UN FIORE PER OFELIA – MALDIPALCO

Per la rassegna teatrale MaldiPalco2016, venerdì 21 ottobre il Tangram Teatro Torino ha ospitato SILVIA BATTAGLIO con Ofelia, spettacolo che ritorna in scena dopo dieci anni dalla nascita.

L’attrice e autrice racconta infatti di come quasi per caso, conversando con Madga Siti una volta terminata la Scuola di Specializzazione Superiore del Teatro Fisico presso l’ERT di Modena, comincia a pensare e a ideare quello che diventerà poi uno spettacolo che debutterà nel 2006 al Teatro Gobetti.

Conclusa la stagione del Teatro Stabile di Torino, il lavoro rimane fermo per molti anni. Durante questo tempo Silvia Battaglio cresce come persona e come artista, dedicandosi a tanti altri progetti, ed è restia quando Tangram Teatro le propone di riprendere la sua Ofelia. Ma dopo aver rivisto e rielaborato lo spettacolo, si scopre invece contenta di ritrovare un personaggio che credeva non appartenerle più, e il risultato finale che ci è stato proposto venerdì sera lo dimostra.

In scena troviamo una sedia, un cavo che pende dal soffitto, una teca trasparente con dentro acqua e petali rossi, e sparsi per tutto il resto del palco altri petali bianchi. Pochi secondi dopo il buio iniziale si sente una voce: è Amleto, che dedica semplici parole d’amore alla sua amata Ofelia. Ed è Silvia che recita queste parole, ma fuori dal palco, a lato della sala, poche persone del pubblico presente girano la testa e la notano. Comincia così, in un modo discreto, quasi in punta di piedi, la storia di Ofelia, giovane donna innamorata che crede ciecamente alle parole del suo amato, senza mai dubitare della loro autenticità, e si abbandona a lui senza esitazioni come solo un cuore puro e ingenuo saprebbe fare.

Silvia è sola, ma fa vivere sul palco mille personaggi. Porta avanti il suo racconto danzando sempre, anche quando è seduta sulla sedia in fondo alla scena, mentre Ofelia e Polonio discutono sulla falsità delle parole d’amore del Principe di Danimarca. Anche quando è immobile, lo sguardo fisso davanti a sé, il cappotto nero infilato solo per un braccio e un fiore nell’altra mano, mentre Amleto spezza il cuore alla sua amata. Danza appesa al gancio che pende dal soffitto, in quel cappotto nero che la protegge, forse dagli altri, forse da se stessa. Danza nella sua follia.

Ed è attraverso le parole dello stesso Amleto, e poi di suo padre Polonio, del fratello Laerte, della regina Gertrude, attraverso i loro pensieri, i loro sentimenti e le loro azioni che Ofelia si racconta. Racconta di quando si ritrova faccia a faccia con la dura verità, e scopre che Amleto l’ha ingannata per poi andarsene e lasciarla sola. Racconta della perdita di un padre, di un fratello che torna per vendicarlo. Racconta del dolore immenso che nasce dall’abbandono dell’amore stesso, e di come questo porti alla follia. Follia, culmine di un percorso che non ha scelto di intraprendere, e che le offre forse una via di fuga, una scappatoia che diventa tragedia quando, nella scena finale, Ofelia si sfila la veste bianca e la lascia scivolare dolcemente, quasi come un rito, nelle acque dove troverà la pace.

Ofelia

liberamente ispirato a Amleto di William Shakespeare; frammenti letterari di Pier Paolo Pasolini, Mariangela Gualtieri, Albert Camus

di e con Silvia Battaglio

scene e disegno luci Lucio Diana

suggestioni musicali Quintirigo, Opus Avantra, Peter Gabriel

produzione Tangram Teatro Torino

 

Eleonora Monticone

Finta felicità, per la signorina Felicita

Ha debuttato martedì 18 ottobre, e sarà in scena fino al 30 ottobre,  il primo spettacolo della stagione del Teatro Gobetti: LA SIGNORINA FELICITA OVVERO LA FELICITA’ . Uno spettacolo di  e con Lorena Senestro, che vede la collaborazione tra il Teatro Stabile di Torino e il Teatro della Caduta.

A cent’anni dalla morte dell’autore, Guido Gozzano, Loredana senestro porta in scena una versione molto personale della breve e malinconica biografia dello scrittore piemontese. Tutto in una rappresentazione dall’ambienatazione onirica e che richiama il mondo delle meraviglie di Alice. Un tavolo sproporzionato sotto cui Felicita ci passa come fanno i bambini, un pianoforte, cornici sospese, un01_foto-prove-la-signorina-felicita_ph-andrea-macchiaa sedia alta giusta per arrivare al tavolo, tazzine e tazze in frammenti. Tutto sinonimo di un’esistenza passata nell’illusione di una promessa di vita, al fianco di un Guido malato, che non potrà mantenere le sue promesse. Una signorina che invecchia, pur mantenendo l’innocenza e la felicità di una bambina. Vediamo i problemi, gli intrighi amorosi, il rapporto col padre di Felicita che crescono ma rimangono sempre con un qualcosa di infantile, sottolineato dalla scenografia.

Ad accompaganre tutto lo spettacolo sono le musiche suonate in scena al pianoforte da Andrea Gattico,pianista da tabarin torinese, che incarna il Padre di Felicita, ma più con la voce che con il corpo.
I tre lunghi teli riescono a trasportarci in quel mondo “…un po’ ammuffito di una vecchia casa di 100 anni…”.
La Senestro è molto convincente nella sua interpretazione, più nei momenti di sconforto e di semi-pazzia che nei momenti di pura realtà. Appare molto felice nei momenti di discussione tra Felicita e il Padre. Unica pecca, che fa calare a tratti l’attenzione di chi assiste, sono le poche variazioni di voce che a tratti caratterizzano i monologhi per la monotonalità.
Molto intenso è il finale, che crea una sorta di girotondo mai destinato a finire, e piuttosto a ripetere il continuo scorrere del tempo bloccato nei ricordi. Un’attesa della stessa Felicita che non si rassegna al passare del tempo e alla sua solitudine.

Massimo Betti Merlin e Lorena Senestro sono gli animatori di una delle più interessanti esperienze off nazionali, il Caffè della Caduta, un piccolo spazio teatrale dove pubblico e artisti si incontrano prima e dopo gli spettacoli, condividendo informalmente lo spirito del teatro.

Elisa Mina

LA SIGNORINA FELICTA OVVERO LA FELICITA’
regia
Massimo Betti Merlin
spettacolo di Lorena Senestro
con Lorena Senestro e Andrea Gattico(Pianoforte)
scenografia Massimo Betti Merlin, Francesco dell’Elba
luci Francesco dell’Elba

Un walkman come diario – MaldiPalco

Siamo ancora all’interno della rassegna teatrale MaldiPalco se parliamo dello spettacolo di Ksnenija Martìnovic : DIARIO DI UNA CASALINGA SERBA , andata in scena domenica 16 ottobre presso il Tangram Teatro La Martinovic è la seconda artista selezionata all’interno delle giovani proposte del panorama italiano.

