma più adatta per quello che cercano.

Questo il punto di partenza di Luca de Fusco.

Citando lo stesso regista: “la loro vicenda, così piena di ricordi, di visioni, di particolari di splendente importanza, mi ha subito fatto pensare ad una trama che si presta ad essere rappresentata più attraverso l’occhio visionario del cinema che tramite quello più concreto del teatro”.

Il lavoro del regista nasce dal pensare ai personaggi come un esperimento in rapporto con una fase iniziale dell’arte cinematografica.

Come ci racconta Gianni Garrera “i sei personaggi rinviano ad un eventualità di un cinema parlante, in un epoca in cui il cinema era ancora muto e in cui l’ipotesi avveniristica di un cinema parlante era vista come una minaccia per il teatro”.

I comportamenti dei personaggi appartengono al linguaggio cinematografico più che a quello teatrale, grazie al quale si possono udire i sottovoce, lo zoom può passare da un primo piano ad una panoramica o ad un dettaglio e ci permette di assistere ad azioni simultanee guidandoci tra i diversi luoghi senza difficoltà.

Con questo lavoro di contaminazione tra teatro e cinema de Fusco cerca di dare ai personaggi “ciò che chiedono invano al regista”.

Il video è usato per accentuare la dimensione “altra” dei personaggi, per creare gli spazi da loro richiesti e per permetterci di entrare nei loro ricordi.

Per il resto viene mantenuta l’atmosfera esplicitata dalle indicazioni di Pirandello, anche se queste non vengono rispettate alla lettera: gli attori e il capocomico entrano dalla platea, la prima attrice fa la sua entrata con un cagnolino al guinzaglio, i personaggi, molto differenziati rispetto agli attori grazie a trucco, costumi e luci (anche se non portano le maschere), non entrano dalla platea ma dal fondale del teatro che si apre “come per magia”.

La scenografia rappresenta uno spazio teatrale, più sobrio e crudele rispetto a quello che ci raccontano le didascalie dell’autore.

A completare la grande efficacia della messa in scena c’è l’interpretazione magistrale degli attori e dei personaggi, in particolare Eros Pagni e Gaia Aprea rispettivamente nel ruolo di Padre e Figliastra.

Meravigliosa e surreale l’entrata di Madama Pace (Angela Pagano), agghiacciante la scena del bordello, indisponente il silenzio del Figlio (Gianluca Musiu), emozionante l’annegamento della bambina (non un attrice ma una bambola) dietro ad uno schermo d’acqua, sorprendente lo sparo del giovinetto (Silvia Biancalana).

Immancabile il finale in cui non è più possibile distinguere i due mondi di realtà e finzione, che ci lascia, ora come nella prima rappresentazione del 1921, senza parole.

Concludo citando ancora una volta de Fusco: “Spero di indurre ad una rilettura scenica e letteraria di un testo che parla ancora oggi alla nostra coscienza contemporanea e ci invita a farci le domande più importanti e terribili sulla natura, il significato, l’essenza stessa della nostra esistenza”.

Lara Barzon

La Turandot al Teatro Regio – Puccini ai tempi di Matrix

Una Turandot “attraverso il cervello moderno” aveva chiesto Puccini in una lettera del 18 marzo 1920 a Renato Simoni, autore del libretto con Giuseppe Adami. La grande “incompiuta” del Novecento, tratta dalla fiaba teatrale di Carlo Gozzi, sembra proprio abitare il palcoscenico mentale contemporaneo nel nuovo allestimento del Teatro Regio, in scena dal 16 al 25 gennaio.

Gianandrea Noseda, Direttore musicale del Teatro, che ha appena ricevuto una nomination ai 60th Grammy Awards, sceglie di fermarsi là dove si fermò Toscanini, alla prima assoluta, il 25 aprile 1926 al Teatro alla Scala. Si dice che a metà del terz’atto il leggendario Direttore si sia voltato verso il pubblico dicendo: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto». La versione più eseguita è quella di Franco Alfano, con i pesanti tagli di Toscanini; sono da citare, inoltre, la versione di Alfano senza tagli, resa disponibile dal 1979 e quella di Luciano Berio del 2001.