Una ragazza,

Udine, 15/11/2015 - Teatro San Giorgio - Diario di una casalinga serba - Progetto StartART - testo liberamente tratto dal romanzo Diario di una casalinga serba di Mirjana Bobic Mojsilovic - regia Fiona Sansone - interpreti Ksenija Martinovic - musiche Idoli - produzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG per startART - si ringrazia Centrale Preneste Teatro/Ruotalibera Teatro - Foto Luca A. d'Agostino/Phocus Agency © 2015

Andjelka, ripercorre la sua breve vita vissuta fino a quel giorno, breve ma estremamente piena. Da bambina vissuta nella  Yugoslavia di Tito, una bambina felice del suo paese col fazzoletto rosso legato al collo come una scout, che ripete al suo walkman chi ama: prima di tutti Tito, poi la sua famiglia.
Gli anni passano e lei è una ragazzina ormai nella bellezza del benessere economico: Trieste, la pizza, i vestiti belli, il primo amore. Non c’è piu Tito e nemmeno la Yugoslavia. Ora al suo walkman dice che c’è un altro amore, un altro ideale da seguire. Andjelka ha voglia di scoprire,  si chiede il perchè di tante cose, ma sia la sua famiglia che l’uomo che ama hanno osato picchiarla. Lei cambia, si chiude in se stessa e nelle scatole che dominano il palco, non indossa più le scarpe col tacco. Non si fa più domande, ora è lei a dover rispondere, ma la sua voce trema e non sa bene che cosa sccadrà a lei e alla sua amata terra.
La bambina inizialmente felice, che si presenta e che usa la scatola per nascondersi e giocare con la propria voce, ora è diventata una donna che non sa cosa aspettarsi dal paese che tanto ama. Lei è ancora serba, lo ripete chiaro al suo walkman, scatola di tutti i segreti, delle gioie e delle tristezze e dei punti focali della sua vita, una scatola di cui ha bisogno e che vuole riscoltare.

Un vero viaggio nel tempo grazie ad Andjelka, che ci parla nella sua lingua e nella nostra, che ci racconta con parole semplici e in poco più di mezz’ora la sua storia, la storia di molte ragazze vissute nella Serbia degli anni Sessanta-Novanta.
Uno spettacolo brillante, coinvolgente, emozionante.

Nata a Belgrado nel 1989 ma italiana per formazione teatrale,  diplomata presso la Civica Accademia D’arte Drammatica Nico Pepe, Ksenija Martinovic ha chiuso, domenica 16 ottobre alle 18.15, il primo fine settimana di Maldipalco: bilingue dalla nascita, la Martinovic ha presentato sul palco di 644_8593_iconavia don Orione Diario di una casalinga serba, lo spettacolo prodotto dal CSS Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia con cui nel 2014 ha vinto la sezione monologhi del Premio Nazionale Giovani Realtà del Teatro. Ha partecipato a In scena! Italian Theatre Festival a New York.

Elisa Mina

Diario di una casalinga serba
Liberamente tratto dal romanzo di Mirjana Bobic Mojsilovic
regia Fiorana Sansone
Musiche Idoli
con Ksenija Martìnovic

Vie di vita – MaldiPalco

Il Tangram Teatro Torino sta ospitando dal 14 al 23 ottobre una rassegna teatrale dal titolo MaldiPalco2016 che coinvolge attori di fama nazionale, riconosciuti e premiati dalla critica, e giovanissimi professionisti al fine di creare un confronto stimolante e proficuo fra generazioni diverse. Quest’anno il Tangram Teatro ha deciso di  dedicare ampio spazio a una selezione di giovani attori da tutta italia under32 , con quattro appuntamenti

Siciliano di Messina, classe 1983, diplomato alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Angelo Campolo è il primo dei selezionati per l’edizione 2016 di Maldipalco: a lui, domenica 16 ottobre alle 17 il angelo-campolocompito di inaugurare con 
I bambini della notte
il ciclo di performance riservate ai quattro giovani interpreti. Non di rado impegnato nella tripla veste di autore, regista ed attore dei suoi testi, Angelo Campolo vanta già un ricco curriculum di interpretazioni teatrali, cinematografiche e televisive, costante impegno cui, da tredici anni, affianca quello di direttore artistico della compagnia Daf per la quale ha realizzato numerosi allestimenti.

Il suo spettacolo si apre con una scenografia minimale ma molto incisiva che ci fa già intuire che si parlerà di cose lontane ma che in realtà sono molto più vicine di quanto ci sembri.
L’unico oggetto di scena è un cartello direzionale che indica le VITE. Esatto, non le “vie” di una città ma la strada di quelle vite che “Francesco” ci racconta.
Partendo da un colloquio a cui nemmeno lui sa ben rispondere con certezza,  capisce che deve andare a lavorare in quell’ospedale di cui gli hanno tanto parlato : Sant Mary Hospital, in Uganda. Li capisce veramente che significato ha la vita anche per i bambini, quella distesa di bambini che vogliono fuggire dalla guerra e si riparano nel cortile di un ospedale. E’ un luogo tanto speciale, dove anche quei bambini possono sognare.  Successivamnte, ci racconta la storia di come quell’ospedale sia stata la vita della coppia che lo ha costruito: lei canadese, lui italiano. Hanno due bambine, la seconda soffre la mancanza dei genitori che dedicano tutta la loro vita a quel’ospedale e a curare i bambini di altri. Attraverso la voce della figlia capiamo che avrebbe voluto una dimostrazione d’affetto diversa e più vera, ma sua madre e suo padre sapevano occuparsi solo di salvare vite di bambini scampati dalla guerra.

Francesco ci racconta di problemi che ci sembrano così lontani. Lui stesso alla fine ci chiede perchè e dice che ci sono anche i problemi qui e bisognerebbe parare di quelli e che ci sembrano molto più importanti. Ma la verità è che in questo mondo globalizzato dove tutti sano tutto di tutti, dove nessuno si conosce davvero: i problemi sono di tutti e ci dobbiamo preoccupare veramente delle cose che ci sembrano lontane perchè potresti ritrovarti a parlare dei tuoi stupidi problemi con un “bambino della notte”. I problemi non sono lontani, sono qui, quelli veri, vivi sul palco e ci stanno chiedendo perchè non ci muoviamo

Tutte queste immagini, queste vite di vie, sono costruite e ben chiare grazie a un magistrale utilizzo del corpo e della costruangelo-campolo-in-i-bambini-della-nottezione di immagini belle e vive. Immagini che ci trasportano su una gip che sussulta e scansa i colpi del fucile, immagini come quella di un pavimento costellato da piccole stelle che chiedono solo di sognare, facendo attenzione a non calpestare i loro magri corpicini.

I BAMBINI DELLA NOTTE
di e con Angelo Campolo
dal’omonimo libro di Mariapia Bonata e Francesco Bevilacqua
scene e costumi Giulia Drogo

 

Rita Maria Fabris racconta Altissima povertà

Venerdì 14 ottobre è la giornata che conclude l’intensa settimana di incontri, conferenze, workshop e laboratori di In Atelier. Processi creativi e dinamiche di relazione nelle “compagnie d’arte”. Rita Maria Fabris testimonia il ritorno al corpo nell’esperienza di Virgilio Sieni e della sua creazione Altissima Povertà per la città di Torino, in un racconto mitologico di nascita, passione e resurrezione attraverso cui una dimensione macrostorica si incarna nel tempo. Continua la lettura di Rita Maria Fabris racconta Altissima povertà

Focus su “teatro «en plain air» / pop / urban / site-specific”

Mercoledì 10 ottobre, laboratorio Quazza, ore 17.00. A presenziare alla conferenza ci sono Beppe Navello (direttore del TPE di Torino) e i professori Alessandro Pontremoli (curatore della conferenza), Eva Marinai, Antonio Pizzo e Federica Mazzocchi. Il focus è sul teatro «en plain air» / pop / urban / site-specific.