Sul finale dell’opera le questioni sono aperte: non fu la morte a interromperne la creazione ma complessità compositive sul fronte musicale e drammaturgico. Il problema della Turandot è soprattutto un problema teatrale. Può un bacio sgelare una tiranna che si dedica con ferocia a decapitazioni seriali? Il melodramma ha esigenze interne di coerenza, da cui la fiaba può dirsi libera. Il disagio che si cela tra le pieghe delle due linee tematiche incarnate da Turandot-donna carnefice e Liù-donna vittima sembra irrisolvibile. Liù si presenta come l’ultimo anello della catena di donne pucciniane, martiri di una passione amorosa, vissuta come religione. Proprio sul sacrificio della dolce schiava termina l’allestimento del Regio. Noseda dichiara: «Quella fine non mi ha mai convinto. Non ho mai capito quel lieto fine esagerato». Turandot non esiste, dicono le maschere Ping Pang e Pong. Non esiste che il Niente, nel quale ti annulli!

La regia di Stefano Poda, che cura anche scene, costumi, coreografia e luci, segue questa suggestione e crea uno spazio mentale in cui l’io onirico di Calaf è chiamato a confrontarsi con l’enigma dell’Alterità. Turandot è la proiezione del fantasmatico Altro che si replica all’infinito sul palcoscenico. Ad interpretarla il soprano sloveno Rebeka Lokar, mentre Calaf è il tenore Jorge de León e Liù è il soprano Erika Grimaldi. Danzatrici e danzatori accompagnano la messa in scena e ne sono, a detta dello stesso Poda, l’anima profonda. La sua è una Turandot tanto cantata quanto coreografata, nella quale il validissimo corpo di ballo, selezionato fra centinaia di danzatori torinesi, ha consentito al regista-coreografo una scrittura motoria impeccabile, che niente ha da invidiare ai migliori pezzi di danza contemporanea presenti sulle scene oggi. Corpi seminudi, pitturati di bianco e privi di caratterizzazioni, apparentemente inanimati, riportano la materia coreica ad un incedere primitivo e misterioso, un sussulto spirituale, fra l’atletico e l’inquietante.

Lo spettacolo ha un forte impatto visivo che, pur senza compiacimenti decorativi, cerca evidentemente il gusto di un pubblico, la cui cultura visuale è nutrita da campagne pubblicitarie, serie televisive, riviste di moda e post glamour di giovani influencer. Espressamente debitore di tale immaginario si rivela tutto il materiale scenico di cui si avvale l’opera. La scena è un’unica stanza asettica, nella quale un minimalismo architettonico convive con un’estetica hi-tech da ultimo grido, mentre un’immancabile struttura circolare consente al palcoscenico di girare nei momenti salienti della recita. I costumi incrociano lo stile dei film di fantascienza, tra armi e copricapo alla Guerre Stellari, e parrucche e mantelli cyberpunk in stile Matrix, attraversando un orientalismo coerentemente riadattato ai tempi contemporanei. Orientalismo che, tra l’altro, è da sempre parte della tradizione estetica e tematica del più alto teatro europeo. La matrice cinematografica risulta inoltre dalla commistione di riferimenti che intrecciano universi culturali i più diversificati in una miscela spettacolare tipicamente post-moderna dove le possibili citazioni si sprecano. Tale ottica forse non è in contrasto con quella capacità, tutta pucciniana, di tradurre attraverso nuove estetiche i valori della modernità. Tra il fashion design e la sfilata in passerella, lo stesso futuro del melodramma sembra così traslare la sua provenienza artigianale dal campo del teatro a quello della moda. La scelta di lasciare l’opera aperta è senz’altro suggestiva perché mette in risalto il mistero del dramma e le contraddizioni che i vari finali non sono riusciti a risolvere: una scelta “di tendenza”, anche questa.

Sottolineiamo, in coerenza con gli aggiornamenti in atto all’interno della secolare industria dello spettacolo, che questa produzione è il primo contributo del Teatro Regio al progetto europeo OperaVision, piattaforma video dedicata all’opera, sulla quale sarà visibile in streaming gratuito per sei mesi a partire dal 25 gennaio, offrendosi ad una platea virtuale internazionale.

Quella di Noseda e Poda è, in definitiva, una Turandot plastica, attraente e sensuale, che contemporaneamente sa e vuole essere algida e fredda come una sala operatoria. Gli 11 minuti di applausi rendono onore al mastodontico lavoro che l’opera ha alle sue spalle.