Manca una presenza importante, quella di Silvia Bottiroli, curatrice di arti performative e Direttrice di Santarcangelo Festival (2012-2016). Per motivazioni personali non è potuta intervenire, ma ha tempestivamente risposto alle domande del professor Pontremoli via email, creando un documento di estremo interesse che abbiamo potuto ascoltare e che ha generato un dibattito intellettualmente stimolante, a cui si è aggiunto dalle ultime file della platea il professor Antonio Attisani.

Beppe Navello ha preso la parola per primo, pronto a correre alla conferenza stampa per presentare la stagione 2016/2017 del TPE. Ci ha raccontato la nascita di Teatro a corte, e ha così introdotto il tema dell’importanza del luogo nella scelta di far svolgere uno spettacolo fuori dal teatro. La scelta di un luogo non convenzionale come, in questo caso, un luogo storico. Gli spettacoli itineranti che hanno avuto luogo nel periodo del festival sono stati prevalentemente scelti all’interno di progetti internazionali, prediligendo quelli che si trovavano a un crocevia di forme, di generi, di stili: spettacoli inediti, circo, video-danza. L’obiettivo di Teatro a corte e dei suoi organizzatori è sempre stato trovare o, meglio, ricercare nuovi spazi di libertà. Il rapporto col luogo storico in cui questi spettacoli si sono svolti è centrale. Si tratta di un rapporto biunivoco che modifica la performance stessa, in uno scambio creativo che restituisce un’esperienza differente da quella che si potrebbe vivere all’interno di un teatro. Lo stesso spettacolo svolto in due location, se gli artisti lavorano in uno scambio attivo col luogo, diventa in ognuna uno spettacolo completamente diverso. L’unicità del teatro che fa sì che la stessa opera non sia mai uguale a se stessa per via di quell’asse verticale che collega gli artisti a un pubblico sempre nuovo, si colora di differenze inedite, di originali metamorfosi nel rapporto col luogo deputato alla performance. Il luogo stesso può così essere osservato e vissuto in maniera nuova.

Silvia Bottiroli
Silvia Bottiroli

Il contributo di Silvia Bottiroli ripercorre il suo lavoro con il Festival di Santarcangelo. Partendo dall’analisi del suo approccio curatoriale e di cosa questa figura significhi, Bottiroli delinea un quadro lucido del significato che può avere nel 2016 all’interno di un festival il teatro site-specific.

“Abbiamo inteso ogni edizione del festival come l’avvio di una traiettoria di ricerca, una corsa a perdifiato dentro alla complessità di alcuni concetti e alle loro implicazioni, cercando al contempo che questi non si trasformassero in gabbie tematiche. […] la nostra scelta derivava da una forma di onestà intellettuale rispetto al lavoro artistico, che non intendevamo ridurre all’interno di un concetto o rendere in qualche modo illustrativo rispetto a un’idea, un’ipotesi o una tesi curatoriale. Allo stesso tempo, per me era forte la necessità di creare un campo di tensione e a volte di battaglia, un contesto teorico leggibile, e soprattutto di affermare attraverso questo gesto che il teatro e la danza contemporanei sono soggetti e non solo oggetti di ricerca”.

Dopo aver esplorato grazie al suo contributo il nuovo rapporto col pubblico, lo statuto delle opere contemporanee nell’opinione pubblica e il superamento dello spettacolo come forma di rappresentazione e presentazione, viene dato il via al dibattito. Il teatro fuori dal teatro, fa notare il professor Pizzo, non è una novità dell’epoca contemporanea. E’ forse più onesto ammettere che la maggior parte della storia del teatro si è svolta al di fuori dei teatri. Come circoscrivere dunque l’oggetto in analisi? Tramite il fatto che questo nuovo rapporto col luogo storico è prettamente postmoderno, risponde Pontremoli. Si tratta di un passaggio fondamentale dallo spettacolo come forma di rappresentazione/presentazione a un nuovo principio di realtà. Questi scambi inaugurano una tavola rotonda estremamente partecipata, in un dibattito in cui si esprimono professori e studenti.

Queste due ore hanno lasciato qualcosa anche a chi non ha osato inserirsi nel discorso ma ha preferito farsi arricchire dalla riflessione collettiva, estremamente ricca di spunti. Speriamo che il contributo di Silvia Bottiroli venga pubblicato presto per poterlo leggere, discutere e, perché no, poter un giorno contribuire anche noi a questo dibattito così fecondo.

Chiara Guidi, LA-VOCE-CHE-NON-C’E’. Performance conferenza nello spazio del”tra”

Per il seminario In Atelier, Processi creativi e dinamiche di relazione nelle “compagnie d’arte”, la sala piccola della Casa del Teatro Ragazzi e Giovani di Torino ospita la performance che corona la lectio mattutina Tra voce e infanzia tenuta da Chiara Guidi presso l’Aula Magna della Cavallerizza Reale. Il contesto raccolto e intimo Continua la lettura di Chiara Guidi, LA-VOCE-CHE-NON-C’E’. Performance conferenza nello spazio del”tra”

Gli Omini

E’ martedì 10 ottobre, sono le 9.50 del mattino e in aula 7 a Palazzo Nuovo siamo in tanti.  Aspettiamo gli Omini: questo il nome della compagnia teatrale, nata in Toscana nel 2006.
Francesco, Luca, Francesca e Giulia sono invece i nomi dei suoi componenti, di cui oggi qui a Torino sono presenti in tre. Sono giovani, persone intelligenti e di una straordinaria sensibilità, capaci di catturare, fin da subito, tutta la nostra attenzione, raccontandoci con sincerità e simpatia -durante il corso della mattinata- la loro storia, i loro progetti, il loro lavoro.

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Raccolgono “materiale umano”-ci dicono-, poi, lo rielaborano e lo portano in scena: questo è, in estrema sintesi, quello che fanno.  L’umanità, nella sua forma più diretta e travolgente è ciò che costituisce la linfa vitale dei loro spettacoli, l’elemento verso cui indirizzano tutte le loro energie. Un’umanità che riconoscono nella gente trovata per strada, nei bar, nei piccoli paesi, nelle bocciofile, in stazione, etc.
Il nome della compagnia non è quindi casuale. L’omino è, in dialetto toscano, un uomo qualsiasi, l’altra persona, noi stessi. Gli omini sono loro, ma siamo anche noi e gli altri. Quello che realizzano è, lo ricordiamo ancora una volta, un lavoro di indagine e di ricerca dell’umano, che si trova ovunque, anche laddove mai avremmo pensato ad un primo sguardo.