Foto di copertina di Ramella&Giannese

 

Recensione di Tobia Rossetti e Marida Bruson

Don Chisciotte: tragicommedia dell’arte

La stagione Live Show Cumiana ha ospitato presso il teatro Carena lo Stivalaccio Teatro, compagnia veneta da Scorzé (VE), proponendo una serata ispirata al teatro popolare e alla commedia dell’arte. Marco Zoppello e Michele Mori portano in scena un Don Chisciotte raccontato da due Comici Gelosi della seconda metà del ‘500: Giulio Pasquati, padovano, in arte Pantalone e Girolamo Salimbeni fiorentino, in arte Piombino.

Sul fondale una tela quadrata fatta di pezze color terra su toni marroni, rossi, aranciati. Poco più avanti, al centro, un vecchio e misterioso baule verde; verde speranza, come quella di salvezza che i due comici ripongono nel teatro e nella vita. Gli attori iniziano a recitare tra il pubbico, come si addice a quel teatro comico a cui piace disintegrare la quarta parete nelle due direzioni: non solo dal palco alla platea, ma anche dalla platea al palco.

Tutto ha inizio con una condanna a morte. E’ il 25 febbraio dell’anno 1545, siamo a Venezia e sua eccellenza l’Inquisitore dichiara i due comici colpevoli di aver inscenato sulla pubblica via uno “sconcio” spettacolo di commedia dell’arte in tempo di Quaresima, per di più senza aver pagato il plateatico. Ma i condannati hanno un ultimo desiderio: recitare una commedia. E’ concessa loro una sola ora di vita, poi la forca. Allora ecco che decidono di mettere in scena le buffe “imprese” del famoso hidalgo della Mancia e del suo fedele scudiero-contadino. Salimbeni nei panni di un Don Chisciotte toscano e Pasquati in quelli di un Sancho Panza veneto ripercorrono le avventure dei due celebri personaggi in un incalzare di episodi, conditi talvolta con qualche trovata inedita; laddove non si ricordano come va avanti la storia si inventano alcuni particolari, ma qualsiasi trovata va bene pur di ritardare l’esecuzione e assaporare qualche minuto in più di vita.

Prima di tutto urge il cosiddetto momento equino, ovvero la presentazione del nobile destriero, dell’immane quadrupede, della fiera bestia: Ronzinante, il ronzino “unigamba”, così classificato da Salimbeni. Come definire con altrettanta eleganza un fantoccio che ha per testa un grumo di pezza e per corpo un manico di scopa? Mai definizione fu più calzante. Dal canto suo anche Pasquati procura al suo Sancho l’asinello di rito: un modellino di cavallo a dondolo per nani da giardino. Una volta recuperata la cavalcatura più adatta, possono finalmente dedicarsi a imprese gloriose: combattono nel nome della dolce Dulcinea, in un mondo deformato, tra osti castellani e catini fatti elmi, tra giganti mulini a vento ed eserciti di pecore, “perché – come alla fine si rende conto Don Chisciotte – viviamo in un mondo in cui vivere non è che sognare” (La vita è sogno, Calderon De la Barca).

Di tanto in tanto l’inquisitore, quando nota che i due comici temporeggiano, interviene battendo il tempo. Ma i due guitti cialtroni si aggrappano a qualunque pretesto in modo da tirare la commedia per le lunghe; si inventano persino un nuovo capitolo del romanzo pur di rimandare la condanna. Grazie ai suggerimenti di un pubblico attivo e partecipe, ecco il capitolo inedito di Cervantes: la nuova avventura di Don Chisciotte contro il tremendo Gianni Morandi. Il marrano tiene nascosta Dulcinea nel comune di Napoli, ma verrà sconfitto dal cavaliere errante con un potentissimo schiaccianoci.

Con Don Chisciotte: tragicommedia dell’arte ci troviamo di fronte a quel teatro che sembra all’improvviso, ma non lo è. Marco Zoppello e Michele Mori seguono precisi codici comici della commedia dell’arte: se danno l’impressione di andare a braccio, in realtà sanno benissimo dove andare a parare e dove portare il pubblico. Curato nel dettaglio a livello tecnico, di movimento e di parola, lo spettacolo si regge anche su una drammaturgia ben pensata. A fianco al gesto, al ritmo, alle onomatopee incalzanti, ai lazzi e alle tirate, si pone un testo intessuto di citazioni come una ragnatela: da Dante a De la Barca, da Shakespeare a Leopardi e molti altri.

Perché però far raccontare il Don Chisciotte da due comici dell’arte? Il motivo di questa scelta è duplice. Innanzitutto la predisposizione naturale del romanzo di Cervantes alla messa in scena. Si tratta infatti di un testo dotato di dinamiche e meccanismi comici, che risultano assimilabili alla Commedia dell’arte, in particolare i due protagonisti possono corrispondere ad alcuni “tipi fissi”: da un lato troviamo Don Chisciotte, a metà tra un Capitano sognatore e un cieco Amoroso, che vive di letteratura e ama di un amore puro, platonico, idealizzato; dall’altro Sancho Panza, più simile ad uno Zanni, umile contadino e servo affamato, che punta al sodo per appagare i suoi bisogni primari (fame, sonno, sesso).

In secondo luogo la scelta è simbolica, strettamente legata ad un momento critico e di rinascita della compagnia lo Stivalaccio. Unici “superstiti” della compagnia originaria, Marco Zoppello e Michele Mori, si sono dovuti inventare uno spettacolo che permettesse loro di poter continuare a vivere di teatro. E allora, rimasti duo, perché non raccontare con Don Chisciotte e Sancho Panza le loro disavventure e magari farle raccontare da due Comici Gelosi condannati a morte?
Pasquati e Salimbeni rischiano la morte e cercano attraverso il pubblico di salvarsi la vita, si aggrappano a quello che sanno fare meglio: recitare, fingere, modellare e plasmare il pubblico, giocarci e prendersene gioco, metterlo in burla, ottenere consenso, plausi, approvazione, la grazia, la vita. Alla fine il pubblico applaude e i comici si salvano, vox populi, vox dei.

Alessandra Minchillo

 

Live Show Cumiana – Teatro Carena
22 dicembre 2017

Don Chisciotte: tragicommedia dell’arte
Produzione Stivalaccio Teatro

interpretazione e regia:
Michele Mori – Girolamo Salimbeni/Don Chisciotte
Marco Zoppello – Giulio Pasquati/Sancho Panza

soggetto originale Marco Zoppello
dialoghi Carlo Boso, Marco Zoppello
costumi e fondale Antonia Munaretti
maschere Roberto Maria Macchi
audio e luci Matteo Pozzobon

 

 

L’arte vivere di noi stessi. Su “Onirico. Il fiume dell’oblio”

Augusto Boal diceva che il teatro è l’arte di vedere noi stessi, un modo per rientrare in contatto con il nostro corpo, i nostri stati d’animo e ogni aspetto mentale o fisico che ci compone. Un’esperienza umana intima, ma anche difficile e, in alcuni casi, dolorosa. Un’esperienza che, grazie alla compagnia teatrale  “Stalker Teatro”, le donne della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno hanno deciso di vivere. Attraverso un laboratorio, all’aiuto di volontari e attori, il loro percorso le ha portate all’allestimento dello spettacolo Onirico. Niente palco, platea o professionalità attoriale, solo la sincerità degli sguardi, la voglia di rinascere e riemergere dal loro passato.
Lo spettatore entra nel “teatro” appena mette piede al di là di un cancello alto nove metri, per poi essere perquisito dalle guardie. L’atmosfera di leggera oppressione lo accompagna fino alla sala con le protagoniste della serata. Il nero lo inghiotta e a sorpresa si ritrova in un fiume blu circondato da sedie, un fiume in cui attori e attrici sono immersi. Lo spettacolo inizia dopo che tutti hanno preso posto, una musica leggera rilassa lo spettatore e i corpi iniziano a galleggiare. Il fiume Lete della mitologia greca  bagna e leviga,  cancellando la memoria del passato opprimente, restituendo la possibilità di sognare, quel mondo onirico che la realtà del carcere inevitabilmente strappa.  Ed ecco che i corpi si animano, iniziano a vivere di nuovo, producono piccole bolle che brillano alla poca luce, si scontrano, si abbracciano, rimpossessandosi della propria umanità. Qualche volta,  frasi delle detenute vengono lette, testimonianze di quel luogo, di quella voglia di immergersi e ritornare pulite. Chi guarda, a quel punto, però, è caduto con loro in quelle acque, non si ricorda più in che luogo sia o chi siano le persone che ha davanti, vede solo donne, con la sofferenza negli occhi, che appanna il loro possibile futuro.
La trasparenza e il coraggio con cui tutto questo viene trasmesso è disarmante e ti ritrovi come loro un corpo morto, trascinato, bisognoso di speranza, di altra acqua per continuare. Quella forza viene data alle donne non più dal fiume ma dai loro cari, dai figli, che le rivestono di rosso, facendole tornare indietro. Lo spazio scenico si anima di voci, risa, urla, di adulti bambini che giocano a prendersi.