Ma come si svolge effettivamente il loro lavoro? Qual è il percorso che si nasconde dietro agli spettacoli che portano in scena?
A volte si parte da un canovaccio, da uno scheletro-guida -racconta Francesca-. Altre, lo si elabora strada facendo. Tre di loro si recano in un paese, o in un luogo specifico. Qui iniziano a guardarsi attorno, ad osservare. A questo punto si avvicinano, per una chiacchierata informale, agli individui che -ai loro occhi- sembra abbiano qualcosa di interessante, non tanto da raccontare, quanto piuttosto da comunicare. Poi li ascoltano, con semplicità. Muniti di telecamere, registratori, carta e penna, ne raccolgono i gesti e le parole.
“C’è un sacco di gente in giro che ha tantissima voglia di parlare, e che ha bisogno di essere ascoltata. Così, quando arriviamo noi, badabam, c’è chi ci vomita addosso una vita intera”-dice Francesco-.
Tutto questo si ripete per giorni, a volte addirittura settimane o mesi, alla fine dei quali si torna “a casa”. La prima fase, che viene definita “di indagine”, è conclusa. Il materiale raccolto viene consegnato a Giulia, la quale, all’interno della compagnia, ha il ruolo di dramaturg: scrive per la scena, pensando alla scena.
Tutti insieme s’impegnano infine in un difficile lavoro di interpretazione ed elevazione del materiale raccolto, sbobinato e riorganizzato. Così la realtà delle conversazioni e dei momenti vissuti viene trasformata in arte, in teatro. Passaggio necessario. Perché non sempre una conversazione è buona di per sé. Sta a loro, attraverso il teatro, cercare di trasmettere la spinta che hanno presentito dietro a quelle parole, il “non-detto”. La vivezza, per loro, qui è fondamentale. Il teatro dev’essere vivo e riuscire a toccare fin nella pancia lo spettatore seduto in poltrona, esattamente come hanno fatto con loro le persone incontrate per strada.
Per cui, nonostante questa apparente distinzione di ruoli, è facile capire come si tratti in realtà di un collettivo. Tra di loro c’è uno scambio e un confronto continuo di idee, di pensieri, di osservazioni: una fortissima passione per l’essere umano li lega in maniera profonda, portandoli a condividere quasi la totalità del loro tempo.

Quindi sul palcoscenico che cosa succede?
Gli Omini non lavorano per farci la morale, il loro teatro non vuole insegnare niente a nessuno. Loro, in maniera molto umile, cercano di rappresentare quello che hanno sentito, visto, vissuto. In realtà, il loro principale obiettivo- ci rivela Francesco- è quello di far scaturire la risata. “Perché la risata è vita ed è subito una risposta a quello che facciamo; al nostro lavoro.” -dice-. Una risata, tuttavia, insolita: sincera, ma allo stesso tempo mescolata ad una tristezza e ad un mal di stomaco infinito, con il quale lo spettatore si alza alla fine dei loro spettacoli.  Che forse non sono altro che la rappresentazione del dualismo  intrinseco all’esistenza: da un lato dolorosa ,contraddittoria, dall’altro meravigliosa. Così maledettamente e straordinariamente tragicomica.
Si potrebbe quindi parlare di una sorta di teatro terapeutico dalla direzione biunivoca. Se da un lato si ha, sul fronte degli attori, una sensibilizzazione all’ascolto in continua crescita, che diventa vero e proprio atteggiamento di vita; dall’altro abbiamo la “redenzione” di tutti quegli omini incontrati, il cui spirito viaggia ora più
leggero e meno appesantito, grazie ad una semplice chiacchierata.

Abbiamo passato insieme a loro due giorni intensi, durante i quali abbiamo avuto la possibilità di toccare con mano tutto ciò. Siamo stati mandati in strada -a gruppi di 5 persone- ad osservare, ascoltare, assorbire, lasciarci stupire, interpretare.
Abbiamo raccolto “materiale umano”; poi lo abbiamo messi in scena.  Ne siamo usciti un pochino più ricchi, un pochino più umili e un pochino più umani.
Sono stati soltanto due giorni, è vero, ma sono bastati a farci crescere.
E per questo li ringraziamo di cuore.

Loro sono gli Omini.
Vengono dalla Toscana.
E sono delle belle persone.
Verranno a trovarci il 10 Novembre al Cubo Teatro, con “Ci scusiamo per il disagio”(h21, via Pallavicino 35).
E in questa occasione non possono che farci del bene, altro bene. Perché in fondo, come dicono loro: “Siamo tutti soli, siamo tutti diversi, siamo tutti Omini”.
Siateci.

Beatrice Decaroli

Seminario Internazionale di Teatro «In atelier. Processi creativi e dinamiche di relazione nelle “compagnie d’arte”»

Tra il 10 il 14 ottobre, il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Torino, in collaborazione con l’Université Paris 8 e con l’Università Italo-francese/Université Franco-italienne, organizzerà presso la propria sede di Palazzo Nuovo (nonché negli spazi del Rettorato, della Cavallerizza Reale e di Casa del Teatro Ragazzi e Giovani) un imperdibile Seminario Internazionale di Teatro dal titolo In atelier. Processi creativi e dinamiche di relazione nelle “compagnie d’arte”, che coinvolgerà studiosi, formazioni teatrali e relatori provenienti da tutto il mondo. L’evento, coordinato da Eva Marinai, Giulia Filacanapa ed Erica Magris, si preannuncia come una preziosa occasione di approfondimento e sperimentazione, vista la nutrita kermesse di incontri, tavole rotonde, workshop e perfomance. Sono invitati a partecipare tutti gli studenti dell’ateneo e chiunque fosse interessato a scoprire qualcosa in più sul mestiere dell’attore e sulla lunga storia delle “famiglie teatrali”. Tutti gli incontri sono ad ingresso libero (fino ad esaurimento posti). Per iscriversi ai laboratori delle compagnie Gli Omini e Les Têtes de Bois è necessario prenotarsi, scrivendo a eva.marinai@unito.it (i posti sono in esaurimento). Sarà possibile assistere allo spettacolo di Chiara Guidi il 12/10 alle ore 21 presso Casa del Teatro Ragazzi e Giovani, previa prenotazione (contattare la Segreteria al numero: 011/19740280).

Dopo il salto sarà possibile consultare il programma dettagliato del Seminario. Vi aspettiamo numerosi!

Logo del Seminario Internazionale
Logo del Seminario Internazionale

 

10 ottobre, ore 10.00-12.00 (Aula 7, 1° piano di Palazzo Nuovo, via sant’Ottavio 20) e ore 17.30-19.30 (Laboratorio Quazza, seminterrato di Palazzo Nuovo); 11 ottobre, ore 10.00-12.00 (Aula 7, 1° piano di Palazzo Nuovo)

Gli Omini - ph: Gabriele Acerboni
Gli Omini – ph: Gabriele Acerboni

Gli Omini
Workshop sulla scrittura scenica a partire dai materiali raccolti in strada (racconti, testimonianze, gesti, suoni) condotto dalla
Compagnia: Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Giulia Zacchini

Gli Omini vogliono condividere con gli studenti il proprio metodo di lavoro. La compagnia dal 2006 crea i propri spettacoli tramite una ricerca continua sul campo, un campo che è la strada principale di un paesino, il bar, la chiesa, le stazioni, i treni, le scuole, le bocciofile. Negli anni hanno accumulato una quantità enorme di quello che loro chiamano “materiale umano”, una serie di racconti, confessioni, sfoghi che la gente incontrata ha lasciato loro in regalo. Un materiale che è stato lo spunto di molti spettacoli. Spettacoli che hanno in comune, oltre al metodo di costruzione, una comicità amara, la voglia di far riflettere lo spettatore attraverso il riso. Nei due giorni di laboratorio gli Omini metteranno a disposizione parte del loro archivio e allo stesso tempo faranno in modo che gli studenti stessi diventino un po’ Omini, facendoli indagare, ascoltare, scegliere e scrivere, per mettere in scena un piccolo spaccato di realtà.
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10 ottobre, ore 15.00-16.00 (Laboratorio Quazza, seminterrato di Palazzo Nuovo)

Teatro delle Ariette
Teatro delle Ariette

Teatro delle Ariette
Incontro su Teatro naturale? Moi, le couscous et Albert Camus a Parigi – a cura di Giulia Filacanapa e Erica Magris. Con 7′ del video-documentario sulla compagnia, realizzato da Livia Giunti per il progetto PHC Galilée 2016
+ ore 16.00-17.00: Focus su A. Camus e sulle “scritture sceniche” di L’étranger e Caligula
Tavola rotonda: Stefano Pasquini e Paola Berselli, Franca Bruera, Eva Marinai, Armando Petrini

«Abbiamo deciso di fare questo spettacolo per parlare dell’oggi. E per parlare dell’oggi abbiamo pensato di raccontare una storia di
molti anni fa, quando avevo 17 anni. L’incontro con l’amore mi ha aperto le strade della conoscenza, mi ha fatto mangiare per la prima
volta il couscous e mi ha fatto scoprire Lo straniero di Albert Camus, un libro che mi ha cambiato la vita e mi ha messo di fronte
all’eterno conflitto tra uomo naturale e uomo sociale. In questo nostro spettacolo si intrecciano e si confondono il passato e il presente: il passato della storia che raccontiamo e il presente dello spettacolo che stiamo facendo. Perché il teatro si fa solo al presente e parla solo di oggi anche quando racconta storie di molti anni fa » (Stefano Pasquini).

All’incontro con la Compagnia delle Ariette farà seguito un approfondimento sul teatro di Albert Camus e su alcune riscritture italiane, tra cui Caligola di Carmelo Bene e Lo straniero di Marco Baliani.
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11 ottobre, dalle ore 17.00 (Laboratorio Quazza, seminterrato di Palazzo Nuovo)

Silvia Bottiroli
Silvia Bottiroli

Silvia Bottiroli
Curatrice di arti performative, Direttrice di Santarcangelo Festival (2012-2016). Incontro a cura di Alessandro Pontremoli
Focus su Teatro «en plein air» /pop / urban /site-specific
Tavola rotonda: Silvia Bottiroli, Federica Mazzocchi, Beppe Navello, Alessandro Pontremoli, Antonio Pizzo

Scrive Fabrizio Cruciani nel suo volume Lo spazio del teatro: «Lo spazio non è soltanto una qualità della realtà fisica quanto piuttosto una struttura storica dell’esperienza; è qualcosa cioè che costruisce visione». Nel momento storico in cui ogni idea forma di teatro è stata
messa in crisi e smantellata, lo spettacolo sembra ritornare al momento che precede la nascita di questa idea forma: allo spazio del teatro medievale, alla piazza, al sagrato, alla strada. Gli spazi aperti sono tornati ad essere quelli in cui l’evento accade ed è qualificato non solo dall’azione del performer, ma dagli oggetti simbolo di fronte ai quali questa azione si consuma (simboli che acquistano senso e danno senso), e dai corpi di chi è presente a questa azione. Al di là del gioco di parole: la presenza è quella di chi qualifica questo spazio proprio in virtù della sua presenza.
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12 ottobre, ore 10.30-12.30 (Aula Magna della Cavallerizza Reale, Via Verdi 9)

Chiara Guidi (Societas)
Chiara Guidi (Societas)

Chiara Guidi (Societas), Tra voce e infanzia
Incontro a cura di Eva Marinai e Erica Magris
Con il patrocinio dell’Università di Torino

«Credo che il mio lavoro si ponga tra infanzia e voce, per la loro capacità di sollevare qualcosa che non si vede ancora e di credere in
ciò che ancora non è. Per questo voglio stare con la cultura di cui i bambini sono portatori. Stare con gli infanti, coloro che vivono
prima del linguaggio, per ritrovare la mia voce e per serrare in me il mistero della vita» (Chiara Guidi). L’artista ci renderà partecipi della sua poetica, raccontandoci il lavoro sulla “tecnica vocale” e il “metodo errante”, pratica che mette in gioco i due fronti della rappresentazione: l’azione e la recezione, includendo lo sguardo dei bambini e la loro tendenza spontanea a prendere iniziative.
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12 ottobre, ore 21.00 (Casa del Teatro Ragazzi e Giovani, Corso Galileo Ferraris 266) – costo: 5 € (previa prenotazione)

Chiara Guidi (Societas), Relazione sulla verità retrogada della voce
Performance-concerto di e con Chiara Guidi
Con il patrocinio della Città di Torino e in collaborazione con la Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani
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12 ottobre, ore 15.00-16.30 (Aula Multifunzione della Cavallerizza Reale)
* 14 ottobre, ore 15.00-18.00 (Aula Magna del Rettorato, ingresso da via Verdi 8 e da via Po 15)

Compagnie Les Têtes de Bois
Compagnie Les Têtes de Bois

Compagnie Les Têtes de Bois (Montpellier)
Workshop sul teatro con le maschere, condotto da Mehdi Benabdelouhab e Valeria Emanuele
a cura di Giulia Filacanapa
+ * 14 ottobre, ore 18.00: Focus su La magia della maschera tra occidente e oriente
Tavola rotonda: Edoardo Giovanni Carlotti, Giulia Filacanapa, Eva Marinai

Lo stage proposto dalla compagnia francese Les Têtes de Bois é un momento dedicato all’utilizzo scenico della maschera. I partecipanti
avranno modo di scoprire e utilizzare le maschere della Commedia dell’arte, quelle della tradizione balinese, ma anche maschere
contemporanee e maschere di animali. Chi sa suonare uno strumento lo porti. Chi sa cantare si scaldi la voce. Tutti i talenti saranno i benvenuti. Il lavoro sulle improvvisazioni sarà condotto dal regista Mehdi Benabdelouhab che cercherà di guidare l’attore, mostrandogli la strada. A volte si trovano delle pepite d’oro, a volte solo dei granelli di sabbia. A volte nulla. Il nulla, il tunnel. L’importante non è quello che si trova, ma l’atto stesso di cercare.
«Tout est vrai, vous n’êtes qu’à la recherche du vrai» (A. Mnouchkine).