E’ la svolta definitiva, il punto in cui il seme del rimorso è stato espulso per lasciar spazio a quello dello della forza vitale.  Il carcere si trasforma così in uno studio musicale, dove situazioni scomode si tramutano in possibili canzoni, cantate in coro, tra le luci di lanterne colorate danzanti. L’apice viene raggiunto allo sbucare di piccole campanelle. Ogni donna o volontario del laboratorio ne ha una e raggruppandosi al centro le innalzano facendole suonare, come un brindisi all’immensa impresa compiuta dal corpo e dalla memoria. Sciogliendosi il cerchio si scioglie anche la sottile barriera con lo spettatore. Piccoli segreti, pensieri o semplici saluti gli vengono sussurrati all’orecchio, preceduti dal risveglio della campanella, senza vergogna, paura o imbarazzo, con l’invito finale di ballare con loro. Ed è proprio con una ballo che lo spettacolo si chiude, con il fiume traboccante di sorrisi e le sedie vuote.
Questa serata è stata la dimostrazione che per far teatro non servono attori professionisti o grandi palcoscenici ma la forza di vivere in ogni momento dell’azione, di saper cogliere cosa i nostri istinti più profondi ci sussurrano alla mente, lasciando andare corpo, voce e sguardo, lasciando che i sentimenti e le sensazioni prendano le briglie dei nostri movimenti.
I volontari e, in primo luogo, le detenute, le donne che si sono spogliate delle loro maschere passate, hanno regalato allo spettatore un inno alla vita, frammenti di sogni e della forza che un solo essere può sprigionare.

Una pioggia di truciolato e d’applausi

Dal  29 novembre  al 3 dicembre 2017, all’interno del cartellone dello stabile al Teatro Carignano, è stato messo in scena il Pinocchio di Latella.

Nella memoria dei più non è più presente il Pinocchio scritto da Carlo Lorenzini bensì quello raccontato dalla Disney. Da questo bisogna partire per capire la scelta di mettere in scena lo spettacolo di Latella. C’è  il desiderio di distruggere un immaginario oramai ridondante per tornare all’originale, ma allo stesso tempo riletto in chiave personale, con spunti di riflessioni moderne.
Un grosso tronco è sospeso in orizzontale, abbiamo una porta di metallo che sbatte nell’arco della rappresentazione, un tavolo da falegname e tutt’attorno piccoli mucchi di truciolato, sotto a cui sono nascosti alcuni personaggi.
In scena  viene portato effettivamente il Pinocchio collodiano; un tronco che aveva del magico fin da quand’è stato tagliato, Mastro Ciliegia e Geppetto che litigano e se le danno, Geppetto che dà forma al suo Pinocchio, già briccone ed energico, pronto ad imparare  da ciò che ha intorno. La prima parte dello spettacolo segue perfettamente la narrazione del romanzo, mentre Christian La Rosa (Pinocchio) si agita in scena, con addosso una pesante e limitante imbragatura a cui è attaccato un ceppo di legno. Il burattino è  come un bambino, interessato a conoscere il mondo, ma allo stesso tempo è molto di più perché desidera conoscerlo tutto in una volta, stando in piedi sulle proprie gambe e senza dare retta a nessuno, neanche a Geppetto o al Grillo. Il rapporto tra i tre in particolare è molto importante. In scena viene rappresentata una specie di trinità che si percepisce nei loro movimenti, negli spasmi che Pinocchio ha per la fame che si ripercuotono pure su Geppetto e il Grillo. Dopo la morte del Grillo sarà meno evidente questo collegamento con Pinocchio, invece ne primo tempo  e in buona parte del secondo sarà incessante con il Creatore Geppetto.
Per tutto il primo tempo si ha davanti uno spettacolo che chiaramente non vuole essere una fiaba, seppur pare presentarsi come tale per la leggerezza con cui inizia, per l’impianto scenografico semplice ed essenziale (anche se al Carignano non si ha goduto appieno di ciò, essendo lo spettacolo creato per le dimensioni del palco del Piccolo di Milano), che richiede fantasia del pubblico ad immaginare gli spostamenti dei personaggi in vari ambienti, e soprattutto per la magica pioggia di truciolato sul palco.