Per questo laboratorio la Compagnia chiede necessariamente una tenuta da lavoro così composta: pantaloni, maglietta manica lunga e calze tutto nero, capelli raccolti.
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13 ottobre, ore 10.00 (Laboratorio Quazza, seminterrato di Palazzo Nuovo)

Alessandra Rossi Ghiglione
Alessandra Rossi Ghiglione

La bottega del dramaturg
di Alessandra Rossi Ghiglione

«Credo che il lavoro e la passione di chi scrive per qualunque forma di teatro sia quella di dare voce ai molti. I molti incontrati nella vita e nell’immaginazione, persone che diventano personaggi e personaggi che prendono carne negli attori. Perché il teatro è sì linguaggio, ma è fra tutti il linguaggio più “addosso” alla vita che conosciamo. La bottega del dramaturg è una sartoria della scrittura, uno spazio sperimentale per un gruppo di giovani dove inseguire la propria personale declinazione di dramaturg: autore flessibile, dotato di creatività e poetica propria e insieme capace di ascolto e servizio nei confronti di altri autori, dal regista, agli attori alla comunità del pubblico».
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13 ottobre, ore 11.00 (Laboratorio Quazza, seminterrato di Palazzo Nuovo)

Cuocolo-Bosetti (Iraa Theatre)
Cuocolo-Bosetti (Iraa Theatre)

Cuocolo-Bosetti, Iraa Theatre (Australia)
incontro a cura di Silvia Mei

«Il Teatro è un arte contaminata. Un’arte contaminata dalla vita. (Il corpo dell’attore, il luogo fisico, la presenza dello spettatore)»
Il teatro di Cuocolo-Bosetti / Iraa Theatre offre un ritorno al quotidiano attraverso elementi e dispositivi di quella stessa realtà.
Rielaborando contenuti quasi esclusivamente autobiografici, coi loro spettacoli invitano a ripensare le consuete barriere tra realtà e
finzione, attore-personaggio, spazio pubblico e privato, spettatore e partecipante, aprendo luoghi di relazione in spazi non deputati
dove la coppia abita o ha transitato.
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13 ottobre, ore 15.00 (Laboratorio Quazza, seminterrato di Palazzo Nuovo)

Giorgia Cerruti e Davide Giglio (Piccola Compagnia della Magnolia)
Giorgia Cerruti e Davide Giglio (Piccola Compagnia della Magnolia)

Piccola Compagnia della Magnolia
Giorgia Cerruti e Davide Giglio, Il Viaggio degli Atridi
Incontro a cura di Giulia Menegatti
+ ore 16.00-17.00: Focus su Mito, ri-scrittura, vissuto
Tavola rotonda: introduce Giulio Guidorizzi; partecipano: Giorgia Cerruti, Davide Giglio, Giulia Palladini, Giulia Randone, Eva
Marinai

Un viaggio tra le metamorfosi del mito e del rito. L’appuntamento intende da un lato ripercorrere il lavoro “di compagnia” della
Magnolia e dei progetti “Teatro Abitato” e Atridi. Metamorfosi del rito, dall’altro indagare il rapporto tra ricadute del mito greco sulla
scena contemporanea e sguardi autobiografici. L’obiettivo è capire qual è il ruolo svolto dalla scena teatrale nell’elaborazione collettiva
della coscienza tragica: scena in quanto topos privilegiato in cui il “discorso mitico” può mettere in atto un processo di rienunciazione,
rinarrazione e riattivazione. «Chi sono i Greci?» significa anche «chi siamo noi?»
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14 ottobre, ore 10.00 (Laboratorio Quazza, seminterrato di Palazzo Nuovo)

Logo di Mapa Teatro
Logo di Mapa Teatro

Mapa Teatro
Storia, Allegria e la Politica del Montaggio

di Giulia Palladini (Kunsthochschule Berlin-Weißensee)

L’intervento rifletterà su alcuni nodi della poetica e della politica del lavoro artistico di Mapa Teatro, piattaforma di artisti attiva a
Bogotà e fondata dai tre fratelli di origine svizzero-colombiana Elizabeth, Heidi e Rolf Abderhalden. A partire da una presentazione delle caratteristiche fondamentali del lavoro di Mapa Teatro, laboratorio artistico permanente attivo da trent’anni a livello internazionale, l’intervento si concentrerà in particolare sugli aspetti distintivi del processo creativo alla base dei loro numerosi progetti, che si muovono in un orizzonte radicalmente transdisciplinare, che comprende il teatro, così come il video e l’installazione. Come esempio della lunga durata e della complessità di tale processo creativo, osserveremo in particolare l’ultimo progetto realizzato
da Mapa Teatro: la trilogia Anatomia della Violenza in Colombia.
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14 ottobre, ore 11.00 (Laboratorio Quazza, seminterrato di Palazzo Nuovo)

Virgilio Sieni
Virgilio Sieni

Famiglie danzanti: Virgilio Sieni a Torino
di Maria Rita Fabris

A partire dalle condizioni politico-economiche che hanno reso possibile la creazione di «Altissima povertà» di Virgilio Sieni alla Galleria Grande della Reggia di Venaria grazie alla mediazione de La Piattaforma di Mariachiara Raviola, l’intervento andrà ad approfondire i principi sottesi alle dinamiche associative e d’impresa culturale proprie delle nuove pratiche di danza (ascolto, sostegno, cura, condivisione, bellezza, comunità), che permettono quel contatto umano, fisico e simbolico, che mentre crea una famiglia danzante fa intravedere una comunità utopica.
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(* Le attività proseguono negli orari sopraindicati)

Per ulteriori informazioni, consultare gli eventi FB:
Seminario Internazionale di Teatro
Il Teatro di Chiara Guidi

 

 

Seminario Internazionale di Teatro (Torino, 10-14 ottobre 2016)
IN ATELIER | DANS les ATELIERS
Processi creativi e dinamiche di relazione nelle “compagnie d’arte” | Processus de création et dynamiques de relation dans les “compagnies d’art”

Direzione scientifica e artistica: Eva Marinai (Università di Torino)

Comitato scientifico e promotore: Silvia Bottiroli (Università Bocconi Milano), Franca Bruera (Università di Torino), Giulia Filacanapa (Université Paris 8 Vincennes-Saint-Denis), Erica Magris (Université Paris 8 Vincennes-Saint-Denis), Eva Marinai (Università di Torino), Federica Mazzocchi (Università di Torino), Giulia Palladini (Kunsthochschule Berlin-Weißensee)

Organizzazione: Giulia Filacanapa, Eva Marinai, Giulia Randone

INTERVISTA A STEFANO SABELLI: L’ARTE PER VINCERE CONTRO OGNI LIMITE

Ha debuttato in prima nazionale il 29 giugno 2016 (con replica il 30 giugno), in occasione della trentottesima edizione di Asti Teatro, il capolavoro goldoniano LA LOCANDIERA O L’ARTE PER VINCERE nella nuova edizione prodotta dalla Compagnia del LOTO di TEATRIMOLISANI presso il Teatro Giraudi di Asti.

È stata la talentuosa Silvia Gallerano a indossare gli abiti in stile anni ’50 di una Mirandolina che tenta a tutti i costi di intraprendere la via dell’emancipazione. Con lei un asciutto e caustico Claudio Botosso nel ruolo del Cavaliere di Ripafratta e molti altri quali Dario Florio, Eva Sabelli, Giorgio Careccia, Chiara Cavalieri e Andrea Ortis.

La vicenda si svolge nel Delta del Po, in un’atmosfera acquitrinosa e a tratti onirica. Ce ne parla meglio l’eclettico Stefano Sabelli, regista di questa commedia.

Stefano Sabelli BR

 

Sabelli ha creato un riadattamento dello spettacolo di Goldoni, mantenendo fede al titolo originale aggiungendo però un sottotitolo: l’Arte per vincere. Che cosa significa esattamente?

Anzitutto da un lato si tratta di una battuta del monologo pronunciata da Mirandolina – protagonista della commedia – decisa ad andare a sedurre per la prima volta il Cavaliere di Ripafratta, famoso per la sua accesa misoginia, dunque, in questo senso, altro non si intende se non la vittoria del gioco di seduzione e dell’arte femminile; e dall’altro lato questo sottotitolo mi piaceva perché, secondo me, in Italia è rimasta unicamente l’arte come mezzo per vincere qualcosa!

“Visto che gli altri sono sordi mi fingo sordo per mantenere il teatro”, una frase che lei ha riportato in una precedente intervista a proposito di uno spot di cui era protagonista e che appunto si lega un po’ con il discorso precedente. Dunque è davvero attendibile?

(Ride) Sì, sì è verissimo! L’intervistatore mi aveva chiesto come mai avessi scelto di fare pubblicità e io gli ho spiegato che è uno dei tanti mezzi che mi permettono di fare teatro.

Quel “gli altri sono sordi” era chiaramente riferito agli enti pubblici nello specifico e anche ai nostri enti pubblici molisani visto che la compagnia comunque è residente in Molise. Intendevo dire che ormai l’unico modo per fare teatro e soprattutto per mantenere il teatro è anche questo. Io appunto ho mantenuto il teatro facendo la televisione, il cinema e la pubblicità. Non avrei potuto fare il contrario altrimenti, detto molto francamente.

Come al solito la scelta delle sue scenografie non è casuale, al contrario è parecchio significativa e simbolica: ricordo infatti l’utilizzo di una gabbia carceraria nello spettacolo Autodafè del caminante; in questo riadattamento goldoniano si utilizza invece una locanda-palafitta su di un girevole che si muta ora in una nave corsara ora in una casa di frontiera. Perché questa scelta?

Sì, nell’ Autodafè il pubblico si siede in questa gabbia carceraria svolgendo non solo il ruolo di spettatore ma anche di corte giudiziaria; è sicuramente un’esperienza particolare, quest’anno tra l’altro lo riprenderemo proprio a Torino.

Generalmente a livello concettuale posso sostenere che non mi piace lavorare esclusivamente sulla quarta parete, oltretutto in un’idea di teatro contemporaneo diventa riduttivo pensarla in questo modo. Il teatro nei secoli è sempre stato l’arte che ha condiviso e assorbito tutte le arti possibili. Oggi, per esempio, fare teatro senza pensare che esista il cinema, il linguaggio multimediale, senza tener conto delle nuove sonorità che si stanno affermando è impossibile nonché ridicolo; è pleonastico rimanere legati a un concetto dell’ottocento! Ora, questo spettacolo, è molto più tradizionale di quel che può sembrare: noi usiamo un meccanismo girevole che ci permette di creare contemporaneità fra delle azioni teatrali, rispettando comunque le indicazioni presenti nel testo goldoniano. L’unica variante che abbiamo realmente apportato, è un esterno (assente in Goldoni) e un interno, al fine di cercare di mantenere l’azione sempre viva; sapere infatti che l’azione è contemporanea e che perciò un fatto succede subito dopo l’altro in qualche modo ti tiene sul pezzo e mantiene viva la tensione…

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Come mai hai scelto proprio Silvia Gallerano per il ruolo di Mirandolina?

Perché sono rimasto folgorato da La Merda! È stato sicuramente uno spettacolo che mi ha colpito! È forse dal punto di vista interpretativo, uno dei più importanti degli ultimi dieci anni in Italia, non è un caso che abbia ricevuto parecchi premi a livello internazionale! Mi è piaciuta la sua la fragilità, la sua comicità che sapeva far anche commuovere; sotto certi versi mi ha ricordato un po’ Franca Valeri.

Silvia, ti sei chiesta come poteva essere Mirandolina negli anni ’50, rispetto alla Mirandolina settecentesca goldoniana?

Sicuramente la suggestione che avevamo sia io sia Stefano era quella di capire come non far diventare questo testo soltanto un testo di maniera, cercare quindi di tirar fuori una verità: quello che è venuto fuori è la totale verità di Mirandolina, in tutto quello che dice , da quando è maliziosa a quando è innamorata… perciò se dovessimo avvicinarla all’oggi o comunque al secolo passato diciamo che rappresenterebbe un personaggio dalle più svariate sfacettature.

Silvia [interviene Sabelli] ha molte verità ma tutte estremamente credibili, una contraria all’altra, non va per schemi, ed è proprio lì che risiede la sua modernità.

Perché la scelta di ambientare la vicenda negli anni ’50?

Il tutto parte da un’analisi del personaggio di Mirandolina, unica protagonista femminile di tutta la drammaturgia goldoniana, la quale rappresenta il carattere di una donna che non è rivoluzionaria, dal momento che utilizza ancora la malizia delle arti femminili per irretire gli uomini, ma che inizia a presentare tratti di emancipazione femminile. Si tratta infatti di una donna che cerca di affermare una propria identità su tutto e su tutti. Negli anni’50, quando lo abbiamo ambientato noi, sta succedendo esattamente la stessa cosa: io mi sono ispirato a Riso Amaro di De Santis perché lì le mondine diventano in qualche modo partecipi della loro vita, prendendone le redini nelle  loro mani; non dimentichiamoci poi del suffragio universale in Italia del ’46 che segna un periodo di svolta nella storia femminile.

Ovvio Mirandolina non è Rosa Luxemburg , non è nemmeno una femminista lineare, può essere però immaginata come una donna in una fase di pre contemporaneità e dunque di pre modernità in cui decide di rendersi indipendente e libera, esclusivamente con i propri mezzi di seduzione e di spirito d’accoglienza; concetto che peraltro è andato tristemente scomparendo nel nostro Paese.

Mirandolina di fatto è accogliente con i propri ospiti, ma questo, a parer mio, è una dote!

Nella nostra lettura abbiamo inoltre reso la donna maggiormente intrigata dal Cavaliere di Ripafratta, rispetto a quanto lo sia nel testo originale, spingendo su certi tratti di passione amorosa ambigui e non del tutto svelati.

Che ruolo ha la musica in questo spettacolo?

La musica è molto presente: abbiamo deciso di utilizzare il personaggio del marchese di Forlimpopoli (Andrea Ortis) che peraltro parla in veneto e rappresenta una sorta di “dandy fuorimoda”, come baluardo di quel gusto popolare per l’opera lirica, che è tipico della zona della Padania (Parma, Reggio, Ferrara). Per cui per tutta la durata della messa in scena, parla e canta indistintamente arie d’opera e arie di canzonette, come ad esempio “Ma l’amore no” e tante altre dell’epoca. Subentrano poi gli swing di Glenn Miller. Anche per la musica ritorna il riferimento a Riso Amaro e a Ossessione di Visconti, ma anche a De Sica in Ieri oggi e domani: ho infatti ripreso una scena proprio dal duetto tra la Loren e Mastroianni.

Possiamo dire allora che le tue messe in scena risentono parecchio dell’influenza del cinema?

Assolutamente, il cinema influisce particolarmente, soprattutto come linguaggio. Non solo il cinema però, anche l’arte contemporanea. Peraltro a me piace lavorare sui classici in maniera moderna: quest’anno ho deciso di fare un lavoro sul Saul, che ha debuttato su diversi palchi già qualche tempo fa, dando una matrice tutta yiddish, tutta legata alla musica Klezmer mischiata al Requiem di Mozart (contemporaneo di Alfieri) data la sua estrema modernità di linguaggio.