 

Con l’inizio del secondo tempo l’atmosfera cambia, si fa più cupa e ci si chiede come farà Pinocchio a salvarsi, a imparare dai propri errori e a diventare un bambino vero. Tutto sembra perso e ci si aspetta l’intervento magico della Fata Turchina, che invece ci sorprende perché è tutto fuorché buona e generosa. Anzi è una fata invecchiata che vorrebbe avere per sé Pinocchio. Desidera essere la sua mamma e non accetta di buon occhio di doverlo ricondurre da Geppetto, tant’è che non lo aiuta veramente. La vera svolta dello spettacolo si ha in questo secondo tempo, dove la narrazione non rispetta più tutti i tempi dettati da Collodi, dove Pinocchio ha imparato dai suoi sbagli e diventa diligente, un perfetto studente modello. Nel grigiore di una vita monotona, lontano dal padre a cui si vorrebbe ricongiungere e stimolato da Lucignolo, si concede un’ultima bravata. Il Paese dei Balocchi si è rivelato l’ennesimo sbaglio e Pinocchio si separa del tutto dal suo lato esagitato e sfrenato, abbandona il Ceppo che ha sempre avuto addosso.

Nel finale abbiamo un dialogo tra un Pinocchio oramai adulto e un Geppetto troppo vecchio e inacidito. Geppetto non vuole più avere nulla a che fare con la sua creatura, non l’ha mai desiderata se non per necessità e Pinocchio vorrebbe un dialogo, un confronto e finalmente amore. Ma non è più possibile e tutto si spegne lasciando una profonda amarezza, che il pubblico ha accolto positivamente scoppiando in un collettivo applauso sia alla fine del primo tempo che alla chiusura definitiva del sipario.
Personalmente trovo che Latella abbia fatto un lavoro importante, portando in scena uno spettacolo che andrei a rivedere più volte anche a causa della difficoltà del sottotesto teatrale, dei suoi simboli, delle citazioni e dei momenti di riflessione sul teatro. La scenografia è in linea con ciò che Latella ha già fatto altre volte e Christian La Rosa è stato a dir poco eccezionale, mantenendo una carica continua. Gli si vedeva proprio colare il sudore in fronte pure dal fondo della sala. Apprezzabile in generale anche il lavoro degli altri attori, seppur nutro perplessità nei confronti di Anna Coppola (la Fata) che riusciva a spiccare più nelle scene collettive che in quelle in cui aveva monologhi e l’attenzione era concentrata su di lei.
Andreea Hutanu

La densa nebbia pasoliniana arriva a Torino – Caffè della Caduta

Il 14 e il 15 dicembre scorsi al Teatro Della Caduta è stato messo in scena lo spettacolo La Nebbiosa, che Pier Paolo Pasolini scrisse come sceneggiatura cinematografica – pur non essendo mai stato trasposto in pellicola – e che LinguaggiCreativi ha trasformato in opera teatrale.

L’idea di far diventare La Nebbiosa uno spettacolo teatrale è di Paolo Trotti e Stefano Annoni, curato registicamente dal primo e con attori Diego Paul Galtieri e Stefano Annoni. Ha vinto il premio “Next – Laboratorio di idee per la produzione e distribuzione dello spettacolo dal vivo lombardo”, promosso dalla Regione Lombardia, ed è andato in scena al Teatro Franco Parenti di Milano per undici sere consecutive.