Quando lavoro sui versi penso sempre al cinema, sarebbe impossibile il contrario! Mi sono reso conto che ci sono ormai delle convenzioni teatrali che oggi non reggono più: ho messo in scena , ormai nel 2003, un Romeo e Giulietta che era tutto itinerante, ambientato negli anni ’30 fra il jazz e lo swing, tra due famiglie italo-americane, ho dovuto prendere Diego Florio, che peraltro qui interpreta Fabrizio, ma che ai tempi interpretava appunto Romeo e mia figlia Eva che interpretava Giulietta, qui Dejanira, in quel caso uno aveva 20 anni e l’altra 16, quindi possedevano un’età coerente col testo, ed è stato in quel momento che ho capito che se avessi voluto prendere attori più maturi questo sarebbe stato impossibile, poiché lo spettatore di teatro, come quello del cinema, non crede più ad una Giulietta di 40 anni! Ecco allora, in questo senso, oggi, mi ritrovo “costretto” ad assumere certi linguaggi del cinema, così come sono costretto a tener conto di certe verità. Ed è proprio il cinema che ti costringe oggi a recitare a teatro in maniera non barocca.

Rimane poi il fatto che è bello, secondo me, portare nei classici delle suggestioni che ci sono oggi! Ho fatto ad esempio un Amleto nel 2005 con Giorgio Careccia, portandolo tutto in un’ambientazione giapponese fra samurai, con costumi tipici quali il kimono, e con riferimenti al linguaggio giapponese, inserendoci e mischiando dell’altra musica: all’inizio lo spettacolo si apre sulle note di Elvis Presley per confluire nel duello con le katane fra Amleto e Polonio scandito da “All along the watchtower” di Bob Dylan eseguita da Jimi Hendrix.

(Sorride) La mia cultura in fondo è quella del rock ed esso è il mio vademecum, anche nella mia esperienza teatrale; penso sia proprio questa la bellezza di linguaggi diversi.

A proposito di influssi non occidentali: lei è fondatore del Teatro del Loto, allestito secondo il gusto orientale e curato in ogni minimo dettaglio per garantire versatilità, perché questa scelta di allestimento?

Devo dire che è stata una scommessa, io ero direttore artistico del Teatro Savoia di Campobasso, un giorno entrai in questa sala parrocchiale in occasione di un invito di amici per vedere una commedia di Pirandello, e vidi questo spazio che offriva parecchie possibilità di trasformazione, quindi già da lì mi feci un’idea molto precisa per l’allestimento. Ottenni poi dalla curia la possibilità di rilevarla. Insomma ho fatto un investimento insieme alla cooperativa che ho fondato, e soprattutto privatamente, perché volevo creare uno spazio per i giovani, volevo creare uno spazio propedeutico a tale professione. Ho cercato di creare un luogo il più accogliente possibile, dove gli artisti si potessero sentire a casa.

Oggi molte personalità importanti considerano il Loto come il più bel piccolo teatro d’Italia, e devo dire che sono passati parecchi artisti: da Silvia Orlando a Elio Germano, da Fabrizio Gifuni a Silvia Gallerano, altri come Nanni Moretti, Sgarbi e Gassman ci hanno donato, secondo un’usanza tipica del teatro, la sedia in platea.

Posso affermare con orgoglio che oggi siamo riusciti a creare una compagnia che ha permesso di “coltivare” il nostro territorio, creando delle professionalità assenti prima nel nostro territorio; il cast attoriale e la troupe tecnica è infatti composta totalmente da enti molisani.

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Perché ha scelto di adottare il nome di un fiore?

Nella cultura buddista il fiore del Loto è un fiore che nasce nella stagnazione e i suoi petali sono perfetti nonostante la matrice di melma da cui si formano, questo sta a significare che le cose più preziose si originano da ambienti spesso impervi e dai quali nessuno si aspetterebbe nulla di buono… Io poi l’ho utilizzato anche come acronimo di LIBERO OPIFICIO TEATRALE OCCIDENTALE.

Quanto tempo ha impiegato per la realizzazione del suo teatro?

Eh, ci ho messo ben cinque anni. Mi serviva anche del tempo per trovare i soldi! Penso però che ne sia valsa la pena perché ha reso più felice qualcuno; penso anche a molti attori della compagnia, come Giulio Maroncelli, che qui interpreta il servo, che è proprio cresciuto nel Loto, e come lui, così tanti altri, i quali sono entrati nella compagnia ancora liceali e ne sono usciti professionisti.

Siamo poi riusciti a farci riconoscere come Compagnia dal Ministero dei Beni e della Cultura, nonostante ci siano ancora delle difficoltà a gestire questo spazio, tipiche del mestiere.

Il Loto prevede dei corsi di formazione teatrale anche per bambini, c’è quindi una volontà di “investire” sulle generazioni future nonostante questo momento di crisi per il teatro e per tutta la cultura?

Direi proprio di sì, ritorna infatti il concetto di “arte per vincere”, l’arte per vincere le paure della propria vita, l’arte per vincere la propria condizione sociale, poiché se si ha talento nessuno può fermarti; certo, siamo in un Paese dove questo non viene riconosciuto, ma se lo si possiede ci si può allora permettere di “scappare”, di abbandonare qualunque condizione si abbia, sia essa di povertà o di ricchezza. Il talento, difatti, aiuta a vincere la vita, a superare i propri limiti, è l’unica possibilità, secondo me, nel mondo occidentale…

L’arte poi sta anche per mestiere, dunque l’Arte per vincere è l’industriarsi per vincere, il mettere in gioco se stessi, che è poi quello che fa qui Mirandolina e che dovrebbe fare anche questo Paese, dunque anche qui i bambini imparano a mettersi in gioco con loro stessi sin da subito.

È solo l’arte che consente di andare oltre al proprio limite, permettendo un riscatto personale e aiutando gli altri a stare bene. In fondo avrei potuto inserire come sottotitolo l’Arte per vincere appunto o l’Arte per essere felici e sarebbe stata la stessa cosa!

Adesso quali sono i suoi progetti futuri?

Subito dopo la Locandiera, mi accingo a interpretare Re Lear, attraverso uno studio sulla pazzia nella senilità del potere e nella famiglia. Mi auguro possa andare al meglio!

 

Martina Di Nolfo

 

 

ASTI TEATRO 38

Direzione Artistica: Comune di Asti

 

Mercoledì 29 giugno – ore 20

Giovedì 30 giugno 2016 – ore 19

 

presenta

in Prima Nazionale

 

una produzione

 

Teatro del LOTO

Libero Opificio Teatrale Occidentale

di TeatriMolisani – Ferrazzano CB

 

 

Silvia Gallerano (Mirandolina)

Claudio Botosso (Cavaliere di Ripafratta)

 

in

LOCANDIERA

o l’Arte di Vincere

di Carlo Goldoni

 

 

 

 

 

adattamento e regia Stefano Sabelli

 

con

Giorgio Careccia – Conte di Albafiorita

Andrea Ortis – Marchese di Forlimpopoli

Chiara Cavalieri – Ortensia

Eva Sabelli – Dejanira

Diego Florio – Fabrizio

Giulio Maroncelli – il Servo

Piero Ricci – il Fisarmonicista muto

 

scene Lara Carissimi

decorazioni sceniche Michelangelo Tomaro

costumi Martina Eschini

disegno luci Daniele Passeri

aiuto regia Giulio Maroncelli

foto di scena Mauro Presutti

 

Teatro Giraudi (Asti)