Lo spettacolo comincia in un nightclub milanese, si esibisce Miss Malafemmina (burlesque) incitata dal presentatore che poi ci narrerà la storia dei Teddy Boys, una banda di teppisti che danno sfogo alla loro violenza la sera di Capodanno a Milano. Il piccolo Cino, fratello di uno dei membri della banda formata da Rospo, Gimkana, Teppa, Elvis, Contessa e Mosè, ci racconta dal suo punto di vista le  avventure accadute quella sera. Il gruppo ruba dei gioielli che agghindavano la Madonna di una chiesa, picchiano e maltrattano un prete e una barbona, devastano una villa, rapiscono due donne borghesi con le quali si scatenano a mezza notte.

Il fratellino è affascinato dal modo di comportarsi di questo gruppo, vorrebbe farne parte anche lui e cerca di emularli, ma la differenza di età non gli permette di fare parte del loro mondo. Cino viene fortemente segnato dai gesti del gruppo, pur non essendo estremamente brutali, tanto che all’alba involontariamente sarà lui a portare la banda ad un punto di svolta. Avverrà una trasformazione e la loro trasgressione diventerà conformismo, avvicinandoli al mondo degli adulti che poche ore prima disprezzavano.

Al contempo c’è un’alternanza tra momenti recitativi e di descrizione degli avvenimenti, molti dei quali sono prettamente cinematografici, come se venisse letta effettivamente la sceneggiatura di Pasolini. Stefano Annoni narra mentre Diego Paul Galtieri ci accompagna con un ritmo rock ‘n’ roll suonato da una batteria ed entrambi recitano. In scena i due attori interpretano i vari personaggi, alternandoli freneticamente ma dando una caratterizzazione e un modo di fare personale per ciascuno di loro, rendendoli inconfondibili e mantenendo chiara la trama.
Come ci ha raccontato la compagnia, prima di lavorare personalmente sulla messa in scena del testo, hanno realizzato un workshop con non professionisti per testare il testo, che è stato tagliato e rimodellato. Durante questa esperienza i due attori hanno preso spunto dalle interpretazioni acerbe dei principianti e hanno così arricchito i personaggi da portare in scena.

Il testo contiene avvenimenti che si possono ricollegare ad Arancia Meccanica, trattando sempre di giovani ribelli, però Pasolini ci consegna una versione più soft, in cui comunque oltre al maltrattamento non c’è crudele violenza fisica. Per questo motivo la compagnia non ha neanche lontanamente pensato di creare un impianto scenografico che rimandi al film di Kubrick. Ha preferito mantenere una linea cinematografica usando un telo bianco, spesso durante lo spettacolo illuminato da dietro, facendoci vedere sagome retrostanti, e delle luci in scena poste accanto ad un microfono e ad una panca, che sollevano e spostano durante lo spettacolo. Quindi si può intuire quanto le luci siano importanti in questa messa in scena; assieme alla musica segmentano le vicende, aiutano a darci il senso di cambio d’ambientazione all’interno della Milano caotica, festaiola e nebbiosa.

La scelta da parte della compagnia di questo testo di Pasolini deriva dalla voglia di portare in scena un’opera che mostrasse il lato comico e d’azione dello scrittore. Pasolini scrisse delle canzoni di cabaret e lo spettacolo ne ha preso ispirazione, cercando di mostrare il lato leggero di Pasolini ma sempre critico, soprattutto verso la borghesia milanese. Inoltre il testo è rimasto ancora attuale e ha molti spunti di riflessione,contenuti che possono colpire un pubblico di diverse età.

Articolo scritto da Roberto Lentinello e Andreea Hutanu.

LA NEBBIOSA
Di Pier Paolo Pasolini
Adattamento Paolo Trotti e Stefano Annoni
Con Diego Paul Galtieri e Stefano Annoni
Scene e costumi Giada Gentile
Regia Paolo Trotti
Produzione Teatro Linguaggicreativi

A LOVE SUPREME_Sinestesia che danza

La Lavanderia a Vapore di Collegno è stato il primo palcoscenico Piemontese a ospitare il capolavoro di Salva Sanchis e Anne Teresa De Keersmaeker A Love Supreme, coreografia per quartetto di danzatori sulle note dell’omonimo e celeberrimo brano di John Coltrane. Lo spettacolo si apre in un sorprendente silenzio. Continua la lettura di A LOVE SUPREME_Sinestesia che danza